ANTONIO DI PADOVA ALLA SALUTE DI VENEZIA

A cura di Mattia Tridello

 

Introduzione: Eccezionale “peregrinatio” della Reliquia di Sant'Antonio di Padova

Al di sotto delle cupole di due importanti basiliche venete, dal 13 al 20 Giugno 2021, nell’ambito dei festeggiamenti per il Giugno Antoniano, per la prima volta nella storia dal Seicento, avverrà l’eccezionale “peregrinatio” della più grande Reliquia di Sant’Antonio di Padova conservata al di fuori della Basilica del Santo. Era infatti un momento di estrema difficoltà bellica quando, la Repubblica Serenissima di Venezia, nel 1652, per implorare l’intercessione di Antonio di Padova affinché terminasse la sanguinosa e lunga Guerra di Candia, anche nota come la quinta guerra turco-veneziana, chiese e ottenne dai frati padovani, custodi delle spoglie del Santo, che venisse concessa loro un’insigne Reliquia di quest’ultimo. Fu così che venne donato l’avambraccio sinistro, l’ulna. Da quel momento, con solenne processione, quest’ultimo venne portato trionfalmente, via acqua, a Venezia e posto nella Basilica della Madonna della Salute; il tempio votivo cittadino che lo stato veneziano aveva eretto come ringraziamento alla Beata Vergine Maria per la fine dell’epidemia di peste che colpì la città nel 1630. A seguito dell’evento, il frate francescano venne proclamato co-patrono di Venezia e si decise di dedicargli stabilmente un altare all’interno del tempio della Salute. In questo modo le due città venete, da secoli, rimangono unite spiritualmente e quest’anno, proprio per la situazione sanitaria che stiamo tutti vivendo, avverrà un gesto tanto unico quanto significativo proprio alla luce del difficile periodo nel quale il nostro paese e il mondo intero si trova coinvolto. La “peregrinatio” antoniana infatti, in virtù di ciò, vuole essere un segno visibile dell’unione nel territorio, di quella spinta verso l’alto per chiedere, come i nostri predecessori, aiuto e intercessione per superare la pandemia; o come afferma Papa Francesco per uscire da una crisi dalla quale “… non si esce uguali, come prima: si esce o migliori o peggiori”. Perciò proprio questo evento si configura come una fonte di speranza nel domani, in un avvenire che, se ispirato ai veri valori della vita, della solidarietà, del dono, della fratellanza, sarà di certo migliore.

Per l’occasione Storiarte propone l’intervista a don Marco Zane, vice-rettore del Santuario della Basilica della Madonna della Salute di Venezia, nonché collaboratore del settimanale Gente Veneta e dell’ufficio stampa e comunicazioni sociali del Patriarcato di Venezia.

 

Buongiorno don Marco, in primis vorrei ringraziarla da parte mia e da tutto lo staff di Storiarte per la cortese disponibilità mostrata e l’attenzione rivolta.

D: L’iniziativa vedrà coinvolte due grandi realtà del Veneto, Venezia e Padova, qual è il legame che unisce queste due città alla luce della devozione Mariana e Antoniana?

R: “Venezia è sempre stata profondamente legata a Sant'Antonio di Padova, la devozione in laguna per quest’ultimo è fortemente presente tanto che, proprio il 13 Giugno, giorno della Sua festa, da secoli, era tradizione consolidata che il Patriarca si recasse in processione verso l’altare votivo dedicato ad Antonio e vi si esponesse, cosa che avviene anche tutt’ora, la Reliquia dell’ulna (conservata solitamente nell’armadio delle Reliquie della sagrestia). Vi è un altare votivo dentro un tempio votivo, in entrambi i casi, Venezia, nei momenti di difficoltà, si è sempre rivolta all’intercessione celeste, in particolare a quella del Santissimo Redentore per la liberazione dalla peste del 1576, a quella di Maria Santissima nella terribile epidemia del 1630 e a quella di Sant'Antonio di Padova per la liberazione da un altro flagello, quello della guerra negli anni 50 del ‘600.”

 

D: Qual è il valore che questo gesto può avere nel tempo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo?

R: “Con questo gesto vogliamo portare questa Reliquia domenica 13 Giugno a Padova facendole compiere, per la prima volta nella storia, il viaggio di ritorno al luogo da dove proviene, compiendo però delle soste fortemente significative per il territorio e per l’attuale situazione sanitaria; queste saranno la Parrocchia Sant'Antonio di Marghera, l’ospedale civile dell'Angelo di Mestre e il covid hospital di Dolo. Con il passaggio della Reliquia si vuole portare speranza e coraggio nei luoghi di sofferenza, nelle realtà cittadine e ospedaliere che hanno visto impegnati in prima linea i medici, gli infermieri, tutto il personale sanitario e volontario nella lotta contro il virus, per chiedere a Sant'Antonio di Padova la Sua intercessione e la Sua protezione, e per chiedergli di aiutarci a vivere nella fede di Cristo Redentore questo tempo di pandemia nel segno della vicinanza e della consolazione per quanti stanno soffrendo.”

D: Come si svolgerà l’iniziativa e quali saranno i momenti più significativi della “peregrinatio”?

R: L’iniziativa del tutto straordinaria per quanto abbiamo detto, si volgerà seguendo alcuni momenti particolarmente significativi. Il 13 Giugno, al mattino, la Reliquia, accompagnata da S.E.R mons. Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia, dal rettore della Basilica, don Fabrizio Favaro, dal rettore della basilica del Santo, padre Oliviero Svanera e dai seminaristi, partirà dalla città, scortata dall’arma dei carabinieri, per giungere, dopo le tre soste prima elencate, a Padova. Una volta arrivata alla basilica del Santo verrà disposta, per la venerazione dei fedeli, in un apposito spazio allestito nella Cappella delle Reliquie. Quest’ultima resterà e sarà visibile in basilica fino al 20 Giugno. Alle 12.30 il Patriarca presiederà la solenne celebrazione liturgica all’altare maggiore.

Il 20 Giugno, al termine dell’esposizione della Reliquia, quest’ultima lascerà Padova e, attraverso i mezzi acquei predisposti dai Carabinieri, compirà la “peregrinatio” di ritorno a Venezia, con la Reliquia e il busto dorato reliquiario del Santo, scortata dal rettore Oliviero Svanera e dai frati della basilica padovana lungo il fiume Brenta, percorrendo le stesse chiuse fluviali che, nel 1652 portarono il corteo in laguna. Lungo il tragitto acqueo avverranno alcune soste nelle parrocchie di Stra, Dolo, Mira e Oriago senza però la discesa della Reliquia. Alle 17.30 quest’ultima sarà accolta solennemente a Venezia dal Patriarca e dall’assessore Simone Venturini in Campo San Samuele. Da lì si compirà l’ultimo tratto processionale lungo il Canal Grande (con la presenza delle società remiere di Venezia e Mira) fino a giungere alla Basilica della Salute dove, alle 18.30, con la Celebrazione Eucaristica, si concluderà la “peregrinatio” antoniana.

Ringraziando don Marco per l’intervista, si ricorda che l’evento ha il supporto tecnico, organizzativo e logistico dell’Arma dei Carabinieri che, per l’occasione, ha messo a disposizione gli equipaggi e i mezzi di trasporto terrestri e acquei che verranno utilizzati durante l’evento.

Per poter seguire da casa le iniziative e le celebrazioni del 13 Giugno, ci si potrà collegare alla diretta continua per tutta la giornata al sito internet https://13giugno.org/ o ai profili Facebook e YouTube della basilica di Sant’Antonio di Padova.

Tutti gli appuntamenti della giornata, sia del 13 che del 20 Giugno, saranno trasmessi tramite una diretta televisiva e anche streaming no-stop su Rete Veneta, canale 18.

Si ringraziano don Marco Zane e Paola Talamini, organista titolare della Basilica della Salute, per la consulenza storica e informativa, nonché per la cortese disponibilità.

 

MATTIA TRIDELLO

Sono nato a Rovigo (RO) in Veneto nel 2001. Ho frequentato il Liceo Artistico di Rovigo con indirizzo Architettura e ambiente conseguendo la maturità artistica con votazione di 100/100. Spinto nel coltivare il mio interesse artistico e architettonico sto proseguendo gli studi presso la facoltà di Architettura nell’università I.U.A.V di Venezia presso la quale ho partecipato a numerosi seminari riguardanti la storia dell’architettura medievale e moderna e realizzato un saggio di approfondimento in merito alla Cupola e il Baldacchino della Basilica di San Pietro in Vaticano. Volendo approfondire ulteriormente la mia conoscenza della storia  dell’arte frequento seminari e corsi intensivi, in particolare di storia dell’arte moderna, presso la facoltà di Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Frequento inoltre il Conservatorio di Rovigo nel quale ho ultimato gli studi pre-accademici di Pianoforte, ho conseguito la licenza in solfeggio e, ad oggi, ho iniziato lo studio dell’ Organo e della composizione organistica.All’interno di Storia dell’Arte copro il ruolo di referente per la regione Veneto.


LA SALA DI ERCOLE A PALAZZO FARNESE

A cura di Andrea Bardi

 

Introduzione

Il seguente articolo intende fornire un approfondimento sulla prima delle sale a cui giungono i visitatori una volta percorsa la Scala Regia e approdati al Piano Nobile: è la Sala di Ercole [Fig. 1], la cui partitura decorativa si snoda attorno alla creazione leggendaria del Lago di Vico.

Fig. 1 – La Sala di Ercole. Fonte: https://www.artinvistaguideviterbo.com.

 

La leggenda nella Sala di Ercole

Le origini mitiche del lago di Vico (in origine lacus Ciminus) vengono riportate per la prima volta da Servio nel suo commento all’Eneide[1]. Secondo il mito Ercole, pressato dalle continue richieste della popolazione locale che gli chiedeva un saggio della sua forza, piantò la sua clava nel terreno[2]. In seguito a vani tentativi da parte degli uomini locali, fu lo stesso Ercole a provvedere all’estrazione dell’arma, causando una fuoriuscita di acqua che inondò la pianura circostante originando così il bacino lacustre cimino. In seguito a tale dimostrazione di forza, gli abitanti del posto decisero di innalzare un tempio all’eroe.

Fig. 2 – Il Pozzo del Diavolo. Fonte: http://www.anticopresente.it.

 

Ubicazione e Cronologia

La Sala di Ercole occupa, in lunghezza, l’intero lato del palazzo che affaccia sul paese e sulle pianure del cimino, ammirabili grazie all’apertura di cinque arcate vetrate a tutto sesto[3]. Lunga ottantatre palmi (circa ventuno metri), larga quarantuno (quasi undici) e alta, alla cornice, trenta (circa otto metri)[4], la sala, voltata a botte, era probabilmente concepita come sala da pranzo. I lavori di decorazione al suo interno vennero eseguiti in un periodo i cui estremi sono scanditi dalla settima misura[5](una misura è un documento di pagamento), databile all’11 novembre 1566, all’undicesima (23 novembre 1573, data entro la quale si vuole completato anche il pavimento, anch’esso su disegno di Jacopo Barozzi da Vignola)[6].

Descrizione della Sala di Ercole

La compartimentazione spaziale della sala trova i suoi referenti più immediati nella Sala Paolina di Castel Sant’Angelo (équipe di Perin del Vaga, 1545-1547, fig. 3), dalla quale si distacca, tuttavia, nel suo tono più riposato, nel suo respiro più ampio principalmente dovuto da una più ampia dimensione dei riquadri e dalla ripetitività degli elementi decorativi, meno invasivi rispetto al prototipo[7]. La descrizione dell’ambiente seguirà la successione procedurale degli interventi, principiando dalla volta e terminando con gli affreschi parietali.

Fig. 3 – Perin del Vaga e aiuti, Sala Paolina, Castel S. Angelo. Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/p/perino/index.html.

Volta

Il complesso di affreschi della volta a botte della sala, tematicamente centrata sulla leggendaria creazione del lago di Vico da parte di Ercole, ha il suo fulcro nella scena centrale (Ercole che nuota nel lago di Vico, Fig. 4).

Fig. 4 – Ercole che nuota nel lago di Vico. Credits: Di Jean-Pierre Dalbéra from Paris, France - La loggia d'Hercule (Palais Farnese, Caprarola, Italie), CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=83206089.

