PIER PAOLO PASOLINI E BILL VIOLA - PARTE II

A cura di Silvia Donati

 

Introduzione: l'arte che riflette il passato

Il titolo “L’arte che riflette il passato” risulta decisamente appropriato in riferimento al percorso artistico di Bill Viola. Il riflesso a cui facciamo riferimento è quello dello specchio d’acqua, l’acqua che genera la vita, l’acqua del battesimo, l’acqua che è inizio di tutto.
Questo elemento naturale, che racchiude in sé molteplici significati simbolici, sarà paradossalmente  causa di uno dei traumi più grandi di Bill Viola. Da piccolo, a 6 anni, rischia di affogare in un lago ma viene fortunatamente salvato dallo zio. Sarà quindi proprio l’acqua la protagonista più presente delle sue video installazioni, in tutte le sue numerose possibilità di manifestarsi, come battesimo o resurrezione ma anche come pioggia o tzunami. E sarà anche mezzo di espressione di un passato figurativo che da sempre influenza l’artista.

 

Bill Viola

Bill Viola nasce a New York nel 1951, i suoi primi lavori prendono vita nel 1973, nel 1983 è professore in "Advanced Video" al California Institute of the Arts di Valencia, nel tempo diventerà uno degli artisti contemporanei più affermati nell’ambito della videoarte.

 

Quello che a noi oggi interessa è il percorso di maturazione e trasformazione messo in atto da Viola nel suo linguaggio visivo che attinge, necessariamente, a un linguaggio più antico, a volte rinascimentale a volte ancora più primitivo.
E’ interessantissimo come riesca a coniugare passato e presente in maniera totalmente naturale, non artefatta, lasciando a noi spettatori la possibilità di essere accompagnati per mano all’interno delle storie raccontate da queste opere multimediali  e percepirne comunque l’attaccamento a una solida radice, che è quella della nostra tradizione artistica.
Un esempio lampante è sicuramente “Transfiguration” (2007) dove un essere androgino si trova ad attraversare una enorme cascata d’acqua, generata dall’alto, camminando verso di noi e poi ritornare verso questa voltandoci le spalle.
Il tutto è espresso con la tecnica del rallenty e un sottofondo sonoro piuttosto inquietante.
Il significato simbolico dell’attraversamento dell’acqua è sicuramente acuito dagli effetti visivi, che Bill Viola sapientemente utilizza per poter letteralmente immergere il fruitore in questo passaggio di purificazione.

Le opere in cui Viola esprime il ruolo fondamentale dell’acqua sono molteplici, abbiamo preferito soffermarci su alcune di queste, presentate in occasione di una delle grandi mostre tenutasi in Italia nel 2017 a Palazzo Strozzi: “Rinascimento elettronico”.

 

A Firenze è stato trattato uno spaccato dell’enorme produzione visiva di Bill Viola, con uno zoom sulla “rinascita”, attraverso la macchina da presa, dell’antico. Sono state infatti affiancate opere come  “La Pietà” di Masolino (1424), “La visitazione” del Pontormo (1518) e il “Diluvio universale” di Paolo Uccello (1404) a video installazioni direttamente ispirate a quest’ultime. Interessante è stato veder dialogare in maniera semplice e leggibile, nel percorso espositivo proposto da Palazzo Strozzi, questi due tipi di linguaggi apparentemente troppo distanti.
Tra le prime opere proposte “The Emergence” (2002) riprende come ispirazione figurativa la Pietà di Masolino dove Gesù è stato appena deposto dal  sepolcro, sorretto per le braccia da Maria a sinistra e San Giovanni  a destra . Bill Viola reinterpreta il tutto in un video in cui lo sfondo è quello di un set fotografico, annulla la presenza della croce, riproduce fedelmente il sepolcro masoliniano e, inserendo i tre personaggi principali, sostituisce la figura di San Giovanni con un’attrice donna, dando poi al corpo dell’attore che interpreta Gesù, un incarnato totalmente bianco.

La pellicola si sviluppa con la “firma” del rallenty in un movimento molto suggestivo del corpo di Gesù che, invece di essere deposto piano piano, sta uscendo dal sepolcro; questo gesto, inevitabilmente e pesantemente lento, provoca la fuoriuscita dell’acqua come se il corpo del Cristo fosse immerso in una vasca. Il video progredisce però con uno strano effetto di cascata e di quest’acqua che continua a sgorgare copiosa, nonostante il corpo sia, quasi del tutto, ormai emerso.
L’elemento naturale diventa il vero protagonista dell’opera in quanto il fruitore si sofferma ad osservare quello strano sgorgare inarrestabile interrogandosi sul perché.
In un contesto che supera la leggi della fisica, le due attrici sono posizionate in ginocchio pronte ad accogliere e a sorreggere questo corpo nudo totalmente bianco che piano piano, dopo essere completamente emerso, si abbandonerà sulla figura di destra e , mentre quella di sinistra solleverà le gambe, verrà lasciato disteso fuori dal sepolcro decretando così la fine del video.

 

In “The greeting” (1995) invece, l’ispirazione è di matrice manierista, Bill Viola si rifà visivamente alla “Visitazione” del Pontormo in cui in un contesto esterno, poco definito, Maria incontra sant’Elisabetta in un abbraccio davanti alle figure stanti di due donne che hanno lo sguardo fisso verso lo spettatore.
Evidente è il cangiantismo delle vesti, il loro movimento e rigonfiamento mostrano i caratteri tipici di quella corrente che accompagnerà l’arte figurativa al Barocco.
La trasposizione filmica vede due donne che stanno accogliendo una terza, in arrivo da sinistra,  in dolce attesa,  che, in abiti molto colorati e moderni tende le braccia a una delle altre due figure.
Proprio come quando ci troviamo in aeroporto o in stazione, spiega Viola in un video in cui mostra la genesi dell’opera, siamo catturati dai saluti, che siano di ritrovo, di incontro o di addio, in loro, allo stesso modo è evidente l’importanza del contatto tra persone e vorremmo conoscerne la storia che c’è dietro, perché è un atto che ci coinvolge involontariamente.
Dà una spiegazione simbolica a quell’incontro che diventa non solo un racconto biblico bensì universalmente condiviso anche nel contemporaneo: il voler esserci per l’altro.

“The deluge” (2002) potrebbe definirsi un mediometraggio in quanto la pellicola digitale dura più di mezz’ora, periodo in cui una telecamera fissa inquadra l’ingresso di una casa a due piani, divisa simmetricamente dalla porta al centro. Apparentemente non succede nulla se non un via vai di gente che piano piano va ad accelerare l’andamento, persone che ogni tanto si fermano a chiacchierare per poi proseguire nella propria traiettoria, altre invece stanno compiendo un trasloco proprio nell’edificio sullo sfondo. Questa apparente tranquillità, che occupa tre quarti del video, sarà improvvisamente interrotta da un enorme tzunami proveniente proprio dall’edificio che mostrerà lo sgorgare dell’acqua, prima dalla porta (travolgendo le persone sulle scale) poi dalle finestre. La forte potenza distruttrice, dell’elemento caro a Bill Viola, travolgerà gli astanti lasciando a noi spettatori un enorme vuoto quasi definibile esistenziale.
Il tutto terminerà con un inquietante e surreale silenzio.
Di notevole importanza è sicuramente l’allestimento di Palazzo Strozzi dove il tutto è stato proiettato in una enorme parete che si sviluppava in lunghezza, di conseguenza il pubblico si trovava letteralmente immerso nel contenuto dell’opera empatizzando con i poveri protagonisti.
Ad anticipare la stanza di “The deluge” sopra le nostre teste campeggiava la lunetta del “Diluvio Universale” di Paolo Uccello dove alcuni corpi stanno cercando invano di raggiungere la salvezza arrampicandosi sull’arca.

La poetica di Bill Viola può definirsi in qualche modo pittorica, utilizza la macchina da presa come fosse un pennello e non c’è niente di diverso da quelli che sono stati gli artisti che hanno decretato nel passato la nostra rinascita culturale. A dimostrazione che esiste un tipo di arte contemporanea, leggibile, fruibile e soprattutto continuativa di un discorso che sta in piedi da secoli.

Questo è l’enorme potere dell’empatia e del totale sentimento di appartenenza che solo alcuni artisti riescono a raggiungere in vita.

 

 

 

SILVIA DONATI

Silvia Donati, classe ’83. Dopo la maturità scientifica conseguo, nell’anno accademico 2005-06, la Laurea in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, nel 2009 ottengo l’abilitazione all’insegnamento della Storia dell’Arte e del disegno tecnico per le scuole medie e superiori. Nel 2011 frequento un master in Museologia Europea presso lo IULM di Milano. Nel 2013 ottengo un Master Specialistico in "L'insegnamento della Storia dell'Arte metodologie e Tecniche per la didattica" (For.Com – Roma). Approfondisco lo studio della lingua inglese a New York (New York University) e San Francisco (Kaplan College).
Sono una docente di storia dell’arte e  di storia del costume, insegno danza e sono curatrice di vari eventi culturali che si svolgono su Ancona e provincia, con il fine di sensibilizzare l’interesse per la cultura e l’arte.


VILLINO FLORIO ALL’OLIVUZZA A PALERMO

A cura di Beatrice Cordaro

 

 

I Florio

Ci vorrebbero pagine e pagine per narrare l’immenso operato di quella famiglia che a Palermo, tra il XIX e il XX secolo, diede vita ad imprese di straordinaria rilevanza, ravvivando la città tanto nell’industria quanto nell’arte.

I Florio, a partire dal 1800, segnarono indelebilmente la storia della Sicilia, terra che, anche grazie al loro apporto, venne così portata nel florido vortice del cambiamento.

 

«Perché la Sicilia è un’altra terra, un mondo a parte che non ha nulla a che fare con il Continente.»

(Stefania Auci)

 

Numerosa è l’eredità architettonica che i Florio lasciarono alla città di Palermo: grazie a loro, oggi la città può vantare capolavori del modernismo architettonico come il Villino Florio all’Olivuzza, il Grand Hotel Villa Igiea, Casa Florio all’Olivuzza e ancora i Quattro Pizzi all’Arenella.

 

Villino Florio

Tra il 1899 e il 1901, la Famiglia Florio incaricò Ernesto Basile di progettare e realizzare il Villino Florio all’Olivuzza, vero e proprio gioiello dell’edilizia modernista destinato all’uso abitativo di Vincenzo III, giovane rampollo della casata.

A primo impatto, l’eclettico villino si presenta come un corpo compatto, dalle forme geometriche regolari che, in lunghezza e in larghezza, creano una perfetta armonia reciproca.

Attorno alla villa c’è una grande corte, al cui centro trova spazio l’edificio in tutta la sua magnificenza.

L’intero complesso esterno si caratterizza per la presenza di logge, colonne e vetrate policrome. Sulla sinistra si apre una scala a due branche che divide da un lato la loggia che precede il salone e dall’altro lato l’anticamera dello scalone interno, al quale si può accedere anche dalla discesa posta nel piano basamentale.

All’angolo nord - est del prospetto si innalza una torretta circolare con copertura ad ombrello dalla quale è possibile accedere al terrazzo.

L’intera struttura muraria esterna è in pietra da taglio, ance se in realtà i materiali impiegati furono diversi per le varie zone dell’edificio: nella zona basamentale è stato rintracciato l’uso del calcare compatto di Billiemi; nelle zone superiori, invece, sono state impiegate in maniera alternata la pietra tufacea calcarea grigia, proveniente dalle cave dell’Isola delle Femine e quella di Comiso.

Per le colonne e per le altre parti ornamentali, infine, sono stati impiegati sia il marmo giallo di Segesta, sia la breccia rossa di Castellamare del Golfo.

Il cantiere del Villino Florio ha visto operare in sinergia diverse ditte di costruzioni: la Ducrot si occupò di realizzare le decorazioni interne; la Mucoli della realizzazione dello scalone interno; per gli ornamenti venne chiamato lo scultore Gaetano Geraci (1869-1931), primo decoratore liberty in Sicilia che operò insieme ad Ernesto Basile e Mario Rutelli.

Per la decorazione esterna e per lo scheletro del Villino Florio fu infine contattata l’impresa di Pietro Albanese. Le decorazioni pittoriche vennero contemporaneamente affidate a Ettore De Maria Bergler e a Giuseppe Enea.

Fig. 1 – Il Villino Florio.

 

Interno

All’epoca della sua costruzione, ogni piano del palazzo era destinato ad una specifica funzione.

Al livello del parco era presente il piano detto “degli svaghi”, del quale faceva parte anche la sala da biliardo. Il piano di rappresentanza era, invece, direttamente collegato alla scalinata d’entrata: a questo livello apparteneva il grande salone, all’interno del quale è possibile tuttora ammirare un magnifico camino sopravvissuto ad una disgrazia, e la sala da pranzo.

Al di sopra del piano di rappresentanza vi erano gli ambienti più propriamente residenziali, con le camere da letto e la stanza da soggiorno. L’ultimo piano, infine, presentava un’ulteriore camera con un soffitto a carena di nave. Elemento ricorrente all’interno degli ambienti del villino è la decorazione a inserti lignei, che sembrano unirsi perfettamente ai colori ora verdi ora bianchi delle pareti e sposarsi con i pezzi di mobilio interamente progettati da Ernesto Basile.

