CASA MUSEO JORN AD ALBISSOLA MARINA

A cura di Gabriele Cordì

Introduzione. Casa Museo Jorn: una terrazza sul mare

La Casa Museo Jorn sorge sulle dolci pendici della collina dei Bruciati ad Albissola Marina (fig.1), piccolo comune costiero a 2,5 chilometri da Savona. Si tratta di un ensemble di edifici che rompe il concetto tradizionale di abitazione e rappresenta un unicum a livello europeo nel grande mare dello sperimentalismo architettonico. I primi insediamenti di questa zona risalgono al Medioevo ed appartengono alla famiglia Della Rovere, dalla quale provengono gli illustri pontefici-mecenati Sisto IV e Giulio II. Nonostante le modifiche nel corso dei secoli, restano tutt'oggi evidenti i segni di un impianto più antico, come testimoniano chiaramente i muri perimetrali e le bifore. Tra l’ombra degli alberi e la brezza marina si esaudisce il sogno artistico del danese Asger Jorn, che trasforma questo lembo di terra in un’opera d’arte a cielo aperto.

Fig. 1 - Villa Jorn ad Albissola Marina, Gabriele Cordì.

Tutte le strade portano ad Albissola

Asger Jorn nasce il 3 marzo 1914 a Vejrum, nello Jutland danese (fig.2). Dopo aver conseguito il diploma per diventare insegnante, lascia la Danimarca per raggiungere Parigi con il sogno di entrare nel mitico ambiente artistico della capitale francese. Nel 1936, a 22 anni, inizia a seguire l’Académie Contemporaine retta da Fernand Léger. Inizia un forte sodalizio con l’architetto Le Corbusier, tanto che nel 1937 collabora alla realizzazione del Pavillon des Temps Nouveaux (Padiglione dei Tempi Nuovi) a Parigi, realizzando per quest’occasione due ingrandimenti di disegni di bambini (fig.3). Jorn imparerà molto dal famoso architetto sulla capacità dell’arte e dell’architettura di muovere le persone. Si tratta di un padiglione molto grande e facilmente rimovibile, costruito in occasione dell’Esposizione internazionale di Parigi come “museo di educazione popolare” con il fine di dimostrare le possibilità dell’urbanistica moderna. Prima di maturare una concezione opposta a quella di Le Corbusier, il giovane artista danese valuta positivamente questa collaborazione e la definisce di una “gioia inebriante”.

Nel 1946, dopo aver trascorso parte dell’estate in Svezia, Jorn torna nella capitale francese ed entra in contatto con i maggiori artisti del tempo: Costant, Lam, Goetz, Atlan, Hartung, Matta e Picasso. L’8 novembre 1948 nasce a Parigi il gruppo CoBrA, acronimo di Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam (fig.4). Questo gruppo prende vita dalla scia dell’esperienza del “Surrealisme Révolutionnaire” di Christian Dotremont, il quale voleva far sposare l’arte surrealista rivoluzionaria con il pensiero politico marxista. Un altro modello a cui si ispira questo collettivo di artisti è Jean Dubuffet, per la sua visione grezza dell’arte denominata Art Brut. Faceva parte del gruppo lo stesso Asger Jorn, assieme ai belgi Corneille, Alechinsky, Dotremont, senza dimenticare gli olandesi Appel e Constant. Come ogni corrente avanguardista CoBrA tende a rifiutare la tradizione per accogliere qualsiasi sperimentalismo che denaturalizzasse l’arte e promuovesse un ritorno al primitivismo. CoBrA si opponeva saldamente al sistema di mercificazione dell’arte, ma nel 1951 il mancato rispetto di questo principio e gli interessi individuali di alcuni componenti portano il gruppo a sciogliersi.

Jorn in questo periodo vive in un appartamento nella banlieu parigina con la compagna Matie ed i loro figli.

Fig. 4 - CoBrA members, among them Constant, Eugène Brands, Tony Appel, Anton Rooskens, Karel Appel, Jacques Doucet, Gerrit Kouwenaar, Theo Wolvecamp, Lucebert and Jan Elburg, entering the Stedelijk Museum, Amsterdam in preparation for the CoBrA exhibition, November 1949. Photo: Unknown photographer.

In una lettera indirizzata a Enrico Baj del 7 marzo 1954, Jorn scrive: “Mio caro Baj, dal momento che il mese di aprile dovrò partire, credo sarebbe estremamente importante se potessimo andare immediatamente, nel momento in cui sarò arrivato a Milano, insieme ad Albissola”. Così, nel 1954, il pittore danese si trasferisce ad Albissola Marina, capitale italiana della ceramica, per alleviare la tubercolosi polmonare che lo tormenta da anni. In Liguria incontra gente accogliente con una tradizione artistica millenaria alle spalle.