 

In corrispondenza dei lati corti, invece, ciascuno dei due ovali – raffiguranti rispettivamente il fulmine (sul lato corto della Fontana) e Pegaso (sul lato opposto, di accesso alla Cappella) – separa due riquadri affrescati: i quattro episodi che narrano la creazione del lago partono dal lato adiacente alla Cappella – capolavoro pittorico di Federico – con Ercole che affonda la clava nelle profondità della Terra e, procedendo in senso antiorario, toccano nuovamente il lato opposto (I giovani tentano di tirare fuori la clava con le loro mani; Ercole tira fuori la clava facendo fuoriuscire le acque di un lago, fig. 5) per terminare con la scena dei Contadini che dedicano un Tempio a Ercole [Fig. 5]. I quadri che si oppongono sui due lati lunghi raffigurano, invece, quattro delle dodici fatiche di Ercole (Ercole uccide l’Idra di Lerna; Ercole cattura il Toro di Creta; Ercole combatte i Centauri; Ercole cattura Cerbero).

Pareti laterali della Sala di Ercole 

La parete che i visitatori si lasciano alle spalle accedendo dal portico presenta, all’interno di arcate che riprendono, nel profilo a tutto sesto, le finestre del lato opposto, quattro brani paesaggistici, ciascuno di essi associato a una stagione: Paesaggio con cacciatori (Primavera); Paesaggio con città che brucia (Estate); Paesaggio marino (Autunno); Paesaggio invernale. In corrispondenza della porta d’accesso, tra la scena estiva e quella autunnale, un arco – comprensibilmente più piccolo – incornicia una veduta di Parma.

Il lato corto d’accesso alla Cappella, invece, a una veduta di Piacenza sulla sovrapporta affianca affreschi con quattro dei possedimenti farnesiani in terra di Tuscia: dall’alto e da sinistra, rispettivamente Capodimonte, Marta, Castro (Capitale dell’omonimo Ducato la cui fine verrà sancita da una guerra condotta da Innocenzo X Pamphilij attorno alla metà del Seicento). La lunetta con Belgione e suo fratello rubano il bestiame che Ercole errante aveva riportato dalle rive dell'Erytheia [Fig. 5] infine, completa la decorazione.

Fig. 5 - Belgione e suo fratello rubano il bestiame che Ercole errante aveva riportato dalle rive dell'Erytheia (lunetta); i contadini dedicano un tempio a Ercole (sinistra); Ercole estrae la clava facendo fuoriuscire le acque di un lago (destra). Credits: Di Daderot - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=79913458.

 

Sul lato opposto, la lunetta raffigura Giove che fa piovere pietre dal cielo per aiutare Ercole a sconfiggere i ladri nei campi di Lamonia. La composizione strutturale della decorazione è speculare in tutto e per tutto a quella del lato opposto, eccezion fatta per la sovrapporta, sostituita da una grande fontana rustica. Anche il secondo lato corto presenta, dunque, le vedute di altrettanti possedimenti farnesiani nel Lazio: Ronciglione, Caprarola, Fabrica, Isola. Singolare è altresì il personaggio [Fig. 6] ritratto sulla porta adiacente alla parete interna, anch’esso sul lato della fontana. Sulla sua identità non possediamo ancora certezze; tuttavia, l’ipotesi più accreditata al giorno d’oggi vede in quell’uomo Fulvio Orsini il quale, in virtù della sua grande dimestichezza con l’iconografia erculea, viene tradizionalmente accreditato come principale responsabile della stesura del programma.

Fig. 6 – Fulvio Orsini (?). Credits: Di Daderot - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=79913456.

 

Fontana

Collocata nel bel mezzo della parete di fondo, che occupa nella sua gran parte, la fontana rustica di Curzio Maccarone [Fig. 5] sviluppa in alzato due livelli ben definiti. Al centro, un riparo calcareo, una “grotta” rocciosa, separa lo spazio inferiore, contrassegnato dalla presenza di una vasca circolare e abitato da tre putti, due dei quali rispettivamente sul dorso di un unicorno e di un delfino. Al di sopra della concrezione rocciosa si apre invece un paesaggio cittadino dal gusto antichizzante[8], le cui reminiscenze archeologiche vengono introdotte da quinte arboree non perfettamente bilanciate. Il brano paesaggistico, decorato a mosaico – il terminus post quem è il 21 settembre 1572, data in cui il conte Tedeschi riferisce al Farnese l’arrivo delle tessere musive[9] – sfocia in un cielo affollato di nubi, queste ultime realizzate a tempera[10].

Fig. 7 – La fontana di Curzio Maccarone. Credits: Di Livioandronico2013 - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=40936606.

 

Simbologia della Sala di Ercole

Scrivendo sul più profondo, ma ancor prevedibile significato degli affreschi della Sala, Loren Partridge ha chiarito come, in accordo con il resto del palazzo, anche il campionario mitologico di matrice pagana dispiegato lungo le pareti e lungo la superficie della volta della Sala d’Ercole va letto alla luce delle recenti disposizioni dottrinali tridentine. A un primo livello “topografico”, con il quale Zuccari e Bertoja danno forma visiva alla leggenda[11], Partridge ne aggiunge un secondo, il cui fulcro va ricercato nella scena centrale della volta. In accordo a tale lettura il bagno di Ercole nelle acque del lago diviene prefigurazione del rito battesimale[12], sacramento fortemente ribadito nella sua efficacia dai lavori conciliari. Negato con vigore dall’eresia luterana, il battesimo diveniva il coronamento necessario alla salvezza, una salvezza che passava anche dalle buone azioni di una vita – altro passo, questo, di irriducibile frattura rispetto ai protestanti, che alle buone azioni opponevano i concetti di sola fide e di predestinazione. L’arringa antiluterana continua nella fontana e nella grotta soprastante: se per la prima risulta facile l’associazione al fonte battesimale, per la cavità calcarea che la ripara i dubbi si sciolgono solamente grazie alla lettura di un passo dal Cantico dei Cantici:

““Surge, amica mea, speciosa mea, et veni, columba mea in foraminibus petrae, in caverna maceriae”[13]

La Chiesa come luogo di riparo, dunque, come unica garanzia di salvezza, di trionfo sulla materia (i mostri sconfitti da Ercole sulla volta altro non sono che rappresentazioni simboliche dei quattro elementi) e sul tempo (i paesaggi stagionali sulle arcate del lato lungo). Il complesso pittorico è inoltre arricchito da specifici ammiccamenti alla contemporaneità: papa Giulio III e l’imperatore Carlo V vestono nella sala i panni dei due fratelli Albione e Belgione, colpevoli di aver sottratto il bestiame (Parma e Piacenza) al legittimo possessore (famiglia Farnese). L’utilizzo di un formulario spiccatamente pagano, che poteva destare ragionevoli sospetti – il papato di Pio V si mostrò intransigente a riguardo[14] – si risolse, tuttavia, in una sottomissione di tale patrimonio all’ortodossia cristiana, dimostratasi particolarmente adatta a vestire panni classici per comunicare il suo messaggio e per neutralizzare il potere seduttivo di una tradizione mai sconfitta del tutto.

Attribuzione

Nel primo giorno del settembre 1566, il marchigiano Taddeo Zuccari, responsabile del cantiere pittorico del palazzo morì, esattamente nel giorno del suo trentasettesimo compleanno. A rimpiazzarlo, il più giovane fratello Federico (1539 – 1609), offertosi al cardinale già il giorno successivo: “Messer Tadeo mio fratello questa notte è mancato che così è piaciuto al Signor Dio. Sendo stato tanto servitore di Vostra Signoria Illustrissima, et havendo più del favor di quella acquistato lode et gloria, che dalla stessa virtù sua, m’è parso convenirmisi di notificarglielo, et supplicarla che, sendo  mancato lui, si voglia degnare d’accettar me per humilissimo suo servo, promettendole che, quantunca appresso mio fratello io non sia d’alcuna comparatione, m’ingegnerò di valer qualche cosa; et tutto che varrò, varrò sempre più che altro, per conservarmi qualche parte di quella grazia c’a mio fratello pareva di haversi acquistato dalla cortesia e bontà di Vostra Signoria Illustrissima”[15]. Federico, in una nota a margine di una sua copia delle Vite vasariane, attribuisce a sé e alla sua équipe l’intero apparato decorativo della “loggia di sopra”[16].  Con il saggio The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, pubblicato sull’ “Art Bulletin” a cavallo tra 1971 e 1972, Loren Partridge ha voluto proporre, alla luce di alcune considerazioni di carattere documentario e stilistico, che già al finire dei Sessanta Federico Zuccari poteva avvalersi della collaborazione del parmense Jacopo Zanguidi il Bertoja (1544-1574), pittore – anche lui scomparso prematuramente –  la cui presenza a palazzo è testimoniata da una lettera, datata 17 luglio 1569, nella quale il cardinal Alessandro intimava al conte Ludovico Tedeschi di convocare quanto prima possibile lo Zanguidi a palazzo. Ancora dalla corrispondenza epistolare tra il Tedeschi e il Farnese non solo sappiamo che già al giorno successivo (18 luglio) il parmense stava muovendo per Caprarola[17], bensì veniamo anche a conoscenza che “il pittore Greco” (El Greco, pseudonimo di Dominikos Theotokopoulos, 1541 - 1614) stava in quel momento “lavorando alla decorazione della ‘Sala d’Ercole’”[18]. Al 22 agosto risale invece un’ulteriore missiva, con la quale il Tedeschi informava il cardinale di un ordine (un diagramma con la compartimentazione della volta) fatto arrivare da Federico Zuccari a Fulvio Orsini, al momento di stanza a Roma[19]. Circa le pitture parietali, i nomi proposti da Partridge sono quelli di Bartholomaeus Spranger (1546-1611), specialista fiammingo nella pittura di paesaggio[20] la cui mano sarebbe individuabile nella scena con Ercole che cattura Cerbero; di un “Francesco pittore”, menzionato in una lettera del 15 luglio 1572 (“Maestro Francesco pittore e partitto subitto”)[21] e attivo a Tivoli nelle sale di Noè e di Mosè; di Giovanni Antinori[22], responsabile delle grottesche sia con Taddeo che con Federico. Certi risultano, infine, gli interventi del fontaniere Curzio Maccarone (coadiuvato dallo scultore Giovan Battista di Bianchi[23]), la cui presenza – attestata anche in Vaticano (1551) e a Villa d’Este (1565-1568) – è testimoniata da una lettera del 18 luglio 1572, in cui il Maccarone comunica il suo imminente arrivo.

 

 

Note

[1] L. Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte II, p. 50.

[2] Il punto in cui Ercole avrebbe piantato la clava corrisponderebbe al Pozzo del Diavolo, cavità vulcanica nella faggeta del Monte Venere (Fig. 2).

[3] Le arcate in origine non c’erano (L. Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte I, p. 467)

[4] Informazioni desunte da Camillo Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, p. 34.

[5] Il ritrovamento del Libro delle misure presso la sezione Camerale dell’Archivio di Stato di Roma da Loren Partridge, è stato di fondamentale importanza per chiarire questioni specifiche relative alla cronologia.

[6] Ogni informazione sulle misure del palazzo sono state reperite dal saggio in due parti di Loren Partridge (The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola).

[7] L. Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte I, p. 472.

[8] Paolo Portoghesi parla di “idillio boschereccio” (P. Portoghesi, Caprarola, p.  65).

[9] C. Robertson, Il Gran Cardinale. Alessandro Farnese patron of the arts, p. 127.

[10] P. Portoghesi, Caprarola, p. 66.

[11] Va altresì detto che il cardinal Farnese diede al Vignola il compito di regolare il livello delle acque del lago per guadagnare terreni coltivabili (L. Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte II, p. 52).

[12] Nel Rinascimento Ercole era visto come prefiguratore di Cristo (Ibidem).

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 55.

[15] La lettera di Federico è riportata anche in Paolo Portoghesi, Caprarola, p. 64.

[16] L. Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte I, p. 467; cfr. P. Portoghesi, Caprarola, p. 65.

[17] Ivi, p. 472.

[18] Ivi, p. 480, nota 61; Portoghesi (Caprarola, p. 66) ritiene che il compito del Greco fosse quello di “preparare il disegno (e il supporto di stucco) per questo mezzo rilievo e, quindi, di apporvi le tesserine del mosaico”.

[19] Ivi, p. 472.

[20] Lo Spranger aveva assistito (1566) il Bertoja nella progettazione delle decorazioni in occasione dell’ingresso di Maria del Portogallo, moglie del principe Alessandro Farnese, a Parma (L. Partridge, Ivi, p. 475).

[21] Ivi, p. 480.

[22] I. Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, p. 284.