In un’epoca in cui la tipologia del Villino diveniva ancor più di prima emblema della ricchezza, della magnificenza e dell’importanza delle famiglie, certamente il Villino Florio divenne sin da subito una nota distintiva della potenza di quella famiglia che, da più di un secolo, si era ormai affermata a Palermo e la cui rilevanza era del resto ribadita dall’installazione, nel villino, di un impianto elettrico per il tramite della Società Trinacria.

Fig. 2 – Interno.

 

 

Restauro del Villino Florio all'Olivuzza

La vita del villino Florio fu purtroppo tutt’altro che serena e fortunata. Nella notte a cavallo tra il 23 e il 24 novembre del 1962, il Villino venne distrutto da un incendio doloso che devastò quasi interamente gli interni arrivando a provocare grandi danni anche alle mura esterne. Come si legge dai documenti storici in merito, redatti dalla Regione Sicilia, nel 1962 il Soprintendente Giuseppe Giaccone, in una nota alla Presidenza della Regione Siciliana, decideva di avviare le procedure di esproprio e di restauro della villa. Qualche anno dopo, nell’aprile del 1969,  la Soprintendenza fece richiesta alla Divisione Monumenti della Direzione Generale Antichità e Beni Ambientali (all’epoca afferente al Ministero per la Pubblica Istruzione) affinché «un ente Pubblico acquisti l’immobile per destinarlo, dopo i necessari restauri, ad un uso compatibile con il carattere artistico dell’edificio››.[1]

Effettivamente, svariati anni dopo, più precisamente nel 1975, l’Ente per i Palazzi e le Ville di Sicilia decise di acquistare il complesso Liberty per 140 milioni di lire. Pochi anni dopo, nel 1984, il complesso passò nelle mani della Regione, che trasse vantaggio dalla soppressione dell’Ente. Nel 1995 si decise che il Villino dovesse configurarsi come un vero e proprio Museo della Belle Epoque.

I lavori di restauro veri e propri, che ricostruirono in maniera egregia e fedele il lavoro originario, vennero dapprima redatti a partire dal 1981, ma poi realmente effettuati a partire dal 1994 e conclusi nel 2000.

È inspiegabile la magia che pervade lo sguardo dei passanti quando si accingono a visitare il Villino, una magia che lascia letteralmente senza fiato anche quando, passando casualmente davanti al grande cancello in ferro battuto, si getta uno sguardo veloce a quello che è un vero e proprio simbolo di un’epoca d’oro.

Fig. 3 – La torretta.

 

Le foto all'interno dell'articolo sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Note

[1] Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo (a cura di), I Florio e la Targa. Il recupero dei Villino Florio all’Olivuzza in Palermo, Regione Siciliana, 2009, p.7.

 

Bibliografia

Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo (a cura di), I Florio e la Targa. Il recupero dei Villino Florio all’Olivuzza in Palermo, Regione Siciliana, 2009.

Il Villino Florio in Palermo, architetto Ernesto Basile, in “L’edilizia moderna. Periodico mensile di architettura pratica e costruzione”, anno XVI, fascicolo VI, Giugno 1907, Milano, Modiano, 1907.

 

Sitografia

http://www.casaflorio.org/la-tonnara/

https://www.comune.palermo.it/archivio_biografico.php?sel=1&asel=273


CASTEL THUN IN VAL DI NON - II PARTE

A cura di Alessia Zeni

 

Introduzione: Castel Thun in Val di Non

In questo secondo appuntamento dedicato a Castel Thun, in Val di Non, nel Trentino occidentale, mi soffermerò sugli interni del castello e in particolare sul percorso espositivo, suddiviso su quattro piani. Il castello dal 2010 è sede museale della Provincia Autonoma di Trento che conserva il patrimonio artistico della famiglia Thun, acquisito in cinquecento anni di storia. Qui di seguito farò un viaggio attraverso i quattro piani del Castello: il piano terra e il primo piano destinati alle funzioni di servizio; i locali del secondo piano dedicati alle attività giornaliere della famiglia Thun e le sale del terzo piano riservate agli appartamenti privati.

 

Pianoterra

A pianoterra, si accede al castello attraverso le mura dell’antica torre di Belvesino, all’interno della quale l’atrio d’ingresso è costituito da un corpo quadrato coperto da volta a botte. Dall’atrio si entra nel cuore del maniero, ovvero il cortile dall’impianto quadrangolare irregolare, sul quale si affaccia l’elegante loggia del secondo piano, la scaletta a chiocciola che un tempo collegava i vari piani del castello e alcuni locali di servizio. Questi locali costituiscono la Sala delle Armi, così chiamata perché espone una coppia di falconetti cinquecenteschi che in origine facevano parte di una serie di dodici voluti da Sigismondo Thun nel 1554, e la grande Sala delle Guardie, che conserva due grandi contenitori monolitici e dà accesso alla pistorìa, locale che un tempo veniva utilizzato dalla servitù per la produzione del pane e delle ostie.

Fig. 1 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, loggia rinascimentale con vista sul cortile interno. Credits: By Caba2011 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94073856.

Dall’atrio d’ingresso un lungo corridoio conduce alla cappella del castello, la Cappella di San Giorgio, che è stata consacrata nel 1504 e voluta dalla famiglia Thun dopo gli ampliamenti al maniero tra quattro e cinquecento. La cappella è un’opera d’arte che meriterebbe trattazione a parte. Qui ricordo solo che è stata interamente affrescata tra il XV e l’inizio del XVI secolo con immagini sacre che appartengono alla cultura tardo-gotica, probabilmente di un’artista tedesco, il cui stile è stato avvicinato a quello del bavarese Konrad Waider.

Fig. 2 - Vigo di Ton, Castel Thun, pianoterra, Cappella di San Giorgio, interno con gli affreschi tardo-gotici. Credits: Archivio fotografico Castello del Buonconsiglio Monumenti e collezioni provinciali – tutti i diritti riservati.

 

Castel Thun: primo piano

Al primo piano di Castel Thun la fanno da padrone le antiche cucine, ossia la cucina vecchia e la cucina nuova, due grandi locali perfettamente conservati con gli arredi e le attrezzature dell’epoca.

La cucina vecchia è un raro esempio di cucina castellana che risale probabilmente agli ampliamenti voluti dalla famiglia Thun tra XV e XVI secolo. È stata costruita all’interno delle mura della torre di Belvesino; ha finestre che illuminano il locale della cucina e della vicina sala da pranzo, un lavatoio in pietra e verso l’entrata conserva un grande focolare coperto da un’ampia cappa, tipica delle cucine medievali, con tanto di panca rialzata per facilitare lo svolgimento delle varie attività. Il locale è arredato con tavole e sedie in legno e suppellettili dell’epoca: recipienti, bilance, piatti e paioli in peltro, bronzo e rame. Una particolarità dell’antica cucina è il lampadario a candela, un unicum in regione, decorato da una sirena in legno che tiene in mano una pergamena arrotolata in ricordo dell’ascesa alla casa d’Austria della famiglia Thun nel 1506.

Fig. 3 - Vigo di Ton, Castel Thun, primo piano, cucina vecchia. Credits: R. Michelotti, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

La cucina nuova è della prima metà del Novecento fu utilizzata dal ramo boemo del conte Zdenko Thun Hohenstein, che abitò il castello fino al 1982, e prima ancora da Franz de Paula Thun Hohenstein (1868-1934) e la moglie Maria Teresa Thun di Castelfondo (1880-1975). L’arredo è molto più moderno rispetto alla cucina medievale, ma allo stesso modo significativo della funzionalità di questo locale. Risente del gusto tipico dei primi anni del Novecento, con credenze e tavoli in legno laccati di bianco e una grande stufa a legna in ghisa.

Fig. 4 - Vigo di Ton, Castel Thun, primo piano, cucina nuova. Credits: Gardaphoto, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

 

Secondo piano

Attraverso un grande e luminoso scalone giungiamo al secondo piano del castello, suddiviso in dieci locali, sistemati attorno al vano centrale del cortile. Ogni locale del secondo e del terzo piano è riscaldato con stufe in maiolica di gusto viennese e di manifattura trentina che venivano alimentate dalla servitù attraverso i ballatoi esterni.

Lo scalone entra nella Loggia rinascimentale e conduce alla sontuosa Sala da Pranzo, un locale molto illuminato e arredato con mobili e credenze ottocentesche. Domina la stanza un tavolo circolare di manifattura austriaca o boema, composto da una base ottagonale e da quattro mostri marini in forma di delfini. La stanza alle pareti è riempita dalla serie di nature morte tardo barocche, opera del fiammingo Jacob van de Kerckoven detto Giacomo da Castello (1637-1712), del veneto Paolo Paoletti (1671-1735) e di un artista sconosciuto. In ultimo è interessante segnalare un’acquasantiera sistemata all’entrata della stanza e utilizzata dai Thun come lavamani: è un’opera di grandi dimensioni decorata con elementi filariformi di tralci vegetali e con bacile di rame dal bordo mistilineo.

Fig. 5 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Sala da Pranzo con le nature morte alle pareti. Credits: G. Zotta, 2010 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Passiamo quindi al Boudoir contraddistinto da un grande tappeto persiano della fine dell’Ottocento, appeso alla parete, e alla Sala della Spinetta così chiamata per la collocazione di un raro cembalo a martelli del 1800 circa, uno strumento musicale unico, caratterizzato dal suono pizzicato delle corde azionate da tastiera.

Fig. 6 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Sala della Spinetta con il cembalo a martelli (a sinistra nella fotografia). Credits: R. Michelotti, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Si prosegue nella Stanza delle Incisioni così chiamata per la presenza alle pareti di incisioni e matrici di rame del XVII e XVIII secolo e alla Stanza dello Scrittoio dove un’imponente scrivania intagliata, in stile neo-cinquecentesco, ma risalente alla seconda metà dell’Ottocento colpisce il turista che attraversa questo locale: un imponente stilo di legno scuro ebanizzato di manifattura boema del tardo Seicento, caratterizzato da numerosi cassetti. Questa stanza celebra la passione per la caccia della famiglia Thun attraverso i ritratti di tre fratelli cacciatori: Tommaso Giovanni (1737-1796), Filippo Giuseppe Michele Maria (1739-1811), Giacomo Antonio Maria (1734-1770) e la moglie Maria Barbara Firmian (1736-?), tutte opere del 1760 di Giovanni Francesco Lattanzio Firmian (1712-1786), che li raffigurano a caccia con i loro cani.

Il Salotto Luigi XVI così chiamato per il mobilio della fine del Settecento che arreda il locale. Il Salotto è dominato da molte tele, ma la particolarità della stanza è la presenza di un pregevole ventaglio del 1790-1800, dipinto con temi riferiti all’amore e alla famiglia per celebrare l’amore coniugale. Si arriva così alla stanza più importante del secondo piano, ovvero la Sala degli Antenati, la più ampia del castello, che si apre in corrispondenza della torre occidentale. È ornata con i ritratti degli esponenti più illustri della famiglia Thun, soprattutto della linea genealogica che va dal Cinquecento al Settecento. Tra i tanti ritratti esposti, qui ricordo gli esponenti ecclesiastici della famiglia Thun: Tommaso Giovanni Thun (1737-1796), vescovo di Passau, Sigismondo Alfonso (1621-1677), Domenico Antonio (1686-1758) e Pietro Vigilio (1724-1800), quest’ultimo ritratto dal famoso pittore trentino Giovanni Battista Lampi nel 1776.

Si prosegue verso la Stanza del Camino per concludere il percorso del secondo piano. La stanza è così chiamata per un grande camino rinascimentale d’inizio cinquecento, proveniente dal Palazzo a Prato di Trento che è andato distrutto nel XIX secolo. Qui è conservato un nucleo di opere dei pittori Bassano e della loro cerchia: San Giovanni Battista nel deserto di Jacopo Bassano del 1560, dipinto a olio su pietra di paragone; l’Adorazione dei pastori del figlio Gerolamo Bassano e il Compianto di Cristo deposto dalla croce di Scuola bassanesca.

Infine chiudiamo con lo Studio della Contessa e lo Studio del Conte. Lo Studio della Contessa conserva alle pareti i tesori pittorici più importanti del castello, ma anche del patrimonio artistico regionale: la serie di sei dipinti realizzati da alcuni dei più importanti pittori bolognesi attivi fra Seicento e Settecento e che raffigurano le vicende del mito di Ercole. La collezione fu acquistata nel corso del XIX secolo da Matteo Thun II (1812-1892) e furono realizzati in seguito ad un concorso bandito a Bologna intorno al 1690 dal conte Francesco Ghisleri per una sua collezione privata. La più importante opera della collezione fu seguita dal vincitore del concorso, ovvero il pittore bolognese Giuseppe Maria Crespi, che dipinse Ercole e Anteo.

Fig. 9 - Vigo di Ton, Castel Thun, secondo piano, Studio della contessa: Ercole e Anteo di Giuseppe Maria Crespi, 1690. Credits: Mich 1998.

Infine la Stanza del Conte che conserva nelle vetrine alcuni libri di pregio appartenenti alla biblioteca di Castel Thun e alle pareti alcune delle più belle vedute dell’antico aspetto del castello: la Veduta di Castel Thun del 1867 del pittore trentino Basilio Armani.

 

Il terzo piano di Castel Thun

Concludiamo questo lungo viaggio all’interno delle sale di Castel Thun con la visita del terzo piano: il piano è suddiviso in quattordici locali sistemati alla fine del Settecento e riservati al riposo notturno, ai passatempi e all’amministrazione dei beni di famiglia.