[23] Quest’ultimo responsabile dei dodici busti imperiali del portico e del Mascherone al centro del cortile.

 

 

Bibliografia

Italo Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, Torino, SEAT, 1981.

Loren Partridge, The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte I, in “The Art Bulletin”, vol. 53, no. 4, New York, College Art Association, 1971, pp. .467 - 486.

Id., The Sala d’Ercole in the Villa Farnese at Caprarola, parte II, in “The Art Bulletin”, vol. 54, no. 1, New York, College Art Association, 1971, pp. 50-62.

Paolo Portoghesi (a cura di), Caprarola, Roma, Manfredi, 1996.

Clare Robertson, Il Gran Cardinale. Alessandro Farnese patron of the arts, New Haven – Londra, Yale University Press, 1992.

Camillo Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, Roma, coi tipi della civiltà cattolica, 1869.

 

Sitografia

http://www.caprarola.com/arte-e-cultura/palazzo-farnese-caprarola/623-sala-di-ercole.html

https://www.canino.info/inserti/tuscia/luoghi/piazze/caprarola/index.htm

https://www.rocaille.it/villa-farnese-a-caprarola-pt-1/


IL CIMITERO DELL’OSSERVANZA A FAENZA

A cura di Francesca Strada

 

Fig. 1 - Tomba Guidi.

Introduzione

A egregie cose il forte animo accendono

  L’urne de’ forti, o Pindemonte.”

(Dei Sepolcri, Ugo Foscolo, versi 151-152)

Con l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804 si sancì l’impossibilità di seppellire i defunti all’interno delle mura cittadine, portando le città a munirsi di luoghi d’inumazione esterni, che nel corso del secolo andarono arricchendosi di statue, affreschi e splendidi epitaffi. Uno degli esempi più antichi d’Italia, superato solo dal Vantiniano di Brescia e dai due cimiteri monumentali di Bologna e Ferrara, è il Cimitero dell’Osservanza di Faenza, che non è solo un placido luogo di eterno riposo, ma anche uno scrigno d’opere d’arte a pochi passi dal centro.

Fig. 2 - Tomba Tini.

Il Cimitero dell’Osservanza a Faenza: dove la morte è romantica

La costruzione di questi cimiteri si inserisce in un clima culturale assai particolare, il Romanticismo, che porta con sé un rinnovato amore per l’irrazionalità e ciò che essa accompagna: la morte, emblema dell’inconoscibilità stessa, è oggetto di estrema attenzione da parte di artisti e poeti. Il sepolcro viene ad assumere un significato nuovo, diventando con Foscolo quasi un oggetto di venerazione, come espresso dall’opera Dei Sepolcri, dove il ricordo del defunto ispira l’animo a grandi gesta attraverso la contemplazione dei monumenti funebri di coloro che furono grandi nella storia. In un’ottica materialistica, il cimitero non è più solo deputato all’eterno riposo, ma anche allo sfoggio della propria grandezza tramite opere monumentali.

Fig. 3 - Tomba Cattoli.

 

Il Cimitero dell'Osservanza a Faenza: Storia 

Dopo l’editto napoleonico, a Faenza venne scelto il convento dei Minori Osservanti come nuovo luogo di inumazione, ufficialmente aperto pochi anni dopo. Il cimitero prende il nome dalla chiesa attorno alla quale è stato costruito, ovvero la Chiesa dell’Osservanza, da cui proviene una splendida statua lignea di Donatello di cui si è parlato in un precedente articolo.

Fig. 4 - Tomba di Francesca Rossi.

Nel 1858 per volontà della commissione municipale intervenne l’architetto Costantino Galli, il quale progettò la facciata ad emiciclo per dare lustro e monumentalità al camposanto, ispirandosi a Piazza del Plebiscito a Napoli e a Piazza San Pietro. Inizialmente furono costruiti solo i chiostri sul lato sinistro; l’edificazione del lato destro fu causata dalla crescente richiesta di loculi e dalla scarsità di spazio.

Fig. 5 - Uno dei chiostri del cimitero.

 

Tomba Pasi

Una delle tombe più significative dell’intero complesso è quella dedicata al vescovo Giacomo Pasi. Nel guardarla, si nota subito il contrasto tra la bellezza dell’opera, nonché la sua monumentalità, con la sua inadeguatezza al luogo. Tomba Pasi, infatti, fu progettata nel XVI secolo per la Chiesa di Santa Maria dei Servi, in centro a Faenza, e non per il cimitero ottocentesco. La tomba ha trovato qui un alloggio sicuro e riparato, dopo essere stata rimossa dalla chiesa per i lavori di ricostruzione nel Settecento ed essere stata posta sul fianco di quest’ultima, esposta alle intemperie e alle ingiurie del tempo, fino all’arrivo del delegato apostolico della provincia di Ravenna nel 1851, il quale dispose la sua traslazione in un luogo protetto. Lo splendido complesso di fregi, statue e bassorilievi raggiunse il chiostro della Badia del cimitero solo nel 1878. L’artista, Pietro Barilotto, è chiaramente riconoscibile dalla firma nell’epitaffio, che recita: “PETRUS BARILOTUS FAVENTINUS FECIT”. Non è un caso che la realizzazione della tomba di un uomo così illustre sia stata affidata a Barilotto, egli è infatti noto per i numerosi monumenti funebri lasciati alla città manfreda e non solo. Considerato dalla prima critica novecentesca “scultore degno e posto tra i più lodevoli artefici del ‘500”.[1]

Fig. 6 - Tomba Pasi.

La tomba rappresenta il vescovo adagiato sul sarcofago, appoggiato alla mano destra, mentre la sinistra accarezza il ginocchio. Pasi sembra lasciarsi andare a un dolce riposo, mentre i santi Pietro e Paolo si protendono dalle nicchie laterali, quasi a vegliare sul vescovo dormiente. Nella lunetta in terracotta posta sopra al defunto si nota la Vergine con le braccia alzate tra due santi, mentre il Padre Eterno si sporge dalla formella superiore, benedicendo l’eterno riposo. Il tutto inserito in una splendida cornice di fregi e pilastri in pietra d’Istria, che sembra ricreare la facciata di una chiesa. La grandezza dell’opera è resa dal confronto con un minuscolo sepolcro presente nello stesso chiostro, il più famoso di Faenza, perché reca scritto solamente: “Tomba d’un infelice”.

 

Le opere di Domenico Rambelli

Numerose sono le opere di artisti celebri come Ercole Drei e Lucio Fontana, il quale realizza in gres la tomba della famiglia Melandri; tuttavia, è Domenico Rambelli a meravigliare di più lo spettatore per la bellezza e la plasticità delle sue figure. L’artista faentino, considerato tra i più grandi scultori del ‘900, concepisce due opere per il cimitero, entrambe poste nell’emiciclo: il medaglione per la tomba di Antonio Berti e la tomba di Rosa Laghi. Rambelli, allievo del Berti, realizza per lui un altorilievo capace di mostrare la sua grande capacità di ritrattista. L’opera è stata collocata nei pressi dell’ingresso della chiesa a dimostrare l’importanza del maestro nell’arte faentina di fine ‘800.

Fig. 7 - Tomba di Antonio Berti.

 

Tombe di straordinaria bellezza

Tra i chiostri dell’Osservanza è difficile non lasciarsi rapire dalla meraviglia dei sepolcri circostanti; le decorazioni floreali si rifanno allo stile liberty, particolarmente apprezzato dalle famiglie facoltose. Gli scultori sono chiaramente ispirati da Canova, come nel caso della tomba della famiglia Tabanelli, nella quale una giovane donna viene trasportata all’interno del sepolcro dall’angelo della morte, il quale spinge una porta, disvelando un buio che reca alla mente l’immagine del celeberrimo Monumento Funebre per Maria Cristina d’Austria.

Fig. 8 - Tomba della famiglia Tabanelli.

Ad attirare l’occhio del visitatore è la tomba di Brigida de’ Marchesi Stanga, elegantissima rappresentazione di un compianto interpretato da un gruppo statuario di matrice classica.

È leggiadra la donna dolente sulla tomba di Paolo Rampi ed è evidente il gusto neogotico della cappella gentilizia della famiglia Canuti, volto a ricordare con i suoi pinnacoli una chiesetta medievale.

Fig. 11 - Dettaglio della tomba di Paolo Rampi.

L’obiettivo che queste famiglie si erano prefissate con la realizzazione di questi monumenti è stato raggiunto: il tempo non cancellerà la memoria del loro passaggio sulla terra dal cuore della loro città.

Fig. 12 - Tomba della famiglia Canuti.

 

 

Tutte le foto presenti sono state scattate dalla redattrice.

 

Bibliografia

Antonio Messeri- Achille Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, Tipografia Sociale Faentina, 1909

 

Sitografia

https://www.pinacotecafaenza.it/mostre/rambelli/biografia/


VIAGGIO NEI PAESAGGI DEL SENESE. PARTE I

A cura di Luisa Generali

 

Introduzione

“Colline di Toscana, coi loro celebri poderi, le ville, i paesi che sono quasi città, nella più commovente campagna che esista”.

Così recita un aforisma dello storico francese Fernand Braudel, che con poche e chiare parole raccontava il paesaggio toscano e la sua componente lirica derivante dall’unione inscindibile tra i suoi paesi ricchi di storia e l’ambiente naturale circostante. In particolare, quando si pensa agli scenari dell’entroterra toscano ritornano alla mente i paesaggi del senese che hanno reso celebre la campagna Toscana in tutto il mondo, divenendo i luoghi simbolo di tale regione per i meravigliosi scorci paesaggistici offerti allo sguardo dei visitatori.

La prima parte di questo elaborato vuole concentrarsi proprio sui territori a sud di Siena, in una sorta di piccolo viaggio alla scoperta delle tappe fondamentali che si trovano sul territorio e che costituisco i più bei paesaggi del senese; mentre la seconda parte dell’approfondimento sarà dedicata a una riflessione su come le suggestioni tratte dai paesaggi del senese si ritrovino in opere pittoriche di varie epoche secondo la personale interpretazione dei loro artisti.

 

Paesaggi del senese: la Val d’Orcia

All’interno dei paesaggi del senese, a sud di Siena si colloca la Val d’Orcia, l’area rurale che più rappresenta il paesaggio tipico toscano contraddistinto da un morbido paesaggio collinare punteggiato da casali sparsi, strade bianche e gli immancabili e svettanti cipressi (fig.1-2-3-4-5). Estesa tra i territori dei paesi che compongono il cuore di questa zona, ovvero Castiglione d’Orcia, Montalcino, Pienza, Radicofani e San Quirico, il Parco Artistico, Naturale e Culturale della Val d'Orcia è entrato dal 2004 nei registri ufficiali dell’Unesco, riconosciuto come bene da tutelare per lo straordinario “connubio che fonde arte e paesaggio, spazio geografico ed ecosistema”. Oltre all’aspetto naturalistico, requisito fondamentale per il riconoscimento della valle come patrimonio mondiale dell’umanità, interessante è il trascorso storico di questi luoghi, ancora testimoniato dall’architettura e l’arte dei suoi borghi, frutto del sapiente ingegno dell’uomo rinascimentale che seppe conciliare architettura e natura ricercando costantemente il principio dell’armonia. Che sia dalla Fortezza di Radicofani, piuttosto che tra i vigneti di Montalcino o dalle logge di Palazzo Piccolomini a Pienza, il turista si troverà circondato dal meraviglioso spettacolo naturale offerto dai movimenti lenti e soavi dei colli della Val d’Orcia.

Parte integrante dell’ecosistema naturale valdorciano è anche l’elemento dell’acqua rappresentato dal fiume Orcia, che percorre la vallata e da cui essa prende il nome, e le sorgenti termali naturali. Tra quest’ultime ricordiamo la località di Bagno Vignoni (frazione di San Quirico) con la sua peculiare piazza detta “delle sorgenti”, una grande vasca-piscina nel centro abitato del borgo che conserva le acque termali provenienti dal sottosuolo (fig.6): un esempio unico di architettura civica nata intorno alla sorgente già conosciuta per i suoi benefici in epoca romana, nonché da celebri personaggi rinascimentali come Lorenzo il Magnifico e Papa Pio II, oggi non più balneabile ma divenuta senz’altro una delle mete turistiche più frequentate dal turismo slow. Indiscutibile è l’atmosfera fiabesca che si respira in questo borgo, talvolta “velata” dai vapori che si alzano dalla vasca.

Fig. 6 - Veduta della Piazza della Sorgente di Bagno Vignoni. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=57156980.