Attraverso la Sala della Mappe, dedicata all’illustrazione dei possedimenti Thun in Trentino giungiamo nella Stanza del Vescovo così chiamata dal principe vescovo Sigismondo Alfonso Thun (1621-1677) che sistemò il locale intorno al 1670-1672. È la sala più bella del castello grazie alle pareti rivestite in legno d’abete e di cirmolo, il soffitto a lacunari decorato con rose in legno e uno splendido stemma Thun datato 1670, sistemato al centro del soffitto. Tale ambiente è stato arredato da Sigismondo con grande gusto artistico: un grande letto a baldacchino ornato da un drappo in damasco rosso dell’epoca, uno studiolo ricavato nel locale della torretta orientale e una stufa in maiolica bianca e blu del 1671 decorata con piastrelle che raffigurano l’aquila tirolese, lo stemma Thun e l’agnello pasquale con vessillo crociato immagine del principato vescovile di Bressanone. La stanza è stata sistemata su una precedente struttura cinquecentesca, della quale il vescovo ha voluto mantenere sulla parete occidentale la “Porta di Ercole” del 1574, così chiamata per un rilievo raffigurante “Ercole e Diomede”. È questa una porta in legno che riproduce una porta urbana classica, ornata da rilievi raffiguranti temi religiosi e profani e intarsi con vedute di città.

Proseguiamo il nostro percorso nella Camera di Violante e Bianca Thun decorata dagli acquarelli delle due giovani pittrici che riproducono i castelli e i possedimenti Thun. Attraverso la Sala dei Paesaggi giungiamo nella Camera del Conte Francesco e nell’adiacente Camera dei Fiori. Queste ultime due sono le stanze più piccole che si distinguono per delle tempere murali raffiguranti paesaggi e composizioni floreali e per la presenza, nella Camera dei fiori, di tre ritratti Thun in miniatura incorniciati da cornici di coralli e conchiglie, realizzate dal trentino Stefano Tenaglia.

Si passa alla Sala dei mobili di Praga arredata dal ramo boemo della famiglia. Alle pareti si segnala infatti il ritratto di colui che acquisì il castello nel 1926, Franz de Paula Guidobald Thun Hohenstein (1868-1934), e della moglie, Maria Teresa Thun di Castelfondo (1880-1975), ad opera dell’artista inglese Arthur Hacker (1858-1934).

Giungiamo a metà percorso, ovvero alla Camera azzurra per la carta da parati turchina. La sala custodisce il dipinto più importante del castello: un’opera del veneto Francesco Guardi, il Santo in adorazione dell’eucarestia, commissionata dal principe vescovo Domenico Antonio Thun (1686-1758) che ebbe un grande interesse per l’ambiente culturale veneziano e l’arte in generale.

Fig. 12 - Vigo di Ton, Castel Thun, terzo piano, Camera azzurra, il Santo in adorazione dell’eucarestia di Francesco Guardi. Credits: By Francesco Guardi - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=152424.

La Camera Biedermeier ha pareti dipinte in giallo oro e decorate con tempere, è la stanza che conserva al suo interno arredi in stile biedermeier e un gran numero di dipinti databili tra Otto e Novecento: il più bello è la Veduta di Castel Thun del 1844 di Roberto Garavaglia (1829-1855) commissionata da Matteo II Thun (1812-1892).

Fig. 13 - Vigo di Ton, Castel Thun, terzo piano, Camera biedermeier con il quadro di Roberto Garavaglia “Veduta di Castel Thun” del 1844. Credits: G. Zotta, 2010 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Proseguiamo il percorso attraverso la stanza delle donne e dei bambini di casa Thun. La Camera delle Dormeuses costellata di ritratti femminili: Maria Antonia Spaur, moglie nel 1724 del conte Francesco Agostino Gaudenzio Thun; Maria Antonia Thun attribuita a Giovanni Nepomuceno della Croce (1736-1819) e Giovanna Maria Thun effigiata nell’atto di filare con un abito a cappuccio.

La Stanza dei Bambini una vera e propria galleria dei bambini di famiglia opera di artisti attivi fra  Sette e Ottocento: La Bambina di casa Firmian del 1759 di Antonio Lorenzoni (1721-1782); Basilio Thun figlio di Matteo I e della contessa Marianne Zinzendorf, opera di Domenico Zeni del 1782; Bambina in veste di Cupido di Johann Pock (1780-1842) del 1820; Bambino con rosa di Francesco Antonio Vanzo (1754-1836 ca.) del 1820, da identificare con Matteo Thun II (1812-1892), figlio di Leopoldo e Violante Martinengo Cesaresco.

Concludiamo il precorso del terzo piano con la Sala degli Alabastri per un gruppo di statuette realizzate in alabastro attribuite allo scultore trentino Giovanni Battista Insom (175-1848), che riproducono soggetti classici tratti da originali antichi.

Fig. 14 – Vigo di Ton. Castel Thun, terzo piano, Sala degli alabastri. Credits: Gardaphoto, 2016 – © Castello del Buonconsiglio, Trento - Tutti i diritti riservati.

Infine, la Camera di Matteo (1812-1892), intitolata al principale esponente del ramo di Castel Thun, collezionista e mecenate che si prodigò nel restauro del castello negli anni Quaranta dell’Ottocento e al rilancio economico della famiglia con la sistemazione di una filanda di seta nel recinto del castello. Nonostante ciò, la famiglia dovette affrontare diverse ristrettezze economiche e Matteo II dovette cedere il castello, tra il 1878 e il 1879, al ramo boemo. Chiudiamo il nostro viaggio con il Vestibolo, una vera e propria galleria dei dipinti acquistati dalla famiglia Thun nel corso degli anni.

 

 

Si ringrazia il Castello del Buonconsiglio di Trento per l’autorizzazione alla pubblicazione delle foto.

 

 

Bibliografia

De Gramatica Francesca, Chini Ezio, Camerlengo Lia, Adami Ilaria, Castel Thun, Milano, Skira, 2010

Chini Ezio, De Gramatica Francesca, Camerlengo Lia, Omaggio ai Thun. Arte e immagini di un illustre casato trentino, Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali, 2009

Botteri Ottaviani Marina, Dal Prà Laura, Mich Elvio, Arte e potere dinastico. Le raccolte di Castel Thun dal XVI al XIX secolo, Trento, Provincia autonoma di Trento, 2007

Mich Elvio, Giuseppe Maria Crespi e altri maestri bolognesi nelle collezioni di Castel Thun. Il ciclo di Ercole dalla quadreria di Francesco Ghisilieri. Trento, Castello del Buonconsiglio, 5 giugno-8 novembre 1998, Beni artistici e storici del Trentino, Quaderno 6, Trento, Alcione, 1998

Dépliant di Castel Thun a cura del Castello del Buonconsiglio. Monumenti e collezioni provinciali.


OTTANA E IL POLITTICO MEDIEVALE

A cura di Alice Oggiano

 

 

Cenni storici sul centro abitativo di Ottana

L’insediamento di Ottana vanta origini antichissime, essendo centro abitato sin dal periodo prenuragico. Durante l’epoca romana venne adibito a castrum militare, in virtù della sua posizione – Ottana si situa nei pressi della sponda sinistra del fiume Tirso – perfetta da un punto di vista militare per difendersi dalle popolazioni dell’entroterra sardo. Nel Medioevo Ottana era compresa nel giudicato di Torres, nella curatoria di Dore.

In seguito alla conquista del giudicato, Ottana divenne motivo di contese tra i Doria e gli Arborea: proprio quest’ultimi alla fine ebbero la meglio.

Dopo la conquista aragonese, che portò il centro abitato ad essere incluso nel Regnum Sardiniae et Corsicae, la popolazione insorse contro la dominazione straniera, invocando l’intervento locale. Successivi inasprimenti del conflitto portarono, nel 1335, all’inclusione del villaggio tra i territori infeudati dal re d’Aragona Pietro IV a Giovanni d’Arborea, figlio cadetto del giudice Ugone II e cresciuto nella Catalogna presso la corte di Alfonso IV D’Aragona. Il legame di Giovanni con il regno spagnolo venne inoltre rafforzato dal matrimonio con la principessa Sibilla de Montcada. Anche il fratello di Giovanni, Mariano, seppur notoriamente diffidente nei confronti della corona spagnola, sposò, per rafforzare l’alleanza, la nobildonna catalana Timbora di Roccaberti.

Dopo l’arresto di Giovanni ordito da Mariano, Ottana venne occupata dall’esercito arborense sino al 1409. A tale data il territorio venne infatti concesso ai Turrigiti per essere comprato, qualche decennio dopo, dall’ultimo marchese d’Oristano, Leonardo d’Alagon-Arborea. In seguito al sequestro del feudo, Ottana divenne proprietà dei Carroz e successivamente dei Maza de Licana. Questi ultimi spostarono la diocesi – divenuta tale sotto papa Gregorio VII - ad Alghero, innescando una profonda crisi. Nuovi scontri portarono all’occupazione del centro da parte dei Portugal e in seguito dai De Silva, che ne detennero il potere fino al 1838. Con l’abolizione del sistema feudale, voluta dai Savoia nel 1839, Ottava venne inclusa nella provincia di Nuoro.

I giudicati della Sardegna. Fonte: https://www.albertomassaiu.it.

 

La cattedrale di San Nicola

Fonte: https://www.sardegnaturismo.it/en/explore/church-san-nicola.

Il centro storico di Ottana è dominato dalla maestosa chiesa romanica di San Nicola di Mira, eretta nel XII secolo e consacrata nel 1160 dal vescovo Zaccaria. Tale datazione è stata confermata dal rinvenimento di una pergamena sita nell’altare maggiore. La chiesa venne probabilmente venne edificata su una preesistente basilica bizantina, i cui resti furono rinvenuti durante la campagna di restauro del 1975. Posta al di sopra di un’ampia scarpata e raggiungibile mediante una lunga scalinata, la cattedrale presenta una pianta a crux commissa mononavata, con abside semicircolare orientata e un presbiterio voltato a botte e a capriate lignee.

Fonte: https://www.sardegnaturismo.it/en/explore/church-san-nicola.

 

La facciata è suddivisa in tre ordini da arcatelle impostate su lesene. Il portale architravato si apre nel primo specchio; nel secondo una bifora è posta ad illuminare il sacro ambiente interno. A coronare la facciata, un frontone decorato con bacini ceramici policromi andati perduti. Su tutti gli ordini delle losanghe bicrome scandiscono le arcate, mentre dei rombi gradonati sono posti sui primi due. Entrambi i motivi, assieme alla bicromia ottenuta dall’alternanza di trachite dalla differente colorazione, riflettono lo stile tipicamente romanico-pisano.

Fonte: https://www.sardegnaturismo.it/en/explore/church-san-nicola.

 

Il polittico con i Santi Francesco e Nicola

Il vero gioiello della cattedrale è tuttavia custodito al suo interno: si tratta della celebre Pala di Ottana. Il dipinto, un politico con i santi Francesco e Nicola, venne commissionato dal giudice Mariano IV e dal vescovo di Ottana, Silvestro.

Fonte: https://people.unica.it/.

 

Stando alle fonti storiografiche, la datazione del polittico si attesta tra il 1339 e il 1344. Tuttavia, alcuni critici ne anticipano la realizzazione al 1338, in quanto un’iscrizione lascerebbe intendere Mariano come dominus Goceani et Marmille e perciò ancora donnichellu (erede a su tronu). L’ascesa a conte sarebbe perciò avvenuta solo in seguito. La pala, eseguita su una tavola lignea a fondo oro, è suddivisa in tre scomparti principali cuspidati ed è attribuita al cosiddetto Maestro delle tempere francescane. Nell’ambiente centrale, entro due edicole squisitamente gotiche, sono posti i santi Francesco e Nicola, identificabili per mezzo degli attributi iconografici della tradizione. Francesco è scalzo, vestito col saio lungo: con la mano sinistra sorregge un libro rosso, mentre con la destra mantiene la sacra croce, indicando al contempo la ferita sul costato. Nicola, più anziano rispetto a San Francesco, è barbuto. Abbigliato con una stola rossa, pone le mani entro candidi guanti; con la sinistra custodisce un libro, mentre la destra sembra protendersi verso un giovinetto, identificato come Basilio. Costui porge un calice in dono al santo.

Al di sopra del pannello, la grande cuspide. Al suo interno è inserita la Vergine in trono con il Bambino Gesù, raffigurato nell’atto benedicente, mentre la mano destra mantiene un grazioso quanto delicato fiore. Seduti su un monumentale trono marmoreo, entrambi aureolati e in posizione frontale, abitano uno spazio decisamente angusto e indefinito.

Fonte: https://people.unica.it/.

 

Accanto alle rigide e statiche figure dei santi, i ritratti dei committenti, Zaccaria e Mariano, inginocchiati sono posti su entrambi i lati. Il vescovo Zaccaria ha il capo coperto dalla preziosa mitria, adornata da lussureggianti pietre così come il piviale. Le mani sono nascoste entro guanti bianchi. Mariano è vestito secondo i canoni cavallereschi dell’epoca: avvolto da una lunga veste rossa, nella quale è posta la spada, Mariano ha le mani giunte nell’atto di preghiera e, invocando la protezione della Vergine, le volge amorevolmente lo sguardo.

Credits: dettaglio da: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=96587282.