Altra particolarità di Bagni Vignoni sono i piccoli ruscelli o “gorelli” che si estendono dalla piazza per arrivare al Parco dei Mulini, un’area dove fin dal medioevo l’uomo sfruttò la canalizzazione dell’acqua termale per muovere i mulini e creare una fonte di lavoro e sostentamento, il cui rendimento perdurò fino agli anni ’50 del secolo passato (fig.7). Il parco, oggi visitabile insieme al vasto impianto d’irrigazione a cielo aperto che costituisce una vera e propria opera di ingegneria idraulica, rappresenta una testimonianza importante della società locale che, grazie al continuo scorrere dell’acqua termale (mai in secca a differenza dei fiumi), seppe sfruttare al massimo le risorse naturali-autoctone del territorio. Tra le località termali non si può non ricordare anche Bagni San Filippo (frazione di Castiglione d’Orcia) e la sua impressionante Balena. Quest’ultima è una piscina naturale che si trova nell’area boschiva delle terme libere del Fosso Bianco, sormontata da una grande concrezione calcarea che, per forme e dimensioni, è stata associata all’aspetto di questo gigante marino (fig.8).

Fanno parte dell’immaginario che individua i paesaggi del senese e la Val d’Orcia anche i famosi “cipressini” a San Quirico, una piccola “macchia verde” costituita unicamente da cipressi nel mezzo di una collinetta (fig.9). Nati probabilmente come bosco in cui cacciare, “i cipressini”, immersi negli scenari bucolici della campagna senese, sono divenuti oggi l’emblema della genuinità e della pace che questa terra trasmette.

Fig. 9 - I “Cipressini” a San Quirico. Credits: By AhmedMosaad - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=69608676.

Soggetto “da cartolina”, nonché uno degli scorci più fotografati della Val d’Orcia, è senz’altro la Cappellina di Vitaleta, sempre nella zona di San Quirico (fig10). La sua peculiare posizione isolata nella campagna rappresenta l’essenza in miniatura del paesaggio senese, in cui la natura è affiancata da un edificio che ricorda la semplicità dei tempi passati; la cappellina vuole infatti riproporre un prototipo di architettura rinascimentale sebbene sia il risultato di un restauro in stile nelle forme puriste condotte nell’Ottocento dall’architetto Giuseppe Partini (Siena 1842-1895). Secondo la concezione purista dei restauri in stile spesso le architetture venivano drasticamente spogliate dei loro arredi e della stratificazione storica a favore di un totale ripristino delle forme pure. Così è stato anche per la cappellina di Vitaleta che come possiamo osservare presenta in facciata due paraste ai lati dell’ingresso, coronata da un frontone classico secondo i canonici modelli rinascimentali, che se pur non in forma originale hanno senz’altro contribuito al successo odierno di questo luogo incantevole. Sappiamo che la piccola chiesa era sicuramente nel pieno della sua funzione nel XVI secolo, quando venne portata qui la statua in terracotta invetriata della Vergine Annunciata, oggi nella chiesa di San Francesco a San Quirico (anche detta della Madonna di Vitaleta). L’opera presenta i caratteri ricorrenti della bottega dei Della Robbia, da attribuire alla mano di Andrea (1435-1525) per la propensione a un certo sentimentalismo che appare nell’atteggiamento della Vergine rappresentata durante l’episodio dell’Annunciazione (fig.11): l’invetriatura completamente in bianco accentua la compostezza classica su cui si basa la formazione robbiana e che appare evidente anche nel panneggio della veste matronale (link all’articolo sui della Robbia). La tradizione religiosa-locale in merito alla statua ha tramandato una leggenda secondo la quale fu proprio la Vergine, in una sua apparizione, ad indirizzare il popolo verso la città di Firenze alla ricerca di un’effigie che potesse omaggiare la fede cristiana in questo luogo.

Spostandoci dalla Val d’Orcia verso Siena nei territori a sud-est della “città del palio” si trova un’altra zona naturale molto suggestiva, fonte d’ispirazione per gli artisti che nei secoli hanno espresso e rappresentato il legame con questo territorio: le Crete Senesi (fig.12-13). È definita così la parte collinare prevalentemente argillosa che si estende nell’area compresa da Taverne d’Arbia e Buonconvento e che si caratterizza per la formazione di collinette dall’aspetto prevalentemente spoglio, di colore bianco-grigiastro. La zona più caratteristica di questi aspri scenari sono le Biancane, conformazioni collinari argillose dalla forma rotondeggiante, simili a dune, che si presentano spesso in raggruppamenti piccoli e fitti, spogli sulla parte superficiale dove è attiva l’erosione, mentre tutto intorno si estende una florida vegetazione: in quest’area geologica il paesaggio cangia periodicamente variando colori e sfumature in base alle stagioni e alle fasi della coltivazione del grano (fig.14). Immerso nello scenario delle Crete è inoltre tappa obbligatoria per tutti gli amanti dell’arte una visita all’Abbazia Benedettina di Monte Oliveto Maggiore (fig.15), luogo di fede dove l’arte dialoga con la natura in un armonioso scambio che si offre alla preghiera e alla contemplazione del creato: l’area in cui sorge l’Abbazia è denominata per questo Deserto di Accona, dove la parola “deserto” indica l’isolamento spirituale rivolto a un abbondono totale verso il divino.

Chiudiamo questo piccolo itinerario con un’opera contemporanea che si congiunge ai paesaggi del senese delle Crete, situata nei pressi di Asciano percorrendo la Strada Leonina, in cima ad una altura che domina un incredibile panorama. Qui nel 1993 l’artista francese Jean Paul Philippe, dedito a un tipo di scultura urbana e ambientale, posizionò la sua Site Transitoire, un’istallazione in pietra dal sapore ancestrale contraddistinta da soli tre elementi: una sedia con alta spalliera, una pietra orizzontale e una finestra (fig.16-17). Oggetti semplici che, come dichiarato dello stesso autore, ricordano una casa e chiamano il visitatore a godere dello spettacolo della natura che si palesa davanti agli occhi diretti verso la città di Siena: “Compiendo quel gesto, installando quelle pietre mi resi conto che disegnavano nella luce e nello spazio i limiti di una casa. Una dimora senza mura dalla soglia invisibile. A terra alcune lastre, una sedia per accogliere il passante, un banco, una finestra e per tetto la volta celeste”.

Il fascino di questi blocchi, che ricordano le origini primitive del mondo, induce il passante a ripensare il contatto viscerale dell’uomo con la natura e gli equilibri col cosmo: un significato simbiotico con l’universo acquisito dall’opera soprattutto nel giorno del solstizio, quando dalla finestra in pietra il sole segna il suo passaggio al centro della fessura mentre le Crete, come una tela bianca ancora da dipingere, si preparano a catturare tutte le sfumature del tramonto.

 

 

Bibliografia

Fornari Schianchi, M. Mangiavacchi, La Val d ' Orcia viva e verde. Riflessioni sui siti UNESCO in Toscana, Grosseto 2007.

Morganti, Scoprire la Val d’Orcia, Sona 2003.

 

Sitografia

Parco della Val d’Orcia: https://www.parcodellavaldorcia.com/unesco/

https://www.parcodellavaldorcia.com/

Cappella di Vitaleta: https://www.fondoambiente.it/luoghi/cappella-della-madonna-di-vitaleta

Su Giuseppe Partini: https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-partini_(Dizionario-Biografico)/

Sulle Crete Senesi: https://www.visitcretesenesi.com/

Su Site Transitoire: http://www.cretesenesi.com/site-transitoire-p-1_vis_3_172.html


IL PASTURA NEL DUOMO DI TARQUINIA – PARTE II

A cura di Maria Anna Chiatti

 

Il Pastura nel Duomo di Tarquinia: introduzione

Dopo aver introdotto nel precedente elaborato la produzione artistica del Pastura e qualche chiave interpretativa riguardo il ciclo mariano rappresentato nella Cappella Vitelleschi del Duomo di Tarquinia, in questo articolo se ne tratteranno nel particolare i singoli episodi.

Fig. 1 – Cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia. Opera propria.

I restauri

Gli affreschi eseguiti dal Pastura nel Duomo di Tarquinia rappresentano di certo il capolavoro dell’artista, in cui il pittore, ormai sessantenne, volle rendere omaggio ai maestri con cui aveva lavorato durante la sua carriera. La critica ha espresso spesso pareri non positivi riguardo il ciclo mariano nel Duomo di Tarquinia; i motivi di questi giudizi negativi sono comprensibili soprattutto alla luce dei dati raccolti durante il più recente intervento di restauro, conclusosi nel 2018. I dipinti furono infatti gravemente danneggiati durante un incendio nel 1643, e sottoposti a pesanti operazioni di ridipintura nei successivi restauri noti del 1880, 1937 e 1976. Nonostante poi il pittore e restauratore Igino Cupelloni (1918-2008) scrivesse nella relazione di fine restauro nel 1978 di aver rimosso tutte le ridipinture, nell’ultimo cantiere ne sono state trovate ancora numerose, delle quali molte tolte non senza una buona dose di coraggio[1]. Questo ha consentito di ritrovare la rotondità dei volti e delle teste che è tipica del Pastura, insieme allo sfumato degli incarnati e alla dolcezza delle espressioni. Tutti i critici che hanno osservato gli affreschi nel ‘900 hanno quindi avuto una visione solo parziale della loro qualità.

Fig. 2 – Pastura, Sibilla Frigia e Davide, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, vela della volta. Opera propria.

 

Il ciclo mariano del Pastura nel Duomo di Tarquinia

Con questo incarico Antonio del Massaro, detto il Pastura, ebbe finalmente superfici ampie da decorare e, come si evince dal pregio dei materiali impiegati, anche una notevole disponibilità economica. Francesca Moretti in un contributo per il Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia del 2001 sostiene che fu probabilmente Antenore, arcidiacono di Corneto, a sovrintendere al cantiere degli affreschi.

I modelli a cui il Pastura poteva facilmente far riferimento per le opere di Tarquinia erano i precedenti cantieri romani, tra cui l’Appartamento Borgia in Vaticano, ma anche le produzioni del Pinturicchio (1452-153), del Perugino (1448-1523) e del Signorelli (1441/1445-1523).

Fig. 3 – Pastura, L’incontro di Anna e Gioacchino, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro inferiore. Opera propria.

Il ciclo è leggibile a partire dal registro inferiore di sinistra con L’incontro di Anna e Gioacchino per concludersi in quello inferiore di destra, andato quasi completamente perduto. Le scene sulle pareti sono introdotte dai lunghi cartigli tenuti da tre coppie di Sibille e profeti dipinte nelle vele della volta a crociera; la quarta vela è occupata dall’episodio dell’Incoronazione di Maria.

Fig. 4 – Pastura, Incoronazione di Maria, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, vela della volta. Opera propria.

Nella vela attigua all’arco trionfale sono dipinti la Sibilla Frigia e Davide, che con i loro cartigli annunciano forse quanto rappresentato sulle perdute vetrate istoriate dell’abside; nella vela sinistra il profeta Isaia (riconoscibile grazie alla lunga profezia sul cartiglio) e un’altra Sibilla presentano L’Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea. In questa rappresentazione la porta non è visibile, e anzi la scena si svolge in uno scarno paesaggio forse in riferimento al fatto che Gioacchino stava rientrando in città dal deserto per incontrare Anna. In questo episodio ci sono forti rimandi ai modi del Pinturicchio, soprattutto nel bel gesto di Gioacchino che posa la mano sulla spalla di Anna: un momento di grande intensità emotiva e insieme di una certa tensione solenne, molto pertinente al soggetto che notoriamente illustra il momento dell’Immacolata Concezione. Nell’abbraccio tra i due si realizza infatti il concepimento di Maria, purificata dal peccato originale. Questo riferimento trova conferma nella presenza, affianco a questo episodio, di una bella Madonna in una mandorla rosa, che poggia i piedi sulle nuvole.

Fig. 5 – Pastura, Madonna in mandorla, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro inferiore. Opera propria.

Il registro superiore è interamente dedicato alla Nascita della Vergine, “fiore puro”: sullo sfondo, oltre il grande loggiato, si apre un bel paesaggio, in cui Luisa Caporossi ha riconosciuto Tarquinia nella città turrita con il fiume Mignone sulla destra[2]. L’ambientazione interna è molto ben costruita e dettagliata, e la scena della Nascita è composta secondo livelli diversi di dinamismo; dall’ancella indaffarata a sinistra, passando per le donne che accudiscono la neonata e la possente figura di spalle che porge una tazza ad Anna, per poi scemare nello statico gruppo di uomini a destra, dove Gioacchino sembra essere particolarmente pensoso, e alla puerpera, che guarda serena l’osservatore con uno sguardo benevolo e intenso.

Fig. 6 – Pastura, Nascita della Vergine, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete sinistra, registro superiore. Opera propria.

Poco sotto si snoda il fregio monocromo, strettamente legato al tema principale, che presenta una donna che allatta seduta su una grande coda di sirena che suona.

Sul lato opposto, nel registro superiore è rappresentato lo Sposalizio della Vergine, introdotto nella volta dal profeta Osea. La prima cosa interessante da notare è che la scena si svolge in un paesaggio aperto e non in una piazza lastricata come nella consueta tradizione iconografica. Il secondo dettaglio è che la città raffigurata sulla sinistra è Firenze, riconoscibile dalla cupola di Santa Maria del Fiore e dal campanile della Badia, fronteggiata a destra da un paesaggio marino (probabilmente un richiamo a Tarquinia); questa scelta si deve certamente al fatto che Giovanni Vitelleschi, il cardinale capofamiglia sepolto proprio sul lato destro della cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia, era stato arcivescovo di Firenze. In questo paesaggio così simbolico per la famiglia Vitelleschi si compie il miracolo della fioritura delle verghe, descritto nei vangeli apocrifi, in cui il bastone di Giuseppe fiorisce al cospetto di Maria e una colomba gli vola sul capo, segno divino che l’unione dei due è stata benedetta. Tutto intorno gli altri pretendenti di Maria, indignati, spaccano i loro bastoni. Lo stesso episodio è raffigurato nella Cappella Mazzatosta in Santa Maria della Verità a Viterbo (1469) da Lorenzo da Viterbo, e in entrambe le rappresentazioni gli studiosi hanno riconosciuto dei ritratti in alcuni personaggi secondari.

Fig. 7 – Pastura, Sposalizio della Vergine, 1508-1509, Duomo di Tarquinia, parete destra, registro superiore. Opera propria.

Come per la parete sinistra, anche qui un fregio raccorda i due registri, stavolta rappresentando una donna sulla sfinge che viene sollevata da Cupido cieco.

Purtroppo il registro inferiore non è più leggibile, essendo andato quasi interamente perduto; tuttavia la critica ha ipotizzato vi fosse rappresentato un presepe, ipotesi rafforzata dal cartiglio della Sibilla sulla volta, che recita “cognosce deum tuum”.

Fig. 8 – Pastura, volta della Cappella Vitelleschi nel Duomo di Tarquinia. Opera propria.

 

Note

[1] L. Caporossi, “Infiniti que’ virtuosi che la mala sorte sempre perseguita”. Pastura e la decorazione della Cappella Vitelleschi, in G. Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, pp. 49-75, cit. p. 51

[2] Ivi, p. 63.

 

Bibliografia

Insolera (a cura di), Il Pastura nel Duomo di Tarquinia. Gli affreschi di Antonio del Massaro da Viterbo dopo il restauro, Roma 2020, con bibliografia precedente.


STORIA DI UNA DONNA: IL CORAGGIO DI SANT'AGATA

A cura di Mery Scalisi

 

Introduzione

Chi è Sant'Agata? Una giovane fanciulla cristiana, rivoluzionaria, diventata martire e ad oggi considerata eroina della lotta contro gli abusi nei confronti delle donne come lei, che, nonostante i soprusi subiti, non ha avuto paura di essere libera nelle sue scelte.

Per conoscere Sant'Agata occorre andare verso il cristianesimo e nello specifico nella possibile presenza di una comunità cristiana proprio nella città natia della fanciulla, Catania. Ad oggi, numerose fonti storiche ci forniscono informazioni circa la presenza di tale comunità già dal III secolo, in un momento in cui Catania si trova nel bel mezzo di una crescita edilizia iniziata già a partire dal secolo precedente (fig.1), ricoprendo un ruolo da protagonista nel quadro politico ed economico della Sicilia (fig. 2) ed arrivando ad instaurare, insieme a Siracusa, rapporti con Roma, con l’Asia minore e con l’Africa.

Già nei decenni precedenti, nella cittadina etnea, la fede di alcuni cristiani veniva indubbiamente testimoniata dal loro martirio. La cronologia di tali testimonianze va dalle persecuzioni di Decio (fig.3) del 251 – e di queste Sant'Agata sarà vittima – a quelle di Diocleziano del 304.

Fig. 3 - Decio. Fonte: https://www.romanoimpero.com/2009/07/decio-249-251.html.

È importante sottolineare come, fin dalla sua nascita, il cristianesimo non avesse mai mostrato un palese rifiuto nei confronti dell’impero romano; anzi, nonostante ne subissero le persecuzioni, pregavano per lo Stato e per coloro che governavano, sostenendo ad alta voce che il potere dell’uomo fosse donato e dato loro da Dio stesso. Nonostante i buoni propositi, l’impero romano continuò a non accettare la nuova religione; secondo l’ordinamento romano, infatti, esso non rientrava tra i criteri del nuovo Stato, che invece si faceva promotore del rispetto della tradizione e dell’ordine pubblico e della difesa degli usi e costumi di Roma.

Se in un primo momento i romani tollerarono qualunque forma di culto e religione, quindi anche il cristianesimo, ben presto le cose cambiarono, poiché il cristianesimo stesso, che si volse all’universalismo e al conseguente rifiuto di identificarsi in uno Stato, ben presto entrò in inimicizia con l’impero.

La storia di Sant'Agata, come già accennato, si colloca durante la persecuzione di Decio, di origine illirica. Un periodo, questo, durante il quale numerosi membri della comunità cristiana vennero condotti al martirio; tra questi, la giovane e singolare fanciulla Agata, la cui totale fedeltà a Cristo la portò ad opporsi e a resistere con tutta se stessa al governatore romano del tempo, Quinziano, il quale la sottopose ad un terribile destino di torture che culminarono nel martirio.

Nata nei primi decenni del III secolo (nel 231 circa) a Catania, nella zona di Giacobbe (l’attuale Civita) da una nobile famiglia cristiana, Sant'Agata, ancora giovanissima e bellissima, venerava il Signore fin da bambina decidendo di consacrarsi a Lui; la sua richiesta fu accolta dall’allora vescovo di Catania, che le impose di indossare il velo rosso destinato alle vergini consacrate.

Nel 251 l’imperatore Decio, quando in Sicilia governava Quinziano, bandì una violenta persecuzione contro tutti i cristiani che non intendessero rinnegare l’adesione al nuovo culto. Quinziano, parsimonioso e fanatico proconsole di Catania, trasse in arresto la giovane Agata.  All’accusa di vilipendio di religione di Stato (editto di persecuzione dell’imperatore Decio) seguì un processo.

Quinziano, sin dal primo momento, si era infatti invaghito di Agata a tal punto da non desiderare altro che prendere la giovane e beata vergine in moglie, ma mai fu ricambiato.

Sant'Agata era sofferente, ma piena di gioia e fierezza nell’amare Dio, e fu grazie alla sua immensa fede che continuò a resistere con tutte le sue forze alla violenza ricevuta; i continui rifiuti da parte di Agata portarono il governatore a consegnare la giovane ad una cortigiana di nome Afrodisia e alle sue figlie (fig.4), le quali avrebbero dovuto persuadere la ragazza, corromperne i principi di fede e farla cedere al proconsole; anche questo tentativo fallì, e la giovane vergine, dinanzi allo scempio, non fece altro che piangere e pregare il suo Dio.

Fig. 4 - Paolo Gismondi, Sant'Agata nel lupanare di Afrodisia, Roma, S. Agata dei Goti. Fonte: http://rosarioplatania.it/sicilia/catania/agata/storia/storia.html.

Con tutta la crudeltà in suo possesso, Quinziano continuò con le violenze, ma Sant'Agata resistette ancora, senza remore; interrogandola e torturandola di continuo, Quinziano partì col volere che il suo esile corpo venisse straziato con appuntiti pettini di ferro arrivando a farle recidere i seni con delle tenaglie (fig.5). Anche questi tentativi furono inutili: Agata continuò a restare ferma nella sua fede in Dio e questo portò il crudele proconsole a vietare che la giovane donna fosse curata e nutrita.

Fig. 5 - Martirio di Sant'Agata, Sebastiano Del Piombo, 1519, Museo Pitti, Firenze. Credits: Di Sebastiano del Piombo - Uffizi, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=76672156.

 

Sant'Agata in carcere

Sant'Agata, aiutata dalla sua fede verso Dio, dopo una visione in carcere, guarì: fu l’apostolo Pietro, con le sembianze di un uomo anziano, a presentarsi alla fanciulla come medico e a offrirsi di curarla, preceduto da un giovane angelo che teneva una lampada che invase di luce candida l’intero carcere per tutta la notte (fig.6); al rifiuto della giovane, l’anziano uomo rivelò la sua vera identità, ammettendo di esser stato inviato dal Signore per sanarle le ferite del martirio.

Fig. 6 - Francesco Rustici, detto il Rustichino, Sant'Agata visitata da San Pietro in carcere, 1630 ca, Caltagirone Chiesa dei Cappuccini. Fonte: https://istitutoartecatania.myblog.it/2012/02/03/san-pietro-visita-agata-in-carcere/.

Anche i soldati e i custodi del carcere in cui Sant'Agata risiedeva prigioniera, impauriti dall’accaduto, scapparono, e nonostante anche i prigionieri vicini alla cella di Agata le suggerissero di scappare, l’ormai quasi Santa continuò ad affermare di voler portare a termine il martirio per il suo Signore Gesù Cristo.

Tutto questo non fermò Quinziano, il quale ordinò che la fanciulla venisse arsa viva nel fuoco. Ma un terremoto interruppe la tremenda esecuzione, e la fanciulla fu portata ormai in fin di vita nella sua cella; con le braccia allargate in segno di preghiera, Agata morì poco dopo, attorniata da numerosi cittadini sia cristiani che pagani.

L’intera comunità cristiana si prese cura del giovane corpo della martire, seppellendolo secondo la tradizione. Tutto il valore del martirio subito dalla giovane fanciulla venne riportato su una tavoletta, posta nel sepolcro della martire, la quale recava l’incisione Mentem Sanctam Spontaneum Honorem Deo Et Patriae Liberationem (“mente santa spontanea, onore per Dio e liberazione della patria”) (fig.7); alcuni suppongono che tale tavoletta fu donata alla Santa da un giovane nobile, altri, invece, come lo storico medievale Guglielmo Durando, affermano che questa venne lasciata da un angelo.

Fig. 7 - Agathazettel - lett. dal tedesco foglietto di Agata. Fonte: http://www.biagiogamba.it/gli-agathazettel-e-il-rito-del-fuoco/.

Intanto Quinziano, fuggito e pronto ad appropriarsi dei beni della famiglia di Agata, morì proprio durante il tragitto, verso il fiume Simeto.

Sant'Agata fu da subito vista come un modello di donna cristiana da seguire, ricca nelle migliori virtù, dalla bellezza al coraggio sino alla pazienza e alla forza.

Il martirio della giovane Agata non è stato vano, in quanto rappresentò, nei secoli a venire, un modello di vita cristiana da condurre, con l’onore e la fedeltà che ha mostrato fino all’ultimo in Dio, nonostante le torture subite ingiustamente; ancora una volta il bene vince sul male, grazie al sostegno che Dio ha mostrato ad Agata.

Furono il suo grande coraggio e la forza nel proferire la fede cristiana ad attribuirle il ruolo di protettrice della città di Catania e dei suoi concittadini, ruolo dovuto alla sua intercessione con Cristo, a cui la giovane si legò col martirio (fig.8).

fig. 8 - Sant'Agata, ambito lombardo, deriva da un originale di Bernardino Luini ora smarrito. Fonte: https://galleriaborghese.beniculturali.it/opere/s-agata/.

 

 

Bibliografia

Gaetano Zito, S. Agata da Catania, Bergamo, Editrice VELAR, 2004.

Vittorio Peri, AGATA la santa di Catania, Bergamo, Editrice VELAR, 1996.

Claudio Pescio, Augusta Tosone (a cura di), Agata santa Storia, arte, devozione, Firenze, Giunti, 2008.

Antonio Tempio, Agata cristiana e martire nella Catania Romana La vita, gli oggetti e i luoghi di culto, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2017.