 

Nelle cuspidi laterali, altre figure di santi ed angeli conferiscono maggior pietas alla scena sacra. Gli scomparti laterali ospitano rispettivamente a sinistra otto storie legate alla vita e ai miracoli di San Francesco, mentre a destra altrettanti episodi della vita di San Nicola.

L’opera, dall’accentuata cromia e dalla composizione complessa, si contraddistingue per l’abile esecuzione tecnica. La scelta di inserire le ambientazioni alternativamente entro spazi architettonici urbani ben definiti e rurali, mostra come fosse chiara la conoscenza, da parte dell’artista, del panorama artistico tardo-medievale nazionale. È altresì interessante osservare le spiccate analogie compositive con il cantiere assisiate che il pittore sembra aver fatto proprie, seppur discostandosi parzialmente da esse.

A tal proposito, un confronto tra due scene può essere maggiormente esemplificativo. Si tratta della scena con San Nicola che salva i tre innocenti dalla decapitazione, dipinta sia ad Ottana che nel cantiere umbro.

Fonte: https://people.unica.it/.

 

Ad Assisi il tema è svolto seguendo una configurazione spaziale totalmente differente rispetto a quella sarda.  Sebbene entrambe le pitture mostrino il medesimo momento (San Nicola ferma il boia mentre questo si appresta a decapitare dei giovani), l’ambientazione ad Assisi si svolge in un ambiente urbano, mentre ad Ottana si opta per uno scenario rurale.

La visione del carro di fuoco: sx Ottana – dx Assisi. Fonte: https://people.unica.it/.

La cattedrale di Ottana, nel territorio provinciale di Nuoro, è tutt’oggi accessibile al pubblico. È inoltre possibile richiedere delle visite guidate.

 

 

Bibliografia

Francesco Floris, La grande Enciclopedia della Sardegna, Cagliari, Della Torre, 2002.

Nicoletta Usai, La pittura nella Sardegna del Trecento, Perugia, Morlacchi, 2018.

 

Sitografia

https://www.sardegnaturismo.it


IL POLITTICO GRIFFONI. UNA STORIA BOLOGNESE

A cura di Anna Storniello

 

Introduzione

Il polittico Griffoni (fig.1), apice della pittura quattrocentesca bolognese, ha rappresentato per decenni uno dei nodi irrisolti dell’arte italiana, in un crescendo di ipotesi attributive e possibili ricostruzioni. Nel corso del tempo è stato possibile far luce progressivamente sulla sua vicenda storica e ricollegare ad esso le tavole che originariamente lo componevano, ma che al giorno d’oggi sono visibili in diversi musei di tutto il mondo: la National Gallery di Londra, il Louvre, la National Gallery of Art di Washington, il museo Boymans di Rotterdam, le Pinacoteche di Brera e la Vaticana, la Fondazione Giorgio Cini e il Museo di Villa Cagnola.

Fig. 1 - Riproduzione del Polittico Griffoni all’interno della mostra “Riscoperta di un Capolavoro”, Palazzo Fava, Bologna.

 

Descrizione

Si tratta di una pala d’altare originariamente destinata alla cappella della famiglia Griffoni, nella basilica di San Petronio a Bologna, ed  è opera di due fra i più eminenti artisti dell’ambiente ferrarese della seconda metà del XV secolo, Francesco Del Cossa (1436 – 1478) ed Ercole De’ Roberti (1451 ca. - 1496). Entrambi fuggiti dal contesto ferrarese artisticamente troppo restrittivo, Del Cossa e De’ Roberti si recarono a Bologna in cerca di maggiori opportunità e trovarono appunto in San Petronio un’occasione di rivalsa. Dopo aver già lavorato insieme nella Sala dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, tra il 1470 e il 1472 collaborarono alla realizzazione di una pala d’altare per la famiglia bolognese dei Griffoni. La pala è intitolata al santo domenicano San Vincenzo Ferrer, raffigurato nella tavola centrale (fig.2-3) e accompagnato ai lati da altri due santi, San Pietro e San Giovanni Battista, che occupano due tavole più piccole. In alto invece, a fare da spettatori alla Sacra Conversazione che sta avvenendo poco più in basso, si trovano San Floriano sulla sinistra e Santa Lucia sulla destra, collocati su una sorta di parapetto ed immersi in una luce dorata, in contrasto con la posa realistica e la fisicità tridimensionale.

 

Nel registro superiore, in corrispondenza del San Vincenzo Ferrer, è collocata la Crocifissione (fig.4), focus devozionale dell’intero polittico e che condivide con i due santi ai lati lo sfavillante fondo oro. La seconda rappresentazione di un evento sacro è più defilata e la si riscontra in alto sopra le teste dei santi Floriano e Lucia (fig.5-6). Si tratta dei due tondini che ospitano rispettivamente l’immagine dell’Arcangelo Gabriele e dell’Annunciata (fig.7), la quale accoglie serenamente la notizia e lo spirito divino.

 

Tutte quelle finora citate sono tavole ad opera del più maturo Francesco del Cossa, mentre i riquadri laterali più piccoli, contenenti immagini di santi (fig.8, 8a), e la predella (fig.9), ossia la lunga tavola che costituisce il basamento dell’intero complesso, sono frutto del lavoro del più giovane Ercole De’ Roberti.

 

Fra tutti i pannelli, proprio la predella rappresenta uno degli elementi più interessanti dal punto di vista stilistico. Qui infatti si percepisce palesemente la profonda differenza fra i due artisti, in particolare la spiccata originalità e varietà delle pose che Ercole sa donare ai propri personaggi che animano quasi convulsamente la tavola. Brillante è il dettaglio in basso sulla sinistra del cavaliere di spalle che si vede entrare nella tavola (fig.10), come se salisse da un pendio, mentre un uomo con turbante scende in direzione opposta fino a scomparire dietro il limite della cornice. Nonostante il polittico risulti stilisticamente equilibrato ed omogeneo, emergono chiaramente le differenze fra le due “mani”: più monumentale e magniloquente quella di Del Cossa, più frizzante e spesso eccentrica quella di De’ Roberti.

 

Storia del polittico Griffoni

Non è soltanto l’evidente qualità artistica di quest’opera ad aver affascinato gli studiosi durante tutto il XX secolo, bensì la storia quasi rocambolesca che seguì la disgregazione del polittico. Infatti, nel 1725 il Monsignor Pompeo Aldrovandi acquistò il patronato della cappella, una volta Griffoni, e ritenne che la decorazione non fosse più al passo coi tempi. Decise perciò di smantellare l’intero polittico, che, oltre alle tavole, includeva originariamente anche una sontuosissima cornice in stile tardo gotico andata perduta. Fortunatamente, su consiglio dell’incaricato del riallestimento della cappella Stefano Orlandi, il cardinale salvò le tavole e decise di destinarle alla sua residenza di campagna a Mirabello. Proprio un disegno di Stefano Orlandi ha permesso di far luce su una vicenda che per tutto il ‘900 ha impegnato gli storici dell’arte in svariate tesi, deduzioni e possibili ricostruzioni. Difatti la proposta ricostruttiva del grande studioso Roberto Longhi è stata per lo più confermata dalla scoperta nel 1984 di un disegno del polittico realizzato dall’Orlandi (fig.11) prima che venisse smantellato. Si tratta per lo più di un abbozzo, che confermerebbe non solo la collocazione dei pannelli, ma l’attendibilità dell’attribuzione delle tavole al polittico Griffoni, che per secoli non ha avuto volto, ma soltanto un nome.

Fig. 11 - Riproduzione digitale del disegno di Stefano Orlandi.

 

Sebbene il puzzle ricostruttivo di quest’opera non sia ancora completo, le recenti scoperte così come la mostra tenutasi presso Palazzo Fava a Bologna (18 maggio 2020 al 10 gennaio 2021), intitolata “La riscoperta di un capolavoro”, costituiscono un punto di svolta nella vicenda del polittico Griffoni. La rilevanza della mostra sta appunto nella possibilità, data dal confronto tra le opere presenti, di ricostruire il rapporto di collaborazione e di reciproca influenza tra i due artisti. Dopo l’ingresso dei dipinti sul mercato internazionale e in seguito all’acquisto da parte di alcuni dei più importanti musei del mondo, il filo della sua storia ha rischiato di perdersi definitivamente. Per fortuna la bellezza assoluta della pittura di Francesco Del Cossa e di Ercole De Roberti ha salvato l’intera vicenda dall’oblio, mentre i tasselli mancanti continueranno ad affascinare pubblico e studiosi e a spingerli a preservarne la memoria.


GIORGIO MORANDI A BRERA

A cura di Silvia Piffaretti

 

 

Giorgio Morandi, una poetica delle cose ordinarie

Artista prediletto del genere della natura morta, che gli costò l’appellativo di pittore seriale e monotono, Giorgio Morandi fu senz’altro uno dei più grandi maestri del XX secolo. Quest’ultimo, come rammenta James T. Soby, non fu solo un pittore di bottiglie e di paesaggi, bensì un esploratore di sottili equazioni di forme, distribuzioni ed effetti atmosferici. Il suo carattere sobrio e modesto, a detta del pittore Achille Lega, rivelava con estrema lucidità un animo sensibile in grado di misurarsi con la poeticità degli oggetti ordinari. Per tale motivo l'accademico Cesare Brandi, a lui legato da una forte stima e amicizia, lo apprezzò e ritenne la sua conoscenza eterna fonte di insegnamento, in particolare per il suo modo di procedere dall’oggetto, d’immunizzarlo dalla vita e di restituirlo ad essa. Sulla stessa linea si poneva il critico Roberto Longhi, il quale confidò come la più preziosa lezione lasciataci da Morandi fosse stata quella di raggiungere, attraverso la forma, il più puro ed integro sentimento: Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per esprimersi ‘in forma’; e non si esprime, si sa bene, che il sentimento”[1].

 

 

Il noto critico, infatti, per meglio intenderne la grandezza, amava interrogarlo sugli antichi maestri; poiché solo la comprensione di quest’ultimi consentì a Morandi di trovare la propria strada: essi, infatti, proprio come il pittore, si ispirarono continuamente alla realtà che permise loro di produrre opere dense di poesia. La riflessione dell’artista prese piede nello studio di via Fondazza a Bologna, dalla sua stessa camera da letto, di cui il fotografo Paolo Monti ne restituì il clima sospeso tra arte e vita. Il pittore lavorò tra queste mura alla luce naturale del giorno, uscendo raramente per dipingere all’aperto, strutturando lentamente il motivo nella sua mente per poi esprimerlo in forma.

 

 

Proprio in merito alla forma egli, nell’intervista per “The Voice of America”[2], si riconduceva al pensiero di Galileo Galilei, il quale vedeva il mondo come un sistema di triangoli, quadrati, cerchi, sfere e figure geometriche. In questo modo Morandi riuscì a esprimere ciò che era nella natura, ovvero il mondo visibile, traducendolo in formule geometriche-matematiche per pervenire all’essenza nascosta delle cose e poterla comunicare. Nel suo caso le forme furono gli oggetti d’uso quotidiano, ovvero bottiglie, ciotole e brocche, che acquisirono una funzione astratta e universale e sulle quali la polvere si depositava segnando il trascorrere del tempo. La disposizione di tali oggetti nello spazio era studiata nei minimi dettagli, attraverso un lavoro lento e incontentabile, tracciando segni a penna sui fogli di carta che rivestivano il piano del tavolo.

 

Morandi a Brera: la natura morta e il paesaggio

Per avvicinarsi all’opera di tale maestro la Pinacoteca di Brera si dimostra il luogo ideale, poiché Milano, grazie all’intervento di collezionisti, editori e imprenditori, fu la città che intuì il potenziale dell’arte morandiana, la quale fu in grado di mantenere una propria autonomia nel novecentesco clima delle avanguardie. Della prima fase dell’artista, che fin da subito mostrò una predilezione per i generi più bassi di paesaggio e natura morta, a Brera si possono ammirare tre opere influenzate dalla lezione di Cézanne, di Henry Rousseau e dal Cubismo; ovvero Paesaggio (1911), Il bosco (1914) e Il paesaggio rosa (1916). A quest’ultimi si accompagnano i Fiori (1916) che, con le tonalità bianche e rosa dei petali, guidano il pennello morandiano alla realizzazione di un capolavoro di delicata eleganza.

 

 

Agli anni delle prime sperimentazioni seguì la Prima guerra mondiale, periodo in cui si dedicò alla ricerca e riflessione attorno agli impulsi delle avanguardie; in particolare l’incontro con le opere metafisiche di De Chirico e Carrà diede inizio, a metà del 1918, ad un ciclo di nature morte nelle quali compariva la tipica attrezzeria metafisica. Ne sono un chiaro esempio Natura morta con il manichino (1918) e la celebre Natura morta metafisica con la squadra (1919), accomunate, oltre che dall’evidente nitidezza delle forme geometriche, dal tono caldo e dorato. Degna di nota è anche la tela dei Fiori (1918) che, a detta di Lamberto Vitali, si caratterizza per la solennità del tono, dolce ed aspro al contempo.

 

 

Al decennio successivo appartengono altre tre splendide nature morte, di cui la tela del 1921, in cui compaiono una pipa, due conchiglie, un vasetto, uno scatolino di latta e un cestino, mostra la sua singolarità nell’atmosfera cupa e crepuscolare in cui è avvolta. A essa seguono le altre due, datate 1929, di cui la prima, quasi monocromatica, pare contrastare con la seconda, che Brandi definì come un quadro da togliere il fiato per gli azzurri dal sapore notturno e le sabbie portate a vibrare.

 

 

Agli anni Trenta, periodo di fortuna critica per l’artista, risalgono invece due dipinti nei toni spenti del verde e delle terre gialle, ovvero Campi arati (1932), ritratto del tipico paesaggio dell’Appennino bolognese, e il Paesaggio (1936), dominato da una collina vista dal basso, sulla quale si erge un cascinale. Con l’esplodere del secondo conflitto mondiale, rifugiatosi a Grizzana per sfuggire ai bombardamenti, Morandi cadde in uno stato di angoscia e disorientamento. Il 12 maggio 1944 in una lettera a Becchis scrisse: Io lavoro assai poco ed ora non faccio proprio nulla. Mi manca la tranquillità indispensabile al mio lavoro. Ogni giorno gli aerei passano di qui e quando non bombardano si mitragliano fra loro. Comprenderà se in questa condizione si può pensare alla pittura”[3]. A tali anni si data il Paesaggio (1941) che il collezionista Vitali rammentava eseguito in una sola seduta. Questa tela mostra chiare memorie dell’ultimo Cézanne per la composizione a rettangoli e a trapezi. Terminata la guerra, in virtù della poetica antieroica delle sue opere, Morandi poté essere considerato avulso dai legami col fascismo, tant’è che i suoi quadri furono perfino interpretati come una forma di resistenza.

 

 

Quando il maestro si spense nel giugno 1964, in concomitanza all’arrivo della Pop Art alla Biennale, Longhi lo ricordò con un necrologio nel quale mostrava ampiamente il suo sbigottimento e dolore, non tanto per la cessazione fisica dell’uomo, quanto più per l’improvvisa interruzione della sua attività, proprio nel momento in cui più ce ne sarebbe bisogno[4]. Secondo il critico il maestrevole percorso di Morandi potrà servire di lezione ai migliori, proprio per lumana sostanza; come stimolo a ricercare ancora e sempre dentro di sé, non fuori di sé”[5]. Come sintetizzano le parole di Longhi, Morandi, consapevole della fugacità del tempo, dell’instabilità e della transitorietà delle cose, aveva deciso di coglierne l’intima poeticità immobilizzandone i contorni sulla tela.

 

 

Note

[1] Giorgio Morandi, Lettere, a cura di Lorella Giudici, Milano, Abscondita, 2004, p. 126.

[2] Intervista per “The Voice of America”, 25 aprile 1957, pubblicata in L. Vitali, Morandi, 1983.

[3] Lorella Giudici, op. cit., p. 85.

[4] Exit Morandi trasmesso ne “L’Approdo” televisivo del 28 giugno 1964 e stampato ne “L’Approdo letterario”, n. 26, aprile-giugno 1964, pp. 3-4.

[5] Lorella Giudici, op. cit., p. 127.

 

 

Bibliografia

Giorgio Morandi, Lettere, a cura di Lorella Giudici, Milano, Abscondita, 2004.

Flavio Fergonzi, Giorgio Morandi, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 76, 2012.

Nicol Mocchi, Twentieth-century Italian art 1949: il caso Morandi, in New York New York. Arte italiana: la riscoperta dell’America, cat. esp. a c. di Francesco Tedeschi (Milano, Museo del Novecento/Gallerie d’Italia, aprile-settembre 2017), Milano, Electa, 2017, pp. 110-116.

Marilena Pasquali, Lo studio di Giorgio Morandi, settembre 2019.

 

Sitografia

www.pinacotecabrera.org


LA TORRE DI MANFRIA SUL LITORALE SICILIANO

A cura di Adriana d'Arma

 

Introduzione: la Torre di Manfria. Baluardo difensivo sul litorale siciliano

Nel corso dei secoli, e sin dai tempi più antichi, la Sicilia, territorio di passaggio e luogo di permanenza delle diverse popolazioni che vi si insediarono, fu protagonista di numerose e cruente attività piratesche.

In seguito alla caduta dell’Impero d’Occidente, le acque del Mediterraneo non furono più difese, e la pirateria prese vigore: i Bizantini prima e i Saraceni dopo diedero vita alle scorrerie che terrorizzarono per secoli tutti gli abitanti delle coste siciliane.

Di tali azioni sono pervenute solo notizie frammentarie, le quali, però, vennero arricchite dalle testimonianze storiche delle numerose torri di avvistamento che, ancora oggi, si possono ammirare in diversi punti strategici dell’Isola.

La storia delle torri in Sicilia ha origini antichissime. La loro funzione è sempre stata intimamente legata alla loro ubicazione; in prossimità del litorale, in siti sopraelevati o sui promontori della città, dalle torri era possibile avvistare un imminente pericolo che giungeva dal mare e in tal modo procedere a lanciare rapidamente l’allerta ad altre torri di corrispondenza, per mezzo di fumate in pieno giorno, e di segnali di fuoco nel cuore della notte.

Sul litorale siciliano si possono contare circa 200 torri: tra le più note la torre di Nubia vicino Trapani, la torre di Monterosso vicino Agrigento, la torre dell’Acqua de’ Corsali vicino Palermo, quella di Calura vicino Cefalù, quella dei Vendicari nella baia omonima, la Vigliena nel territorio di Punta Braccetto, la Toleda nel litorale di Carini, la torre di Santa Anna nel territorio catanese.

A circa 10 km dalla città di Gela è ubicata, presso la località omonima, la Torre di Manfria [Fig. 1], parte del complesso di 37 strutture difensive di pertinenza della Deputazione del Regno. La costruzione venne affidata all’ingegnere militare fiorentino Camillo Camilliani, che propose di ripristinare le torri danneggiate facendone edificare altre a distanza opportuna.

 

Fig. 1 – Veduta della Torre di Manfria.

 

Sull’avvio della costruzione della Torre di Manfria non c’è accordo di datazione: alcune fonti la fanno risalire al 1549, altre la posticipano al 1583.

Sebbene le notizie non siano troppo precise, si sa per certo che l’edificazione della torre, dopo essere stata interrotta, fu ripresa nel primo decennio del XV secolo per volontà del viceré Pedro Giron, Duca di Ossuna, dal quale probabilmente proviene anche la denominazione “Torre d’Ossuna” usata da alcuni storici.

 

Silenziosa e imponente, la Torre di Manfria, si staglia sul promontorio che, affacciandosi sulla costa balneare, è visibile da diversi punti della città.

Essa presenta una pianta quadrata - caratteristica ricorrente delle torri camilliane -  con gli spigoli in tufo, una base, il piano operativo e la terrazza. Sviluppa un’altezza di circa 15 metri e un basamento scarpato, privo di apertura, di 12,5 metri per lato.

Alla torre si accedeva al primo piano, il quale è costituito da un unico ambiente coperto da una volta a botte. In quest’ultimo ambiente, il cui accesso avveniva mediante una scala di legno o di corda retrattili, si svolgeva gran parte della vita della guarnigione.

Solo nel 1805 venne costruita una scala esterna, in muratura e a due rampe [Figg. 2 - 3], dalla quale si accedeva al primo piano. Nello stesso anno fu costruito anche il secondo piano, oggi quasi del tutto crollato.

 

 

Dalle finestre quadrangolari, affacciate sul mare, era possibile scrutare il mare e avvistare preventivamente l’arrivo dei nemici.

Dal primo piano, poi, si elevava un ulteriore scala a rampe – ricavata nello spessore del muro -  grazie alla quale in origine si accedeva a una terrazza i cui lati ancora oggi presentano delle pensiline sorrette da mensoloni che servivano per controllare l’esterno della torre [Fig. 4].

 

Fig. 4 – Particolare dei mensoloni della torre.

 

Notevole curiosità suscitano anche delle piccole fessure in corrispondenza della porta d’ingresso, che altro non sono che delle “caditoie” o “piombatoie”. Anche queste ultime avevano funzioni di difesa: venivano utilizzate, infatti, per far cadere sul nemico liquidi bollenti o infiammabili, oppure materiali solidi (pietre o altro a disposizione).

Tuttavia, all’interno di tali fortificazioni vi erano anche diverse tipologie di armi, dalle più antiche alle più moderne, che prevedevano l’impiego di polvere da sparo [Fig. 5].

 

Fig. 5 – Interno del primo piano con visibili atti di vandalismo.

 

È molto probabile, infatti, che sulla terrazza della Torre di Manfria ci fossero addirittura dei cannoni a difesa delle coste dell’isola fino al 1830, anno in cui, con la conquista francese dell’Algeria, si pose fine alle scorribande dei pirati nel Mediterraneo.

 

Tra le vicende leggendarie che arricchiscono la tradizione locale, la più curiosa vorrebbe che la Torre di Manfria fosse stata in passato la dimora di un gigante buono e giovane, il quale, alla ricerca della sorella rapita, venne poi ucciso a tradimento insieme al suo cavallo. Questo racconto tradizionale, che ancora suscita curiosità, è alimentato da dicerie relative a misteriose impronte tuttora presenti sul terreno.

 

Sebbene esposta ancora alle intemperie, ai continui atti di vandalismo e ai ricercatori di tesori preziosi, la Torre di Manfria, così come le altre torri nel resto della Sicilia, offre una fedele testimonianza della storia dell’Isola, presentandosi come imponente baluardo della cristianità a strapiombo sul mare, imponente in tutta la sua monumentale bellezza, nel suo ruolo di avamposto di storia e tradizione [Fig. 6].

 

Fig. 6 – La torre di Manfria.

 

 

 

Le immagini dalla 1 alla 6 sono scattate dalla redattrice

 

 

Bibliografia

A. Alessi, Gela. Città greca della Sicilia. Storia-Archeologia-Monumenti-Ambiente, Associazione Culturale “Archeo-Ambiente” di Gela con il contributo della Camera di Commercio della Provincia di Caltanissetta, Coop. C.D.B., Ragusa, 1997.

Mulè, Dell’Antico Centro Storico di Gela, E-Solution di A. Tandurella, Gela, 2017.


LE OPERE DI PAOLO DE MATTEIS IN TOSCANA

A cura di Alessandra Becattini

 

Introduzione

Il pittore Paolo De Matteis (1662-1728), originario di Piano Vetrale, nel Cilento, è una figura importante nel panorama artistico napoletano a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Trasferitosi a Napoli per apprendere l’arte pittorica dal rinomato Luca Giordano, di cui divenne uno degli allievi più importanti, dal 1681 circa al 1683 fu a Roma. Nella città papale, tramite il marchese del Carpio, collezionista e ambasciatore del re di Spagna, entrò in contatto con il pittore Giovanni Maria Morandi, che lo introdusse poi nell’animato circolo artistico dell’Accademia di San Luca. Qui ebbe modo di assimilare i nuovi spunti della corrente pittorica di Carlo Maratti, caratterizzata da una attenta conciliazione tra lo stile barocco e quello classicista.

Fu così che il giovane pittore, rientrando a Napoli pochi anni dopo con il marchese del Carpio, divenuto intanto viceré della città, portò con sé l’esperienza romana fondendola felicemente con il barocco napoletano del Giordano e plasmando uno stile personalissimo ed apprezzato da una committenza eclettica. Unanimemente considerata dai critici come una sintesi tra le due maggiori influenze del pittore è l’Allegoria della Sapienza e delle Arti che incoronano Partenope (fig. 1), una delle prime opere certe dell’artista, firmata e datata al 1685 circa e che oggi si conserva nel Museum of Fine Arts di Houston. L’opera rappresenta la Sapienza, attorniata dalle Arti, che ordina alla Virtù di incoronare Partenope, sirena del Golfo di Napoli, sotto la quale è rappresentata la personificazione di un fiume. Se lo schema compositivo della rappresentazione si ispira all’esempio del maestro Giordano, come si può notare dal quadro del Prado con Rubens che dipinge l’Allegoria della Pace (fig. 2), le figure idealizzate e la costruzione più bilanciata della scena derivano maggiormente dall’insegnamento romano del Maratti, del quale Stefano Pierguidi propone un confronto con l’Allegoria della Clemenza di Palazzo Altieri (fig. 3).

Paolo De Matteis, che negli ultimi decenni è stato oggetto di una forte riscoperta critica da parte degli storici dell’arte, fu un pittore attivissimo non solo nell’ambiente partenopeo ma anche per una committenza nazionale ed internazionale. Molti dei suoi lavori sono infatti diffusi e visibili su tutto il territorio italiano, compresa la Toscana.

Una tela napoletana ad Arezzo

Una prima opera dell’autore visibile in Toscana è la grande tela con San Mauro cura gli infermi (fig.4) presente nella cappella del transetto sinistro della Badia delle SS. Flora e Lucilla di Arezzo.

Firmata e datata al 1690, questa pala d’altare fu commissionata dagli abati aretini al pittore cilentano, al prezzo di 100 scudi, grazie alla mediazione di un benedettino di Cava de’Tirreni e conoscente del De Matteis stesso. Unico esemplare del pittore ad oggi conosciuto nell’aretino, secondo Giuseppe Napoletano la commissione di questo dipinto potrebbe essere connessa ad una serie di incarichi conferiti al De Matteis da più comunità benedettine italiane, confraternita al quale anche la Badia di Arezzo apparteneva.