 

Sitografia

https://www.italiamedievale.org/portale/agata-vergine-martire-storia-devozione-culto/

 


IL MUSEO DI CAPODIMONTE

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione: Origine del palazzo e del museo di Capodimonte

 

Capodimonte, quartiere periferico di Napoli, Anno del Signore  1738.

Corte di Sua Maestà Carlo di Borbone.

5 Settembre 1738. Giorno della posa della prima pietra della nuova Reggia.

 

Un casino di caccia, un luogo di diletto, di svago, eppure un vero e proprio palazzo reale realizzato ai margini del centro della città, distante ma non particolarmente lontano dal Palazzo Reale al centro della capitale.

La Reggia di Capodimonte oggi è uno dei musei più importanti all’interno del territorio cittadino ma anche dell’intero territorio nazionale, non solo per l’alta qualità delle opere e delle collezioni che custodisce, ma soprattutto per la sua completezza.

Quando si parla di “Capodimonte” si pensa subito al Museo, ma non bisogna dimenticare che le sale del museo sono allestite all’interno del palazzo stesso, ed inoltre che al di fuori del palazzo vi è il Bosco con le costruzioni in esso presenti.

 

L’allestimento museale e le Sale del Palazzo

All'interno delle sale del piano nobile s’incontra il primo allestimento, che immette il visitatore nel percorso museale che si snoda tra opere d’arte e sale nobiliari.

La prima sala è il “Salone della Culla”, impreziosita da un pavimento  in marmo intarsiato, rinvenuto nella villa dell’imperatore Tiberio sull’isola di Capri, sala così denominata perché qui era stata collocata  la culla disegnata da Domenico Morelli - oggi conservata alla reggia di Caserta - e donata dalla città ai Savoia per la nascita di Vittorio Emanuele III.

Fig. 1 - Napoli, Museo di Capodimonte, Salone della Culla. Credits: commons.wikipedia.org By Mentnafunangann - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37531018.

Altra sala di rilevante interesse è di certo il Salone delle Feste, a pianta rettangolare con i suoi affreschi di gusto neoclassico, rimaneggiata durante gli anni del governo di Gioacchino Murat, rendendola la stanza più maestosa dell’intero complesso per opera di Salvatore Giusti. Il pavimento è in marmo siciliano ad intarsi geometrici,

Fig. 2 - Napoli, Museo di Capodimonte, Salone delle Feste. Credits:By Mentnafunangann - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50301077.

 

ma di certo la sala che maggiormente attrae e desta interesse e curiosità è il cosiddetto “Salottino di Porcellana”:

Fig. 3 - Napoli, Museo di Capodimonte, Salottino di Porcellana. Credits: By Mentnafunangann - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37531305.

 

un ambiente unico al mondo, realizzato con le ceramiche della Real Fabbrica di Porcellane - la cui sede è proprio all’interno del Real Bosco del Museo - per la Regina Maria Amelia, Sassonia, moglie di Carlo.

È una delle realizzazioni più riuscite del Settecento napoletano frutto di circa 3 anni di lavoro.

L’ambiente - la sala 52 -  è di piccole dimensioni, soprattutto se paragonato alle altre sale della reggia - ed è decorato a “cineserie”, genericamente definito dal Vanvitelli “gabinetto di porcellana“;  si presenta a pianta quadrata, con pareti interamente rivestite di lastre di porcellana fissate insieme da perni e chiodi, intervallate da sei specchiere.

Il soffitto - sebbene sia in stucco - imita la porcellana  alle pareti, e da esso pende un lampadario a dodici braccia che rappresenta un giovane cinese che pungola un drago con il suo ventaglio.

Nel complesso la decorazione è fitomorfa (rami, foglie, frutti e fiori, arricchita da trofei musicali  e scimmie che si alternano a scene di vita cinese).

 

La “Collezione Farnese” a Capodimonte

A Carlo di Borbone si deve anche il trasferimento in città della “Collezione Farnese” , oggigiorno considerata il nucleo fondamentale del museo e del quale occupa un intero lato del piano nobile anche se è tripartita tra Capodimonte, il Museo Archeologico Nazionale ed il palazzo Reale di Napoli.

Fig. 4 - Napoli, Museo di Capodimonte, pianta del piano con in evidenza le sale museali. Credits:By Fulvio314 - Own work based on: this map, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39255549

 

Pianta del primo piano della Reggia di Capodimonte:

Galleria Farnese Sale da 2 a 30

Collezione Borgia Sala 7

Salottino di porcellana 52

Appartamento reale Sale 31, 32, 34, 37, 42, 43, 44, 45, 51, da 53 a 60

Collezione De Ciccio Sale  da 38 a 40

Galleria delle porcellane Sale 35.36

Armeria farnesiana e borbonica Sale da 46 a 50


La
collezione Farnese è una delle più famose al mondo anche  e soprattutto per la quantità di opere che la stessa contiene, tanto da essere divisa in tre musei seguendo i criteri espositivi dei musei di destinazione: infatti all’Archeologico sculture romane, testi librai alla Biblioteca Nazionale del Palazzo Reale, mentre a Capodimonte sono conservate  le opere del Rinascimento come il Botticelli, opere di pittori emiliani e romani, ma anche utensili di vario genere.

Fig. 5 - Napoli, Museo di Capodimonte, Botticelli, Madonna con Bambino e due Angeli, tela appartenente alla “Collezione Farnese”. Credits: Web Gallery of Art:   Image  Info about artwork, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14590056.

e scorrendo lungo i secoli, incontriamo  Tiziano Vecellio

ma anche i Carracci, Annibale Agostino e Ludovico,

Fig. 8 - Napoli, Museo di Capodimonte, Annibale Carracci, Ercole al bivio, tela appartenente alla “Collezione Farnese”. Credits: commons.wikimedia. Unknown source, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44958684.

e  ancora grandi nomi come il Bellini, Agnolo Bronzino, Correggio, Andrea del Sarto, Domenichino, Dosso Dossi, Lanfranco, Lorenzo Lotto, Masolino da Panicale ed un elenco straordinario di artisti che hanno fatto la storia dell’arte d’Italia.

Il pezzo dell’intera collezione  che però desta le maggiori curiosità della parte della collezione presente è di certo il Cofanetto Farnese.

Fig. 9 - Napoli, Museo di Capodimonte, Cofanetto Farnese, Collezione Farnese. Credits: Manno Sbarri - The photo is in the article “Il Cofanetto Farnesiano del Museo di Napoli” of Aldo De Rinaldis published in “Bollettino d'arte del Ministero della pubblica istruzione”, no. 4, 1923 (in the article does not specify the name of the photographer), Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=43324296.

Il Cofanetto Farnese, commissionato nel 1548 dal Cardinal Alessandro Farnese all’orafo fiorentino Manno Sabbi, è un cofanetto d’argento dorato, lavorato a sbalzo e cesello, cristallo di rocca intagliato, smalti e lapislazzuli.

Le sue dimensioni sono notevoli, 49x26x42.3 cm. È considerato uno dei capolavori dell’arte orafa.

All’area espositiva che al primo piano ospita la Collezione, vanno annoverate in particolar modo le sale 13 e 14 che s’ispirano alla settecentesca “Galleria delle cose rare” voluta dal Duca Ranuccio II nella Galleria Ducale di Parma e nella quale sono confluiti un ricco nucleo di oggetti artistici preziosi ma soprattutto rari e che vanno ad integrare la già ricca collezione stessa.

Oltre la Collezione Farnese

Alla ricchezza della Collezione Farnese, vanno aggiunte l’enorme quantità di  opere che il museo conserva ed espone come l’opera di Simone Martini, il San Ludovico da Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò

Fig. 10 - Napoli, Museo di Capodimonte, Simone Martini, San Ludovico da Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò. Credits: Self-scanned, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9208432.

ed ancora, la Flagellazione  di Caravaggio che giunge al Museo di Capodimonte dalla Chiesa di San Domenico Maggiore

Fig. 11 - Napoli, Museo di Capodimonte. Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, La Flagellazione. Credits:  Unknown source, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10258014.

La straordinarietà e la qualità delle opere presenti  al Museo Nazionale di Capodimonte ed il connubio che ne deriva con le sue origini di casino di caccia e luogo di diletto, ne fanno uno dei musei più visitati sull’intero territorio nazionale.

 

 

 

Sitografia

www.museocapodimonte.beniculturali.it


CARLO CRIVELLI: IL POLITTICO DI MASSA FERMANA

A cura di Arianna Marilungo

Introduzione

A Massa Fermana, piccolo paese situato in provincia di Fermo, è custodito un prezioso polittico autografo di Carlo Crivelli collocato nella Chiesa Parrocchiale dei Santi Lorenzo, Silvestro e Ruffino.

Il polittico di Crivelli: descrizione

In un inventario della Chiesa Parrocchiale del 1728 il polittico è così descritto:

Un Quadro in tauola non discaro, collocato insagristia che prima staua nell'Altar Maggiore ripartito in cinque Colonnette coll'Immagini della Madonna SS.ma e Bambino in mezo: di S. Lorenzo, e di S.Gio:Battista a destra, ed asinistra di S. Siluestro, e di S. Fran.co Stimmatizzato. Finisce da capo con tre quadretti piramidali col Cristo Morto in mezo, l'Ann:ta a destra, ed a sinistra l'Arcangelo: sotto, e da piedi in quattro spazij ripartiti in piccolo, con i misteri della Passione, cioè l'Or.ne nell'Orto La Flagellaz. La Crocefissione, e la Resurr.e di nostro Signore Gesù Cristo. In mezo esotto i piedi della Mad.a SS:ma si uede Laseg.te iscrizzione: Karolus Criuellus Venetus pinsit hoc opus M:mo CCCCLX:mo III[1].

Questo polittico [fig. 1], firmato e datato 1468, è la prima opera documentata di Carlo Crivelli nelle Marche e fu commissionato dai conti Azzolini di Fermo che esercitavano lo ius patronato sulla chiesa per il cui altare l'opera fu realizzata[2]. Subito dopo l'annessione delle Marche al Regno d'Italia, nel 1861 il governo ordinò una ricognizione dei beni culturali su tutto il territorio, affidata al Cavalcaselle ed al Morelli. In questo anno il polittico si trovava nella casa parrocchiale, e fu poi esposto nella residenza municipale. In seguito venne portato nella Galleria Nazionale di Urbino. Dopo la seconda guerra mondiale venne trasferito nella chiesa d'origine.

Fig. 1 - Carlo Crivelli, “Polittico di Massa Fermana”, tempera su tavola, 110x190 cm, 1468, Chiesa dei Santi Silvestro e Lorenzo, Massa Fermana (FM). Credits: Di Carlo Crivelli - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=149826.

Il polittico è costituito dalla predella con scene della Passione e Morte di Gesù Cristo, dal registro centrale e dalle cuspidi.

La predella del polittico di Crivelli

La predella si compone di quattro scene:

  • il primo pannello a partire da sinistra rappresenta La preghiera in Getsemani [fig. 2]. Sullo sfondo di un paesaggio, sottoposto a successivi rifacimenti, vengono introdotte le figure di Gesù in preghiera e degli apostoli addormentati. Questi ultimi sono rappresentati in scorcio, soluzione desunta da esempi del Mantegna. Il cielo stellato appare malamente ridipinto.
  • Il secondo pannello, invece, rappresenta La Crocifissione [fig. 3]. La scena si apre su un paesaggio arido dove in primo piano è rappresentato Gesù Cristo in croce. L'atteggiamento di profonda preghiera dell'apostolo Giovanni e la smorfia di dolore della Madonna aumentano la drammaticità della scena. Accanto a queste figure sono rappresentati due soldati romani a cavallo che guardano sbalorditi il Cristo. La loro espressione di stupore sembra voler dimostrare di essersi ricreduti sulla divinità del Cristo.
  • Il terzo pannello raffigura La flagellazione [fig. 4]. La semplicità della scena non ne diminuisce la drammaticità: Cristo legato alla colonna viene flagellato da due uomini. In questa scena è di notevole rilevanza la soluzione prospettica adottata dal Crivelli.
  • Il quarto pannello ritrae la Resurrezione [fig. 5], che presenta chiari riferimenti al Mantegna padovano, soprattutto negli scorci dei soldati dormienti. La tavola presenta danni notevoli[3].

Le scene della predella sono oggetto di un dibattito non risolto, in quanto la disposizione delle tavole risulta disordinata. Infatti subito dopo La preghiera in Getsemani e prima de La flagellazione, il Crivelli dipinse la Crocifissione invertendo la sequenza logica e temporale delle scene della Passione di Cristo. È improbabile che questo errore sia dovuto ad una disattenzione dell’artista, data la sua profonda conoscenza delle realtà dogmatiche e teologiche cattoliche. È da escludere anche un errore di assemblaggio poiché le scene sono dipinte su un’unica tavola. L’incognita, pertanto, non è ancora stata sciolta.

Il registro centrale del polittico di Massa Fermana

Il registro centrale del polittico di Crivelli è costituito da cinque tavole rappresentanti quattro santi e la Madonna in trono con il Bambino nella tavola centrale.

Le tavole più esterne (105x34 cm) rappresentano due grandi santi: San Giovanni Battista [fig. 6] (prima tavola a sinistra) e San Francesco d'Assisi che riceve le stimmate [fig. 7] (prima tavola a destra). La presenza di quest’ultimo santo sottolinea la forte ispirazione francescana del polittico, probabilmente imputabile alla devozione della committenza. La figura di San Francesco, poi, sarebbe giustificata anche dalla presenza di un convento di frati francescani a Massa Fermana[4].

Le tavole ai lati di quella centrale rappresentano San Lorenzo [fig. 8] (a sinistra, 105x34 cm) e San Silvestro [fig. 9] (a destra, 105x34 cm), i Santi a cui è dedicata la chiesa parrocchiale di Massa Fermana. San Silvestro ha ricamati sulla dalmatica i Santi Paolo e Pietro, San Francesco e San Bernardino che tiene in mano una tavoletta con sopra inciso il monogramma YHS[5].

La tavola centrale è la più grande (105x44 cm) e rappresenta la Madonna col Bambino in trono [fig. 10], firmata e datata sul gradino del trono “KAROLVS CRIVELLVS VENETVS PINXIT HOC OPVS MCCCCLXVIII”, e secondo lo Zampetti la figura della Madonna è da accostare a quelle lippesche. La Madonna di Massa Fermana presenta “…una nuova tenerezza, un accento di umana spiritualità timida e sensitiva”[6]. Il Bambin Gesù è colto in atto benedicente e sulla mano sinistra tiene la sphaera mundi in pastiglia dorata[7].

Fig. 10 - Carlo Crivelli, “Polittico di Massa Fermana”, particolare della “Madonna col Bambino in trono”, tempera su tavola, 105x44 cm, 1468, Chiesa dei Santi Silvestro e Lorenzo, Massa Fermana (FM). Credits: Di see filename or category - Scansione personale, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20162642.

Nella parte superiore del polittico, i cui ornamenti sono andati perduti, vi sono tre tavole rappresentanti la Vergine Annunziata, la Pietà (Cristo morto sul sarcofago) e l'Arcangelo Gabriele.

La Vergine Annunziata [fig. 11] è la prima tavola a sinistra e presenta una rigorosa prospettiva in cui è inquadrata la Madonna raffigurata in ritmi lineari goticamente fluenti.

Fig. 11 - Carlo Crivelli, “Polittico di Massa Fermana”, particolare de “La Vergine Annunziata”, tempera su tavola, 37x19 cm, 1468, Chiesa dei Santi Silvestro e Lorenzo, Massa Fermana (FM). Credits: Di Carlo Crivelli - The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=149828.

La Pietà [fig. 12] (Cristo morto sul sarcofago) è la tavola centrale, più grande rispetto alle altre due (51x28 cm). Probabilmente era inserita in una cornice gotica che esaltava l'effetto prospettico delle linee e delle ombre proiettate con massima precisione. La terza tavola rappresenta un elegante Arcangelo Gabriele [fig. 13] che nella mano sinistra tiene il giglio e con la destra benedice la Vergine Maria[8].

In questa pala d’altare Carlo Crivelli dimostra di possedere una chiara padronanza delle tecniche espressive e figurative rinascimentali: le figure sono plastiche e ben modellate, mentre gli spazi sono ideati seguendo sapienti soluzioni spaziali che conferiscono un’ambientazione trascendentale nei pannelli centrali, e naturalismo nelle scene della predella e della cimasa.

Il polittico di Crivelli: conclusioni

Come si è già detto, l'artista era dotato di una profonda conoscenza teologica e dogmatica e questo suo capolavoro si inserisce perfettamente nel dibattito, che si era proprio acceso in quegli stessi anni tra francescani e domenicani, relativo alla divinità del Sangue di Cristo. La tesi sostenuta da San Giacomo della Marca affermava che il Sangue di Cristo avrebbe perso la sua natura divina scindendosi dal corpo durante la Passione per poi riacquistarla con la Resurrezione, mentre quella sostenuta dall’ordine domenicano asseriva che il Sangue di Cristo non avrebbe mai perso la sua natura divina durante la Passione. Osservando più attentamente le scene della Passione è evidente una differenza nella rappresentazione dei sarcofagi rappresentati nella Pietà e nella Risurrezione: nel primo caso il colore della pietra è grigio striato dalle lacrime della Madonna, nel secondo è rosso e la pietra è bagnata dal Sangue di Cristo che rimanda ad un preciso significato eucaristico. Questa differenza di colore, però, potrebbe essere attribuita semplicemente ad un retaggio stilistico che Crivelli avrebbe appreso a Venezia dove era molto diffuso tra artisti a lui contemporanei.

Il polittico di Massa Fermana si impone come importante manifesto della tradizione religiosa marchigiana della seconda metà del XV secolo: lo schema figurativo adottato ed il significato iconologico presentato dalla tavola testimoniano un incastro perfetto tra antiche tradizioni artistiche e nuovi artifici apportati dal Crivelli[9].

 

Note

[1]Gioia Mori, “Quarta fuit sanguinis a deitate” La disputa di San Giacomo della Marca nel polittico di Massa Fermana di Carlo Crivelli, in Storia dell'Arte n. 47, La nuova Italia editrice, Firenze, p. 17

[2]Pierluigi De Vecchi (a cura di), Itinerari crivelleschi nelle Marche, Gianni Maroni Editore, Ripatransone (AP), 1997, p. 300

[3]Anna Bovero (a cura di), L'opera completa del Crivelli, Rizzoli Editore, Milano 1974, p. 85

[4]Pierluigi de Vecchi (a cura di), cit., p. 301

[5]Forma grafica adoperata fin dal VI sec. come traslitterazione latina del monogramma greco, d'origine paleocristiana, IHC, compendio per contrazione del nome greco di Gesù. Diffusa nell'Occidente latino almeno dal IX sec., alla metà del XV sec. S. Bernardino da Siena ed i suoi seguaci l'adottarono per significare la devozione al Sacro Cuore di Gesù.

[6]Pietro Zampetti, Carlo Crivelli, Nardini Editore, Firenze, 1986, p. 253

[7]Gioia Mori, cit., p. 26

[8]Anna Bovero, cit., p. 85

[9]Gioia Mori, cit., p. 27

 

Bibliografia

Anna Bovero (a cura di), L'opera completa del Crivelli, Rizzoli Editore, Milano 1974

Pierluigi De Vecchi (a cura di), Itinerari crivelleschi nelle Marche, Gianni Maroni Editore, Ripatransone (AP), 1997

Gioia Mori, “Quarta fuit sanguinis a deitate” La disputa di San Giacomo della Marca nel polittico di Massa Fermana di Carlo Crivelli, in Storia dell'Arte n. 47, La nuova Italia editrice, Firenze

Pietro Zampetti, Carlo Crivelli, Nardini Editore, Firenze, 1986

 

Sitografia

www.treccani.it


IL GRATTACIELO PIRELLI A MILANO

A cura di Gianmarco Gronchi

Introduzione

Se chiedete a un milanese di dirvi un simbolo della sua città, molto probabilmente, insieme al Duomo e al castello Sforzesco vi risponderebbe il grattacielo Pirelli, affettuosamente ribattezzato “Pirellone” nel linguaggio comune. È significativo che un edificio nato nel secondo dopoguerra sia riuscito a conquistare così bene l’immaginario dei cittadini. Ma il grattacielo Pirelli, oggi sede del consiglio regionale della Lombardia, oltre a plasmare in modo peculiare l’identità urbana di Milano, è anche un’opera che permette di affrontare un momento chiave per la storia dell’architettura e ben rappresenta, in controluce, le vicende dell’Italia del secondo dopoguerra.

Fig. 1 - Gio Ponti, Pier Luigi Nervi et al., Grattacielo Pirelli, 1956-1960. Fonte: http://www.lombardiabeniculturali.it/.

Il grattacielo Pirelli: storia e costruzione

Tra 1956 e 1960, a stretto giro d’anni rispetto alla Torre Velasca dei BBPR , veniva completato questo grattacielo, voluto dalla famiglia Pirelli per ospitare gli uffici milanesi della loro industria di pneumatici. Il progetto fu affidato al già famosissimo Gio Ponti, che si fece coadiuvare da altri progettisti e architetti di chiara fama, tra cui spicca Pier Luigi Nervi.

I due si erano già distinti durante il Ventennio come personalità di spicco dell’architettura e del design razionalista, mostrando come anche l’Italia sapesse offrire risposte originali alla sfida del modernismo, lanciata da personalità come Wright, Le Corbusier e Van der Rohe.

Alla soglia degli anni Sessanta, però, le condizioni erano cambiate e anche l’approccio all’architettura richiedeva un ripensamento. Se i BBPR con la Torre Velasca avevano affermato che era necessaria una rottura con i dettami dell’International Style a favore di un localismo che tenesse conto dell’identità del luogo, la committenza per i Pirelli offriva a Ponti la sua occasione per ripensare la tradizione del modernismo architettonico in maniera personale.

Fig. 2 - Gio Ponti, Pier Luigi Nervi et al., Grattacielo Pirelli, 1956-1960. Fonte: http://www.lombardiabeniculturali.it/.

Innanzi tutto, si deve notare il materiale principale impiegato per la costruzione: il calcestruzzo. L’utilizzo di questo materiale è singolare per un edificio di tale altezza (ben 33 piani per oltre 125 metri), per la quale si preferiva l’acciaio. Avendo il grattacielo un rapporto ridotto tra altezza e larghezza sarebbe stato particolarmente esposto al vento. Per questo motivo, Nervi propose uno schema strutturale con sette rigide estremità triangolari e pilastri-pareti al centro, tutti in calcestruzzo. In questo modo si garantiva la solidità strutturale e al contempo una forma finemente assottigliata. Lo stesso Nervi fu l’ideatore di un sistema doppiamente vertebrato sul quale si potessero adagiare gli eleganti rivestimenti metallici e che al contempo conferisse solidità alla struttura, evitando però la tradizionale soluzione in gabbia d’acciaio. Tutte queste accortezze, che hanno un peso specifico nella stabilità dell’edificio, rappresentano però anche delle meditate risposte personali al binomio ferro-vetro, tanto caro alla generazione modernista d’anteguerra. D’altra parte, non c’è da stupirsi, solo per fare un esempio in campo internazionale, se lo stesso Le Corbusier, all’indomani della Seconda Guerra mondiale dedicherà una sempre maggior attenzione all’uso del beton brut (cemento a vista), impiegandolo in costruzioni stupende come l’Unité d'Habitation a Marsiglia. Un’altra accortezza di Ponti che vale la pena di far notare è la pianta a losanga, che consente di collocare gli ascensori nel centro e di trasmettere un’idea di struttura snella ma solida. Come nota William Curtis, «il risultato fu un unico e prestigioso edificio per uffici che rappresentò le aspirazioni altamente tecnologiche della compagnia e che dimostrò come non tutti gli alti edifici progettati in Europa dovessero imitare i modelli americani»[1]. In altri termini, fu la risposta che Ponti dava alla necessità di uscire dai precetti dogmatici che avevano caratterizzato l’architettura modernista internazionale tra le due guerre. Potremmo quasi dire che il grattacielo Pirelli e la Torre Velasca sono come due facce della stessa medaglia, dal momento in cui entrambe cercano di offrire delle vie alternative rispetto ai moduli dell’International Style all’architettura del dopoguerra.

L’importanza di questo grattacielo non si limita al dibattito artistico-architettonico. L’edificio infatti è fin da subito diventato un simbolo della Milano di fine anni Cinquanta, inizio anni Sessanta, in pieno boom economico. «L’architettura è un cristallo puro, nitido, duro e perenne»[2]. Con queste parole Gio Ponti commentava la sua creazione, che venne definita, con una lettura retrospettiva, non un grattacielo, ma «il grattacielo per antonomasia voluto dalla dinastia dei Pirelli per un monumento degno di sé e idealmente dedicato a tutta l’imprenditoria privata lombarda»[3].