In alto, al centro della ponderata composizione, si colloca San Mauro, vestito con l’abito nero benedettino, rappresentato nell’atto di guarire un malato. Attorno al santo si accalcano altre figure di ammalati in attesa del suo tocco miracoloso. In basso sulla destra, l’attenzione del riguardante è indirizzata sulla figura dell’infermo, coperto da un drappo arancio e dipinto in primo piano su una rudimentale carrozzella, sulla cui ruota l’artista appose la firma e la data di esecuzione della pala. La matrice stilistica dell’opera si ispira ai modelli del maestro Giordano, come per esempio il San Francesco Saverio battezza gli indiani (fig. 5), oggi al Museo di Capodimonte a Napoli, dal quale però il De Matteis si discosta delicatamente nel creare una composizione meno affollata e più calibrata, anche nella teatralità dei gesti, più composti, sulla scia dell’insegnamento romano.

 

Le opere di Paolo De Matteis a Pistoia

Una seconda committenza toscana del pittore cilentano si trova a Pistoia, nella chiesa di San Paolo, dove si conserva la Visione di san Gaetano da Thiene (fig. 6), eseguita nel 1693.

Fig. 6 - Paolo De Matteis, Visione di San Gaetano da Thiene, 1693, Pistoia, Chiesa di San Paolo. Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=74035713.

In alto a sinistra un piccolo putto solleva un corposo drappo svelando la scena allo spettatore, un espediente scenico che De Matteis usa spesso nelle sue composizioni e che apprende fedelmente dal maestro Giordano. In primo piano un gioioso angelo sorregge S. Gaetano, intento nella contemplazione della divina visione di Cristo in gloria, assiso su soffici nuvole e circondato da una schiera di angeli dalla dolce fisionomia. In basso a destra è dipinto poi lo stemma del committente.

La pala fu affidata al De Matteis dal marchese Giovanni Matteo Marchetti, raffinato collezionista e conoscitore d’arte, membro di una nobile famiglia pistoiese strettamente connessa al Granducato mediceo. Il marchese, mentre rivestiva la carica di preposto della cattedrale pistoiese, assieme ai fratelli si dedicò al restauro dell’altare di famiglia, voluto dal padre scomparso alcuni anni prima. Durante i lavori di decorazione, Marchetti commissionò proprio al pittore cilentano una nuova pala d’altare in sostituzione di una vecchia tavola.

Le motivazioni di tale commissione risultano ancora oggi molto fumose e differenti sono state le ipotesi degli studiosi in merito. Un erudito conoscitore come il Marchetti non poteva non essere a conoscenza delle coeve scelte artistiche gravitanti la corte medicea, aperta ad influenze barocche esterne all’ambito fiorentino. Tra il 1682 e il 1685 si attesta, inoltre, la presenza a Firenze di Luca Giordano, impegnato nella decorazione della cappella Corsini nella chiesa di Santa Maria del Carmine e poi a Palazzo Medici-Riccardi. Questo dato, pur non avvalorando la teoria di una supposta presenza di De Matteis al seguito del maestro, ipotesi ormai esclusa dagli studiosi, potrebbe tuttavia attestare un plausibile intento emulativo per la commissione al pittore cilentano. Napoletano ha suggerito, inoltre, che la visione diretta del San Mauro cura gli infermi potrebbe aver giocato un ruolo chiave nel far ricadere la scelta sul De Matteis. Poiché la pala d’altare pistoiese non era ancora stata eseguita al momento della nomina del Marchetti a vescovo di Arezzo, avvenuta nel dicembre 1691, lo studioso propone che il marchese potrebbe aver apprezzato direttamente dal vivo il valore dell’opera aretina di De Matteis, propendendo successivamente per una commissione al pittore napoletano.

Lucia Sacchetti Lelli propone, invece, di legare una seconda figura alla scelta artistica intrapresa dal committente pistoiese: padre Sebastiano Resta. Milanese di nascita e membro di una congregazione filippina romana, il Resta è una figura affascinante del panorama del collezionismo seicentesco e per questo ancora oggi è oggetto di ampi studi da parte degli storici dell’arte. Oltre ad essere stato un pittore apprezzato, fu soprattutto un erudito collezionista di disegni antichi e moderni, che raccolse all’interno di grandi volumi, arricchiti da personali commenti storico artistici, con l’intento di tratteggiare una storia dell’arte italiana ante litteram.

Durante la sua vita fu in contatto con i maggiori collezionisti e conoscitori del suo tempo e viaggiò in tutta Italia. Proprio a Napoli fu ospite del già citato marchese del Carpio, per curarne la collezione di disegni, negli stessi anni in cui il De Matteis gravitava nell’orbita del viceré. Plausibilmente fu allora che il Resta e il pittore instaurarono un rapporto di amicizia di lunga durata, attestato da successivi contatti epistolari tra i due. Proprio il Resta fu in seguito in contatto con il marchese Marchetti per occuparsi dell’ampliamento della sua collezione di dipinti e disegni. Secondo la storica, questo triangolo intellettuale avvalorerebbe l’ipotesi di un intervento del Resta quale «intermediario non solo per la pala d’altare della chiesa di San Paolo…»[1], ma anche per alcune opere richieste dal Marchetti per la decorazione del salone del palazzo di famiglia a Pistoia. Infatti, per questo progetto decorativo il marchese commissionò proprio a Paolo De Matteis altre due tele, entrambe dal soggetto mitologico e collegate simbolicamente alla musica, una delle passioni del committente. Nella tela con Siringa inseguita da Pan (fig. 7), firmata e datata 1695, il pittore racconta per immagini la storia narrata da Ovidio nelle sue Metamorfosi, rappresentandoci l’istante prima della trasformazione della ninfa in un fascio canne per sottrarsi alla presa del satiro. I personaggi secondari dipinti nella scena sono abilmente disposti “a corona” attorno ai due protagonisti, concentrando l’attenzione dello spettatore sul soggetto principale della composizione. Come ha notato Napoletano, dal punto di vista compositivo l’opera pistoiese si ispira abbondantemente alla tela di Luca Giordano, con lo stesso soggetto, conservata alla Walpole Gallery di Londra (fig. 8). Tuttavia, le figure sono ormai lontane dai modi del maestro napoletano, avvicinandosi piuttosto alle classicheggianti morfologie della scuola romana. Questa caratteristica è ancor più evidente nella seconda tela di Palazzo Marchetti, l’Apollo e Marsia (fig. 9), dove il focus della composizione è la raggiante figura del dio, dipinta dal De Matteis con una bellezza idealizzata e una posa ponderata all’antica sulla scia di Carlo Maratti (fig. 10).

Le due tele pistoiesi rappresentano un prezioso esempio della sensibilità del pittore cilentano per la “pittura arcadica”. Grazie alla sua conoscenza delle fonti classiche, Paolo De Matteis fu infatti un pittore erudito molto «sensibile all’interscambio tra pittura e letteratura»[2], tanto da essere stato considerato dagli storici dell’arte come un precursore della pittura arcadica, della quale anticipò «i princìpi, i temi e gli stilemi», particolarmente espressi nelle sue opere dal tema mitologico. Pur non avendo mai aderito all’Accademia dell’Arcadia, l’eclettico pittore cilentano fu in contatto con alcuni esponenti del circolo letterario romano, condividendone le ispirazioni e contribuendo così alla diffusione di questo gusto nella pittura napoletana a cavallo tra i due secoli.

 

 

 

Note

[1] L. Sacchetti Lelli, Hinc priscae redeunt artes, Giovan Matteo Marchetti, vescovo di Arezzo, collezionista e mecenate a Pistoia (1647-1704), p. 20.

[2] G. Napoletano, “Note sui dipinti di Paolo De Matteis a Pistoia”, in Predella, 34, 2014, p. 80; Idem per la citazione successiva.

 

Bibliografia

Sacchetti Lelli, Hinc priscae redeunt artes: Giovan Matteo Marchetti, vescovo di Arezzo, collezionista e mecenate a Pistoia (1647-1704), Aska Edizioni, Firenze, 2005.

Pierguidi, “Li soggetti furono sopra la pittura”: Luca Giordano, Carlo Maratti e il "Trionfo della pittura napoletana" di Paolo de Matteis per il Marchese del Carpio, in Ricerche sul ‘600 napoletano: saggi e documenti, 2009, pp. 93-99.

Tocchi, Il San Mauro taumaturgo di Paolo de Matteis, in La chiesa della Badia in Arezzo: guida storico artistica, a cura di A. Andanti-G. Centrodi-M. Tocchi, Città di Castello, 2013, pp. 168-172.

Napoletano, “Note sui dipinti di Paolo De Matteis a Pistoia”, in Predella, 34, 2014, pp. 75-84.

Della Ragione, Paolo De Matteis: opera completa, Edizioni Napoli Arte, Napoli, 2015.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/sebastiano-resta_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-de-matteis_%28Dizionario-Biografico%29/


LA CHIESA DI SAN GIORGIO A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

Introduzione

Nella chiesa di San Giorgio a Salerno domina l’impronta artistica di Angelo e Francesco Solimena. Qui ad Angelo viene assegnato uno dei suoi più importanti incarichi, risalente alla seconda metà del XVII sec.: con l’aiuto dei suoi collaboratori esegue gli affreschi delle Storie e i miracoli di San Benedetto, suddivisi in cinque pannelli, nella volta della navata e sulla controfacciata, figure allegoriche di Virtù  e coppie di Sante tra le finestre, la Passione di Cristo nel coro, il Paradiso nella cupola, gli Evangelisti nei pennacchi, Santi, Angeli musicanti e Putti nelle cappelle e le tele della Crocifissione e di San Benedetto alle testate del transetto. Allievo di Francesco Guarino, pittore di stampo naturalista, nelle sue opere recupera i valori di concretezza e tangibilità della passata tradizione naturalistica, che si evincono dalla dettagliata descrizione dei particolari e delle ambientazioni, dalle molteplici espressioni del volto, delle pose e della gestualità delle figure, dalla resa attenta dei corpi.

Il vero capolavoro di Angelo Solimena è La Visione dei Santi in Gloria del Paradiso o Paradiso Salernitano affrescato nella cupola della chiesa di San Giorgio, che si ispira a quello del parmense Lanfranco nella Cappella del Tesoro del Duomo di San Gennaro a Napoli del 1641.

In quest’opera, che risente maggiormente dell’influenza del figlio Francesco, emerge una nuova concezione illusionistica dello spazio, tipica dell’arte barocca. La cupola è concepita come una struttura dinamica in cui si muovono masse ruotanti di Santi, adagiati su soffici nuvole e dai gesti e dagli sguardi rivolti verso l’alto, culminanti, con un moto concentrico, nella figura centrale di Dio Padre. Il senso di dilatazione dello spazio sconfinato dei cieli è dato anche del diradarsi della densità delle nubi e dai contorni delle figure che, a mano a mano che ci si dirige verso l’alto, sembrano svanire, sfaldarsi nella luce intensa e diffusa, dalle vesti fluttuanti dei personaggi, dalle figure scorciate, dalla vivacità dei colori e dal complessivo dinamismo scenico. È un’opera capace di stimolare l’immaginazione e l’emotività del fruitore, che diventa attore e spettatore allo stesso tempo.

 

La Visione dei Santi in Gloria del Paradiso o Paradiso Salernitano nella chiesa di San Giorgio

Nella Cappella a sinistra della chiesa di San Giorgio a Salerno è invece presente uno dei primi cicli pittorici di Francesco Solimena, commissionatogli intorno al 1675 e dedicato alle vicende delle Sante Tecla, Susanna ed Archelaa. Purtroppo, a causa dell’umidità di cui è permeata la cappella, gli affreschi sono stati molto danneggiati, alcuni scomparsi ed altri difficilmente leggibili. Gli episodi principali raffigurano Le Sante condotte al martirio, l’apparizione di una delle tre Sante a suor Agneta e il loro Martirio.

Con questi affreschi il giovane Francesco comincia a distaccarsi dal tardomanierismo del padre Angelo per rivolgersi al nuovo stile barocco, guardando con interesse alla produzione pittorica di Mattia Preti, Pietro da Cortona, Lanfranco e Luca Giordano, ai quali si ispira  per le grandi composizioni ariose, scenografiche e dinamiche. Tuttavia, un certo interesse per le osservazioni naturalistiche del padre Angelo continua a riscontrarsi nella descrizione accurata di elementi paesaggistici e di architetture classiche, nella resa dei cavalli, delle muscolature dei carnefici, nelle descrizioni delle armi e dell’abbigliamento dei soldati, così come colpiscono la compostezza e la dignità delle Sante e delle composizioni nel loro complesso, seppur nei momenti estremi della condotta al martirio e del martirio stesso. Tuttavia, intorno al 1690, si assiste ad un cambiamento dello stile del Solimena che  Bernardo De Dominici, nelle sue Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani, ha definito una “total variazione”, consistente nella precisione del disegno, nella bellezza e maestà nella resa dei panneggi, nella tenerezza del colore, nella grazia dei volti, nella nobiltà degli atteggiamenti e delle azioni, nella grandiosità delle composizioni, suscitando stupore ed ammirazione in chiunque osservi le sue opere. Il Solimena rivendica una pittura più razionale, meditata nella scelta dei colori e nella resa dei personaggi, dove la luce non contribuisce più allo sfaldamento delle forme, come avviene nel Giordano, e a creare drammaticità, ma viene calibrata con le tonalità scure, in modo da restituire sodezza plastica alle figure, giungendo alla resa di un “perfettissimo chiaroscuro”.

Egli torna a composizioni vaste alla chiarezza e concretezza formale, ad immagini sacre e profane di solenne monumentalità e compostezza classica.

La formula da lui elaborata, definita “solimenismo” e consistente nella fusione di rigore formale e compositivo con istanze di naturalezza ed intensità espressiva, avrà largo seguito.

Tali soluzioni si evidenziano maggiormente nella tela raffigurante San Michele che sconfigge gli angeli ribelli, nella chiesa di San Giorgio. L’Arcangelo Michele si contraddistingue per alcuni suoi tipici attributi iconografici, quali l’armatura e la spada, poiché nelle Sacre Scritture è identificato come l’angelo guerriero di Dio (Giuda 9) a capo dell’esercito celeste (Ap. 12:7), in perenne lotta contro il male. Il dipinto mostra San Michele nel momento in cui ha sconfitto gli angeli ribelli, rovinosamente precipitati verso il basso. La sua figura è posta in risalto, sia perché si staglia su di uno sfondo dorato e circondato da festosi putti alati che per l’armatura scintillante che indossa e lo svolazzante mantello di un rosso intenso che lo avvolge. Colpiscono la bellezza e la delicatezza di tratti del volto dell’Arcangelo e la serenità dello sguardo, consapevole di aver portato a termine la sua missione divina, ed il vigore dei corpi e della muscolatura dettagliatamente definiti degli angeli ribelli, dovuti alla resa di un sapiente chiaroscuro.

San Michele sconfigge gli angeli ribelli (olio su tela, 1690 - 1695).

Alle spalle dell’altare maggiore, la chiesa di San Giorgio continua nella vasta sagrestia, coperta con volta a botte, decorata da elementi in stucco e affrescata da Michele Ricciardi con

La Vergine che dà la pianeta a Sant’Idelfonso. Discendente da una potente famiglia romana a Toledo, Sant’Ildefonso, anziché dedicarsi alla carriera, preferì la vita ecclesiastica, rifugiandosi nel monastero dei Santi Cosma e Damiano, vicino Toledo, e consacrandosi alla preghiera, agli studi e alla composizione di testi. La sua devozione a Maria fu tale che si narra che il 15 Agosto del 660 la Vergine gli apparve nel presbiterio della cattedrale e gli consegnò una preziosa pianeta. Per questo motivo, il suo nome è sempre legato a quello della Vergine ed è sempre raffigurato accanto a Lei. Nell’affresco, Sant’Ildefonso è inginocchiato in basso a sinistra nell’atto di ricevere dalla Vergine una pianeta finemente decorata che appare leggera e che quasi scivola via, come priva di consistenza materica. In primo piano a destra si dispone, invece, l’Eresia, raffigurata come una vecchia dall’aspetto miserabile e dalle carni dilaniate, secondo i dettami dell’ “Iconologia” di Cesare Ripa. In alto la Vergine, alle cui spalle si colloca un devoto San Benedetto in atteggiamento orante (la cui presenza serve forse a ricordare le origini benedettine del monastero), è assisa su di una sorta di trono fatto di nuvole soffici e impalpabili, da cui si affacciano dei vivaci e giocosi putti. In un piano arretrato si inseriscono, intravedendosi, due anziani spettatori affascinati ed increduli allo stesso tempo dinnanzi all’apparizione celeste della Vergine. Il segno si presenta fluido, morbido, nella resa delle figure, mentre la luce calda e dorata accentua i contrasti cromatici: spiccano il nero dell’abito del Santo, il manto azzurro della Vergine e il rosa cangiante del panno che copre le nudità dell’Eresia. La presenza del tendaggio verde scostato in alto a sinistra conferisce un tono teatrale alla rappresentazione che, più che alla visione di un evento sacro, miracoloso, introduce ad una sorta di spettacolo di corte. Sono presenti elementi tipici delle rappresentazioni mariane del Ricciardi, quali l’impianto piramidale della Sacra conversazione con i Santi ai piedi della Madonna, l’aspetto giovanile ed aggraziato di Maria, colta in atteggiamenti di estrema umiltà ed affabilità nel dialogare con i Santi in adorazione, ricorrendo ad un intenso scambio di sguardi, e l’ambientazione di impronta classicheggiante (sullo sfondo a sinistra si nota una colonna dall’alto basamento).

Sant’Ildefonso riceve la pianeta dalla Vergine (affresco, 1706 - 08 circa).

 

Bibliografia

Bologna F., Francesco Solimena, Napoli 1958

Braca A., La pittura del Sei - Settecento nell’Agro Nocerino Sarnese: il Seicento, in Architettura ed opere d’arte nella Valle del Sarno, Salerno 2005

Mancini T., Michele Ricciardi. Vita e opere di un pittore campano del Settecento, Napoli 2003

Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell’Arte Italiana, 6/I, Torino 1981

Spinosa N., Pittura napoletana del Settecento dal Barocco al Rococò, Napoli 1986

 

Sitografia

www.ambientesa.beniculturali.it


LA CAPPELLA DELL’ARCA DI SANT’ANTONIO

A cura di Mattia Tridello

 

La tomba del Santo di Padova

Introduzione

“GAUDE FELIX PADUA QUAE THESAU(RUM) POS(S)IDES”. “Gioisci, o felice Padova, che possiedi un tesoro”. Con queste solenni parole, il 30 maggio 1232 nella festa di Pentecoste, nel duomo di Spoleto, Papa Gregorio IX elevò agli onori degli altari un frate francescano che, da quel momento in poi, diverrà universalmente noto e venerato con il nome di Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dell’intera cristianità. Dopo neanche un anno dalla sua morte, passarono solo 352 giorni, il processo di canonizzazione era già terminato e ancora oggi viene ricordato come il più breve della storia della Chiesa. Iniziava così la devozione verso il frate che in vita, con la sua predicazione e le opere di bene, si era sempre schierato dalla parte dei più deboli, degli umili, dei disagiati e dei poveri, opponendosi con forza a qualsiasi forma di tirannia e ingiustizia. Ebbene, potrebbe risultare singolare iniziare a parlare di Antonio con questa frase latina, tuttavia, proprio quest’ultima, permette di addentrarsi all’interno del luogo che più di tutti è indissolubilmente legato al Santo: la Sua tomba, o meglio l’Arca. Le parole altisonanti pronunciate dal papa sono infatti riprodotte a caratteri dorati nel riquadro centrale della meravigliosa volta che copre la cappella ospitante i resti mortali del frate. Proprio questa, da secoli, è comunemente nota con il titolo di “Cappella dell’Arca”. A questo punto è naturale chiedersi il motivo di tale denominazione. In origine e se si guarda all’antico Testamento, con il termine “arca” si indicava esplicitamente la cosiddetta “Arca dell’Alleanza”, la cassa di legno d’acacia dorata che custodiva al suo interno le Tavole della Legge, il bastone di Aronne e un piccolo vaso contenente la manna[1]. Conservata nella zona più sacra del Tempio di Gerusalemme, essa costituiva il bene più prezioso per il popolo ebraico. Non è un caso dunque che Gregorio IX definì Sant’Antonio come “Arca del Testamento”, in virtù della vastissima conoscenza teologica che quest’ultimo ebbe e seppe far concreta, con intrepida forza e carità evangelica, tramite l’aiuto e la difesa del prossimo. Inoltre, lo stesso sarcofago nel quale riposano i resti mortali del Santo assunse, nel corso del tempo, la medesima denominazione per indicarne sia il prezioso contenuto sia l’importanza rivestita per la popolazione patavina e per l’intera basilica che, per sineddoche, è nota ai più semplicemente come “il Santo”, a prova della profonda devozione che in tutto il mondo viene riservata verso il “Santo senza nome”, ad Antonio. La cappella dunque si fregia di essere uno dei luoghi più visitati dell’intero complesso antoniano e i suoi marmi, le sue statue, i suoi elaborati decori, se potessero parlare, sarebbero unanimi nel raccontare il costante, continuo e duraturo flusso di fedeli che transitano giornalmente proprio accanto a quel sarcofago marmoreo, a quella lastra toccata da migliaia e migliaia di persone ogni anno, di quel segno visibile di Antonio tra la gente che ancora parla e si fa testimonianza viva nei cuori dei fedeli. Con questo itinerario sotto le cupole della basilica, si cercherà dunque di ripercorrere le vicende artistiche e storiche che portarono alla creazione della cappella che ospita le spoglie del Santo, di quello scrigno prezioso che, davanti agli occhi del fedele, si apre maestoso e tramanda attraverso i suoi decori, i suoi marmi e nella sua bellezza, l’esempio evangelico e mirabile del “Santo dei miracoli”.

 

L’origine della cappella e dell'arca di Sant'Antonio

Per comprendere meglio l’origine e la posizione attuale della cappella e del suo contenuto occorre risalire direttamente alla nascita del Santo. Era il venerdì 13 Giugno 1231. Fernando da Lisbona (questo il nome di battesimo di Antonio), colto da un malore e prossimo alla morte, su di un carro trainato da buoi, viene trasportato dal piccolo paesino di Camposanpiero fino alle porte di Padova, città nella quale chiede personalmente di emettere l’ultimo respiro. Giunto però alla periferia nord di quest’ultima, all’Arcella, mormorate le parole “Vedo il mio Signore”, spirò. Moriva così all’età di 36 anni il francescano che, con la sua predicazione, aveva mosso enormi folle di fedeli desiderose di tornare alla vita vissuta in conformità del Vangelo. Con solenni funerali, avvenuti il 17 Giugno 1231, il frate viene sepolto presso la chiesetta di Santa Maria Mater Domini, luogo ove amava ritirarsi spiritualmente nei periodi di intensa attività apostolica. Quella chiesa, al tempo anonima per molti, relativamente periferica in confronto al centro cittadino, sarebbe stata destinata a diventare la grandiosa basilica che ancora oggi accoglie numerosissimi gruppi di devoti e pellegrini in visita al luogo che ospita proprio il tesoro di Padova: “l’Arca del Santo. La morte e la celere canonizzazione di quest’ultimo non lasciarono indifferente la città patavina che, fin dagli albori della predicazione antoniana, accolse con entusiasmo la novità comunicativa introdotta dal frate capace di attirare e convertire le persone con l’esclusivo uso della parola. La vicinanza del popolo al francescano crebbe irrefrenabilmente culminando in un’aperta devozione. Quest’ultima si faceva presente in particolare nella piccola chiesetta che ne ospitava il corpo. Attualmente i resti di quel luogo sono stati inglobati nella maestosa costruzione basilicale ma si possono ancora vedere, almeno dal punto di vista planimetrico, nella Cappella della cosiddetta “Madonna Mora”. L’arca originale in marmo che ospitava le sacre spoglie era costituita da un sarcofago sopraelevato dal piano di calpestio grazie a quattro colonnine (fig.1 e 2), in questo modo i fedeli avevano la possibilità non solo di toccarla ma anche di sostarvici e sdraiarvici sotto come si evince da un affresco di Giusto de’ Menabuoi presente nella cappella del Beato Luca Belludi, attigua a quella dell’Arca (fig. 3). Proprio grazie al continuo afflusso delle persone, ben presto, furono registrati molti fenomeni miracolosi sulla tomba ed iniziarono ad arrivare pellegrini anche da oltralpe. Il progressivo aumento dei numeri di persone che quotidianamente sostavano nei pressi della piccola chiesetta portò alla posa della prima pietra (1240) di un tempio più vasto e capiente, appositamente progettato per contenere l’afflusso continuo di fedeli e pellegrini.

 

La fama e soprattutto l’indiscussa centralità assunta dalla tomba di Sant’Antonio nella venerazione popolare ci perviene attraverso l’affresco sopracitato e in particolare dalla prima testimonianza della vita antoniana a noi pervenuta, l’Assidua (testo agiografico composto nel 1232 da un anonimo frate francescano), ciò che appare muovere la devozione pubblica è il rapporto diretto che si instaura tra il devoto e la tomba. Proprio nei pressi di quest’ultima vengono attestati miracoli e grazie concesse dal Signore per intercessione del Santo, proprio in quel luogo i fedeli sostano costantemente, giorno e notte. Dunque è il sarcofago a imporsi come segno visibile e letteralmente palpabile di Antonio, l’arca diventa una sorta di rappresentazione di quest’ultimo che il pellegrino cerca fin dal suo primo ingresso in basilica, diviene quindi una vera e propria immagine che si lascia toccare, in un rapporto devozionale nel quale la fisicità è una componente essenziale. Per tale motivo, secondo alcuni storici, dopo la terza ricognizione del corpo avvenuta nel 1350, la tomba venne spostata al centro del transetto della nuova basilica, sotto la cupola centrale troncoconica. Con la volontà di dare al sarcofago un luogo dedicatogli e più fruibile da parte dei pellegrini, si avviò, dalla seconda metà del XIV secolo, la costruzione di una cappella gotica nel transetto di sinistra. Quest’ultima, decorata con affreschi di Stefano da Ferrara, a causa del fumo delle candele, dell’umidità e dell’esposizione del vano a nord, venne notevolmente danneggiata tanto che si decise, di comune accordo e con il favore del ministro provinciale padre Francesco Sansone (raffinato mecenate), per il suo completo rifacimento nei primi anni del Cinquecento.