Posto nelle vicinanze della stazione centrale, il Pirellone doveva fare una grande impressione a tutti coloro che arrivavano nella metropoli milanese in cerca di fortune. Si fa presto a capire come mai il grattacielo di Ponti, una tipologia architettonica che al tempo rappresentava probabilmente un unicum nel panorama italiano, divenne fin da subito il simbolo della modernità e dello spirito d’innovazione di Milano negli anni del miracolo economico.

Nondimeno, il Pirellone era – e continua a essere – un simbolo di potere. E se da una parte poteva rappresentare gli sforzi economici e produttivi di una città e di un paese che voleva rilanciarsi all’indomani della guerra, dall’altra era anche emblema del potere borghese e della lotta padrone-proletario, che caratterizzeranno la fine degli anni Sessanta e tutto il decennio successivo. A conferma della precocità con cui il grattacielo Pirelli è entrato nell’immaginario degli italiani, basti citare La vita agra di Bianciardi, edito da Rizzoli nel 1962. Il narratore del romanzo, per vendicare dei minatori morti a causa della scarsezza di norme di sicurezza sul lavoro, decide di trasferirsi a Milano per far esplodere l’edificio voluto dai Pirelli. «Io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e cemento […] la missione mia […] era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e […] sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano». L’epica metropolitana bianciardiana finirà in un nulla di fatto. Sedotto dalla città, dalle possibilità di lavoro e dai soldi, il protagonista abbandona i suoi spiriti anarchici. Nel film di Carlo Lizzani tratto dal libro, rilasciato nel 1964, il protagonista, che ha il volto di Ugo Tognazzi, finirà addirittura per organizzare uno spettacolo pirotecnico dalla cima del grattacielo. Precoce anticipazione di quegli anni Ottanta che, complice la superficialità della “Milano da bere”, fagociteranno ideologie, credi e moralità.

Fig. 5 - Fotogramma tratto dal film La vita agra, di Carlo Lizzani, 1964. Fonte: http://www.lombardiabeniculturali.it/.

 

 

Note

[1] W. Curtis, L’architettura moderna del 1900, Phaidon, 2006.

[2] G. Ponti, “Espressione” dell’edificio Pirelli in costruzione a Milano, in “Domus”, n.316, 1956.

[3] L. Ponziani, Com’è triste Milano. Paralisi economica e crisi d’identità all’ombra del Pirellone, in “il Messaggero”, 31 dicembre 1977.

 

Bibliografia

Curtis, L’architettura moderna del 1900, Phaidon, 2006.

Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Feltrinelli, 2005.

Irace, Gio Ponti. La casa all’italiana, Electa, 1988.

Ponti, “Espressione” dell’edificio Pirelli in costruzione a Milano, in “Domus”, n.316, 1956.


ALESSANDRO MAGNASCO: VITA E OPERE

A cura di Alice Perrotta

Introduzione

L’opera di Alessandro Magnasco (1667-1749) costituisce un caso particolare all’interno del panorama artistico genovese dell’epoca perché la sua formazione si collocò soprattutto in città dal contesto culturale assai diverso, come Milano e Firenze.

Cenni biografici ed opere

Gli anni della prima formazione

Alessandro Magnasco, chiamato anche il Lissandrino, nacque a Genova il 4 febbraio 1667. Il padre, anch’egli pittore e allievo di Valerio Castello, morì quando Alessandro aveva solo cinque anni, scartando così l’ipotesi di una possibile prima formazione presso la bottega paterna.

Il pittore si trasferì giovanissimo a Milano dove, grazie agli insegnamenti di Filippo Abbiati - una delle personalità più note dell’ambiente artistico lombardo - imparò “il disegno & il colorire”[1] Le prime opere, del tutto estranee alla pittura genovese (che verrà ripresa più avanti dal pittore), manifestavano un linguaggio prettamente lombardo, dal gusto molto teatrale. Tuttavia, rispetto alle costruzioni solide dell’Abbiati, il pittore genovese mostrò fin dall’inizio un linguaggio originale e inconfondibile, costituito da pennellate estremamente libere e forme disgregate. Tra i primi dipinti a noi noti vi sono la Maddalena, il Cristo portacroce (entrambi di collezione privata) e la serie delle Estasi di San Francesco, fra cui quella conservata a Palazzo Bianco a Genova è la più indicativa (Figg. 1-2). Nella rappresentazione delle scene sacre, intrise di colori lividi e terrosi, le figure appaiono disarticolate e scarnificate.

Col finire dell’esperienza sotto la guida dell’Abbiati, probabilmente negli anni novanta del Seicento, il Magnasco si allontanò dalla pittura sacra tradizionale, inserendosi nel gruppo degli specialisti dei generi pittorici “minori”. Iniziò, dunque, a dipingere le sue prime opere di genere, come la Riunione di quaccheri (1695) di collezione privata (fig.3). La maggior parte di queste tele fu eseguita assieme alla collaborazione di paesaggisti e pittori di rovine. In tali dipinti – che riscossero notevole successo – veniva accentuato il carattere sfilacciato e contorto delle figure.

Fig. 3 - Alessandro Magnasco, Riunione di quaccheri, 1695, collezione privata. Fonte: E. Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova e in Liguria nel Settecento, Cassa di Risparmio di Savona (gruppo Banca Carige), 2000, p. 332.

Sul finire del secolo, Magnasco si affermava come noto figurista, nonostante non avesse una propria bottega e dipendesse da altri specialisti per le commissioni di opere. Il passaggio dall’arte sacra tradizionale alla pittura di genere avvenne plausibilmente in modo graduale.

Un’opera significativa in tal senso è il S. Antonio Abate nell’Eremo, eseguita in collaborazione con Carlo Antonio Tavella (1668-1738), che si occupò del paesaggio roccioso. Qui i motivi devozionali e penitenziali, tipici della pittura lombarda, si perdono nel paesaggio assumendo un carattere tendenzialmente decorativo. Di conseguenza, viene smorzato anche l’effetto drammatico. Forse fu proprio grazie al Tavella che Alessandro ebbe modo di inserirsi nell’ambiente della pittura di genere.

I soggetti popolareschi e caricaturali che animavano le sue opere si configurarono fin da subito come dei veri e propri “tipi” ricorrenti: la lavandaia, il frate in preghiera, il pellegrino in riposo, il soldato che gioca a carte sopra un tamburo.

Negli anni del suo primo soggiorno milanese, Magnasco cominciò ad interessarsi anche alla ritrattistica, un genere che lo entusiasmava ma che praticò solo per un breve periodo. I suoi ritratti, dal taglio realistico, costituivano un suggestivo momento di indagine della realtà. Anche qui la matrice era prettamente lombarda e in contrasto con la ritrattistica genovese del periodo, orientata verso una funzione celebrativa.

 

Firenze

Dopo l’esperienza milanese, il secondo soggiorno più significativo per Magnasco fu Firenze. Trasferitosi nella città toscana nel 1703, produsse diverse opere per conto del Gran Principe Ferdinando, amante dello stile antiaccademico e “brioso”.[2]

Al soggiorno fiorentino risalgono per esempio il Viaggio di frati e la Tebaide, concepiti insieme ad alcuni paesisti, tra i quali si ricorda Marco Ricci, nipote di Sebastiano Ricci, un pittore amatissimo dal Gran Principe e amico del Magnasco stesso. La Scena di Caccia (1706-1707) (fig.4) del Lissandrino (e di ignoto paesaggista), oggi conservata al Wadsworth Museum di Hartford (USA), in cui compaiono Ferdinando de’ Medici, sua moglie, Sebastiano Ricci e il pittore stesso, testimonia proprio tali legami. L’opera, dai toni caricaturali e burleschi, costituisce un caso particolare rispetto alla solennità dei ritratti di corte tradizionali.

Fig. 4 - Alessandro Magnasco, Scena di caccia, 1706-1707, Wadsworth Museum, Hartford (USA). Fonte: Alessandro Magnasco (1667-1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista (catalogo della mostra), a cura di Fausta Franchini Guelfi, Galerie Canesso (Parigi), 2015, p. 14.

 Il secondo soggiorno milanese                                                                                                                                 

Verso il 1708 Alessandro decise di lasciare Firenze poiché nel frattempo il suo mecenate, il Gran Principe, si era ammalato. Il pittore, dopo un breve soggiorno a Genova dove si sposò, fece ritorno a Milano. Nella città lombarda, affiliato all’Accademia di San Luca, lavorò per conto di importanti famiglie come i Borromeo e i Visconti. Tra il 1719 e 1725 gli fu poi affidata una prestigiosa commissione: il governatore austriaco di Milano, il conte Gerolamo di Colloredo, gli richiese quattro dipinti di grandi dimensioni da destinare all’Abbazia di Seitenstetten in Austria. Le opere in questione sono la Biblioteca e il Refettorio dei cappuccini, la Sinagoga (fig.5) e il Catechismo nel duomo di Milano.

Fig. 5 - Alessandro Magnasco, Sinagoga, 1719-1725, Seitenstetten, Pinacoteca dell’Abbazia. Fonte: E. Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova e in Liguria nel Settecento, Cassa di Risparmio di Savona (gruppo Banca Carige), 2000, p. 339.

Altra opera significativa databile a questi anni, intorno al 1725, è la Satira del nobile in miseria (fig.6), che ricorda le commedie di Carlo Maria Maggi, un rappresentante dell’aristocrazia milanese del tempo che dedicò i suoi scritti ad una satira arguta nei confronti della nobiltà moralmente degradata.

Fig. 6 - Alessandro Magnasco, Satira del nobile in miseria, 1725 ca., Detroit, Institute of Arts. Fonte: By Alessandro Magnasco, https://www.dia.org/art/collection/object/satire-nobleman-misery-53142, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=79700847.

 

Il ritorno a Genova

Nel 1733 il Lissandrino tornò a vivere a Genova dove rimase fino alla morte.

Nella sua città natale venne influenzato dallo studio delle opere di Domenico Piola, Gregorio de Ferrari, del Grechetto e soprattutto di Valerio Castello. Tuttavia, rispetto alle vivaci cromie e alle auliche figure della pittura genovese, Magnasco rimase fedele alle tonalità cupe e alle forme “corrose”[3]. Egli continuò a preferire i suoi soggetti popolari e le tematiche care al patriziato lombardo[4], sebbene per gli aristocratici genovesi «quel suo dipinger di tocco parve di niun conto»[5].

A questo periodo risalgono lavori come Il pittor pitocco (fig.7), opera emblematica in cui Alessandro si autoritrae mentre dipinge un violinista ambulante storpio che siede davanti a lui. O ancora, il Trattenimento in un giardino d’Albaro (Palazzo Doria-Tursi, Genova) (figg.8-9), databile intorno al 1740. La tela, dal formato inconsueto, mette in scena uno scorcio di vita quotidiana dell’aristocrazia genovese. Anche questa volta i toni sono disincantati: l’intento di Magnasco è quello di mostrare lo sfarzo illusorio di una nobiltà destinata ormai a tramontare.

Un carattere ulteriormente polemico è presente nella tela databile al 1735-40 – quasi un preludio de’ Il giorno del Parini – di collezione privata: La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze (fig.10).

Fig. 10 - Alessandro Magnasco, La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze, 1735-40, collezione privata (già Parigi, Galerie Canesso). Fonte: WikimediaCommons. Credits: By Alessandro Magnasco - http://magnasco.canesso.com/blog/2015/11/08/la-dissipation-et-lignorance-detruisent-les-arts-et-les-sciences/, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49494227.

 

Note

[1] C. Dufour Bozzo (a cura di), La Pittura a Genova e in Liguria, vol. 2, 1970-1971, p. 325.

[2] Ivi, p. 330.

[3] Ivi, p. 325.

[4] Tra i committenti milanesi si ricordano i Borromeo, gli Archinto, i Visconti e Giovan Francesco Arese.

[5] Ivi, pag.339

 

Bibliografia

- C. Dufour Bozzo (a cura di), La Pittura a Genova e in Liguria (vol 2), 1970-1971

- F. Franchini Guelfi, Alessandro Magnasco, Genova: Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1977

- Alessandro Magnasco (1667-1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista (catalogo della mostra), a cura di Fausta Franchini Guelfi, Galerie Canesso (Parigi), 2015

- E. Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova e in Liguria nel Settecento, Cassa di Risparmio di Savona (gruppo Banca Carige), 2000, p. 339

 

Sitografia

www.fondazionezeri.unibo.it

www.museidigenova.it