La cappella cinquecentesca per l'arca di Sant'Antonio

Il vasto cantiere rinascimentale vede la collaborazione e l’impiego di artisti di fama nazionale che, collaborando in varie parti della cappella, contribuirono a renderla quello scrigno prezioso che ancora oggi suscita meraviglia e stupore nell’osservatore. Con la direzione dei padovani Giovanni e Antonio Minello preso avvio la costruzione del nuovo vano secondo il disegno architettonico scaturito, quasi per certo, dalla mano dello scultore e architetto veneziano Tullio Lombardo.

La pianta

La cappella si presenta in una pianta pressoché rettangolare innalzata di alcuni gradini rispetto al piano di calpestio del transetto e delle navate (fig. 4). L’accesso è contornato e ritmato dalla presenza di una loggia aperta su cinque arcate a tutto sesto, che si ripropongono poi in tutto il perimetro interno del vano.

La facciata

La facciata (fig. 5) si presenta scandita in altezza secondo uno schema ben definito e proporzionale. Al livello del piano di calpestio, al di sopra di basamenti marmorei, si innalzano quattro colonne e due semi-pilastri che sostengono il livello superiore. In quest’ultimo, intervallati da fregi istoriati, trovano spazio cinque riquadri ospitanti, i due laterali, clipei romboidali e circolari mentre, quello centrale, l’iscrizione latina “DIVO ANTONIO CONFESSORI SACRUM RP PA PO”, ovvero, “A sant’Antonio, la cittadinanza (repubblica) (RP) Patavina (PA) pose (PO)”.

L’attico e il coronamento della facciata sono scanditi dalla presenza di cinque nicchie marmoree intervallate da paraste corinzie. All’interno sono collocate cinque statue raffiguranti, rispettivamente da sinistra: Santa Giustina di Giovanni Minello (1513), San Giovanni Battista di Severo Calzetta (1500), Sant'Antonio di Giacomo Fantoni (1533), San Prosdocimo di Sebastiano da Lugano (1503) e San Daniele martire di Giacomo Fantoni (1533).

L’interno

L’interno del vano architettonico si presenta in tutta la sua lucentezza grazie alla presenza di numerosissimi marmi che lo caratterizzano come vero e proprio scrigno prezioso e straordinariamente dettagliato, a protezione dell’Arca del Santo che trova spazio al centro della cappella. Le tre pareti (fig. 6-7-8) (due sui lati corti e una sul lato lungo) che ne delimitano la planimetria, presentano il medesimo schema spaziale e decorativo. Quest’ultimo ripropone la suddivisione in diverse sezioni intervallate dalla presenza di tre arcate cieche a tutto sesto sui lati più piccoli, e ben cinque su quelli più grandi (fig. 9). Il visitatore così è attorniato da un’autentica bellezza che decora ogni singolo angolo dello spazio. Al livello più basso e sporgente, chiamato “panca”, si sovrappone un dossale. Al di sopra di questo sono presenti gli altorilievi con le prospettive scolpite e i paesaggi intarsiati. Nei pennacchi degli archi in successione compaiono i tondi raffiguranti i profeti. Il livello più vicino all’osservatore viene distanziato dalla parte superiore grazie a una trabeazione di gusto classico sovrastata da un attico intervallato da clipei circolari, romboidi, iscrizioni e paraste. All’altezza della volta trova spazio il fregio e la cornice superiore insieme alle lunette, alcune di queste sono scolpite con la rappresentazione a mezzo busto degli Apostoli mentre le altre restanti sono finestrate, ovvero, presentano aperture ovali che si affacciano direttamente sull’esterno.

 

All’interno delle arcate affacciate verso il centro della cappella venne organizzato un vasto apparato iconografico volto a descrivere e mostrare, come in un libro scolpito, le vicende salienti della vita di Antonio, in particolare i miracoli che il signore concesse per Sua intercessione anche mentre era in vita. Per questo motivo scaturirono, dai sapienti scalpelli di alcuni tra i più famosi e acclamati artisti dell’epoca (basti citare il Sansovino e i Lombardo), ben nove altorilievi rappresentanti, eccetto il primo, i miracoli del Santo riportati nella Sua biografia.

Fig. 9 - Visione dello schema esemplificativo della suddivisione spaziale della cappella.

 

 

I rilievi

In ordine, partendo da sinistra, i rilievi scolpiti rappresentano (fig. 10):

1 Vestizione di S. Antonio (A. Minello, 1512);

2 Il marito geloso che pugnala la moglie (G. Rubino e S. Cosini, 1529);

3 S. Antonio risuscita un giovane (D. Cattaneo e G. Campagna, 1577);

4 Risurrezione di una giovane annegata (Iacopo Sansovino, 1563);

5 S. Antonio risuscita un bambino annegato (A. Minello e I. Sansovino, 1534);

6 Miracolo del cuore dell’usuraio (T. Lombardo, 1525);

7 Miracolo del piede reciso e riattaccato (T. Lombardo, 1525);

8 Il bicchiere scagliato in terra e rimasto intatto (G. Mosca e P. Stella, 1520-29);

9 Un neonato attesta l’onestà della madre (A. Lombardo, 1505).

 

Tra quest’ultimi, in particolare, vorrei soffermarmi su quello realizzato dal fiorentino Iacopo Sansovino, “risurrezione di una giovane annegata” (fig. 11), poiché presenta alcune caratteristiche stilistiche e compositive di chiara matrice fiorentina date dalla provenienza dell’artista.

 

Come si comprende dal titolo dell’opera, l’altorilievo raffigura lo sconcerto degli astanti mentre guardano giacere a terra, annegata, la giovane. Tra la trepidazione delle figure sullo sfondo, si stagliano nella loro volumetrica plasticità tre donne: la giovane sdraiata, la madre che la sorregge accovacciata e infine la nonna inginocchiata (fig. 12). Sansovino, disponendole secondo uno schema semi circolare, quasi digradante verso l’osservatore, ebbe la straordinaria intuizione di accostare tre visi diversi sulla stessa diagonale. Tale effetto scultoreo lo si può bene intuire se ci si posiziona proprio sotto la firma dell’artista nella cornice inferiore (fig. 13).

 

I tre volti in successione probabilmente alludono alle tre età dell’uomo, giovinezza, età adulta e vecchiaia. L’artista, per completare la scena e fornire all’opera una maggiore prospettiva ebbe la geniale idea di utilizzare, per realizzare le due figure sullo sfondo, la tecnica di Donatello (che d'altronde aveva lavorato poco a pochi metri dall’Arca, all’altare della basilica) dello “stiacciato”, un’operazione scultorea che consentiva di scolpire un rilievo anche a superfici di spessore minime rispetto al fondo per aumentare l’impressione prospettica nell’osservatore. Risulta interessante notare che lo sfondo di tutte le scene viene realizzato creando una sorta di prospettiva che termina nella rappresentazione di paesaggi mirabilmente intarsiati, raffiguranti spesso edifici esistenti a Padova (si veda la Basilica stessa o il Palazzo della Ragione) (fig. 14-15).

Oltre al pregevole valore artistico, gli altorilievi presenti attorno alla tomba avevano una vera e propria funzione comunicativa che permetteva, anche a chi si sarebbe avvicinato per la prima volta alle spoglie di Antonio, di comprenderne le gesta e intuirne la profonda ed evangelica carità. Il merito di questa forma artistica (che ne valse la scelta durante la progettazione della cappella) fu proprio, oltre alla resistenza del materiale, la sua facilità di comprensione e lettura unita alla successiva proporzione delle figure che non a caso vennero disposte ad altezza d’uomo. I rilievi erano e sono tuttora veicolo di un messaggio chiaro ed esplicito che trae le sue radici proprio nel Vangelo, quella Parola che Antonio, insigne predicatore, con tanta forza predicò e visse continuamente. Avvicinarsi a queste opere non significa solo osservarne la bellezza ma anche contemplarne il monito.

L'arca di Sant’Antonio

Vera protagonista della cappella è però l’altare-tomba-arca di Sant’Antonio. Come si è visto in precedenza, l’originario sarcofago era formato da un volume rettangolare sorretto da quattro colonnine. In occasione delle varie ricognizioni e traslazioni del corpo, il sarcofago venne sostituito nel Cinquecento con l’attuale. Questo, inglobato nell’altare-mensa, accoglie i fedeli che si avvicinano portando con sé ex voto, preghiere, richieste e ringraziamenti. La conformazione attuale di quest’ultimo si deve agli interventi di Tiziano Aspetti che, nei primi anni del XVI secolo, innalzò la mensa su sette gradini che permisero l’utilizzo della parte superiore stessa del sarcofago come altare (fig. 16-17). Così facendo venne creata una balaustra marmorea a protezione degli scalini e per contenere lo spazio antistante l’altare. Il sarcofago si presenta rivestito, sui quattro lati, da lastre di marmo verde antico detto anche “tessalico”, secondo alcuni sinonimo di gloria vista la sua preziosità, mentre sopra la mensa trovano collocazione tre statue bronzee sempre dell’Aspetti eseguite tra il 1593 e il 1594 e raffiguranti Sant’Antonio (al centro) (fig. 18-19), San Bonaventura e San Ludovico di Tolosa.

 

Ai lati della tomba sono collocati due candelabri in argento (alti ben 2,12 metri) realizzati da Giovanni Balbi rispettivamente nel 1673 (quello di destra) e 1686 (quello di sinistra) (fig. 20). Entrambi sono sorretti da un supporto marmoreo rappresentante angeli e gigli.

Fig. 20 – Visione del candelabro di sinsitra, fonte: Lucio Pertoldi, “La cappella dell'arca di Sant'Antonio nella basilica di Padova. Marmi antichi, storia e restauro”, Lalli Editore, 2011.

 

Portandosi dietro i gradini dell’altare si giunge al vero e proprio cuore dell’intera cappella, la lastra di marmo verde che cela i resti mortali di Antonio (fig. 21).

Fig. 21 – Lastra tombale dell’Arca di Sant’Antonio, fonte: https://www.flickr.com/photos/91862558@N03/sets/.

 

È proprio in questo punto che i fedeli sostano maggiormente (fig. 22), chi pone la mano, chi vi appoggia il capo, chi versa lacrime per confidare al Santo paure, tensioni, problemi, sicuro che Egli non farà mancare la Sua intercessione presso l’Altissimo. Poniamoci anche noi in preghiera difronte a quest’arca tanto decorata nel corso dei secoli, poggiamo la mano. Proprio qui riposano le spoglie di quel frate che 800 anni fa giunse provvidenzialmente in Italia e che 790 anni fa morì nella calda sera del 13 Giugno. Un uomo colto che seppe fare del Vangelo il centro della Sua vita, portando l’annuncio della “bella notizia” a tutti, confessando e predicando instancabilmente. Idealmente tutto nella cappella diventa testimonianza: i marmi, le statue, gli stucchi, si fanno portatori di quel messaggio di devozione verso Antonio “che tutto il mondo ama”; anche attraverso l’arte e le sue rappresentazioni che, in particolare qui, sono così numerose. Quest’ultime, sebbene a volte paiano simili, non sono mai discordanti poiché la personalità di Antonio è stata - e continua a essere - universale, eccezionalmente ricca di storia e devozione e quindi in grado di inserirsi in dimensioni diverse ma unite dalla profonda umiltà francescana, dal rigore e dalla coerenza di una vocazione estremamente semplice e fattiva. Forse fu proprio questo l’aspetto che più fece presa tra le folle accorse, durante le sue predicazioni, per vederlo e toccarlo, perché percepivano la presenza della sua santità e scorgevano, nella sua persona, un modello umano. Quella figura presente e santa, dalla quale l’arte e la devozione non hanno mai smesso di attingere per l’ideazione e la creazione di assoluti capolavori, ieri come oggi ancora parla da questo luogo al mondo e si fa testimonianza presente di una vita veramente vissuta nella gioia piena (Gv 15, 11-12).

 

Le piante, gli schemi, i modelli spaziali-compositivi della cappella e la ricostruzione dell’Arca sono state realizzate dall’autore dell’articolo mentre le immagini di dominio pubblico sono tratte da Google immagini, Google maps e dal sito web della Basilica di Sant’Antonio.

Le fotografie sono prese da https://www.flickr.com/photos/91862558@N03/sets/ e da Lucio Pertoldi, “La cappella dell'arca di Sant'Antonio nella basilica di Padova. Marmi antichi, storia e restauro”, Lalli Editore, 2011.

 

 

Note

[1] Dal Libro dell'Esodo (25,10-22; 37,1-9).

 

Bibliografia

Lucio Pertoldi, “La cappella dell'arca di Sant'Antonio nella basilica di Padova. Marmi antichi, storia e restauro”, Lalli Editore, 2011.

Andergassen, “L’iconografia di Sant’Antonio di Padova, dal XII al XVI secolo”, Padova, Centro studi antoniani.

Padova e il suo territorio, rivista di storia arte e cultura, 1995.

“Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903)” nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca, La Sapienza, 2017.

Baggio,“Iconografia di Sant’Antonio al santo a Padova nel XIII e XIV secolo”. Scuola di dottorato, UniPd.

Libreria del Santo, “La Basilica di Sant’Antonio in Padova”, 2009.

Il Messaggero di Sant’Antonio, numero di approfondimento del Giugno Antoniano, 2019.

 

Sitografia

Sito web ufficiale della Basilica di Sant’Antonio.

Sito web dell’Arciconfraternita del Santo.

Sito web Venetian Heritage.