Dal 1954 al 1957 non ha una fissa dimora: campeggia in una grande tenda in località Grana, in un prato in cui girava liberamente scalzo con i figli e nello studio di Lucio Fontana a Pozzo Garitta. Poco tempo dopo scopre l’esistenza di un piccolo feudo sulla collina dei Bruciati, e qui l’artista danese intravede le possibilità di un luogo magnifico, immerso nel verde e affacciato sul mare (fig.5).

Fig. 5 - Casa di Asger Jorn ad Albissola Marina, anni 60, www.amicidicasajorn.it.

Una casa “appassionante”

Alla fine degli anni Cinquanta prende vita il progetto di creazione di una dimora d’artista, provvista di studio e museo personale. In questo percorso di recupero svolge un ruolo fondamentale l’operaio albissolese Umberto Gambetta detto Berto, con cui Jorn collabora nella realizzazione del suo sogno artistico (fig.6). I due artefici stringono un profondo rapporto di amicizia, tanto da firmare insieme un camino esterno (fig. 7). La casa con giardino di Albissola, per il suo carattere eterogeneo e la sua natura dichiaratamente imperfetta, è figlia dell’emozionale piuttosto che del razionale. Sposa la semplicità dei materiali, la povertà degli stessi e il dinamismo della creazione in processo ludico che appassiona sorprendendo tutti gli attori in gioco in questa “architettura accidentale” (Feuerstein).

L'inaugurazione della Casa Museo Jorn

Asger Jorn, prima di morire nel 1973, esprime la sua volontà di lasciare la casa con giardino al Comune di Albissola Marina come gesto di ringraziamento verso l’accoglienza ligure, con l’accordo che diventi un luogo pubblico aperto agli artisti e ai cittadini. La casa rimase in usufrutto a Berto Gambetta fino alla sua morte negli anni Novanta. Nel 2000 inizia una stagione di restauri fortemente voluta dal Comune con la partecipazione dell’Università degli Studi di Genova. Nel 2014 viene inaugurata Casa Museo Jorn all'interno del percorso Museo Diffuso d’Albissola, oggi sotto la direzione di Luca Bochicchio. Qui vengono organizzate manifestazioni culturali, mostre e attività didattiche per bambini dall'associazione “Amici di Casa Museo Jorn”, a cura di Daniele Panucci e Stella Cattaneo.

 

Bibliografia

Le Corbusier reloaded: disegni, modelli, video; a cura di Alberto Sdegno, EUT Edizioni Università di Trieste, 2015.

Feuersten, Tesi sull’architettura accidentale, 1961.

 

Sitografia

http://www.museodiffusoalbisola.it/index.php/sedi/casa-museo-jorn

https://www.museumjorn.dk/en/upcoming_exhibitions/what-moves-us-le-corbusier/?utm_medium=website&utm_source=archdaily.com

https://www.google.it/amp/s/scialetteraria.altervista.org/il-gruppo-cobra/amp/

http://www.fondationlecorbusier.fr/corbuweb/morpheus.aspx?sysId=13&IrisObjectId=5070&sysLanguage=en- en&itemPos=42&itemCount=79&sysParentName=&sysParentId=64


IL SITO PALAFITTICOLO DI CELANO PALUDI (AQ)

A cura di Simone Lelli

Introduzione

Il sito archeologico di cui si parlerà in questo articolo è quello di Celano Paludi, un piccolo comune in provincia dell’Aquila, dove è stato ritrovato un insediamento palafitticolo.

Parlando di un insediamento di questo genere precisamente si intende un agglomerato di capanne o un villaggio costruito con quelle che sono comunemente chiamate palafitte (fig.1), cioè strutture formate da un asse orizzontale di legno sostenuto da pali infissi nel terreno. Solitamente queste costruzioni venivano effettuate a ridosso di laghi, paludi o lagune, e servivano ad evitare che le inondazioni allagassero le abitazioni, ma anche a tenere lontani i predatori. Queste strutture erano diffuse soprattutto nel nord Italia e nella Pianura Padana; per questo motivo il sito di Celano Paludi rappresenta uno dei siti palafitticoli più importanti del centro Italia. L’ubicazione del sito non è infatti casuale, poiché si trovava in una posizione dominante sulla piana del Fucino.

Fig. 1 - Ricostruzione di una palafitta.

Storia degli scavi

Le prime evidenze archeologiche del sito furono osservate nel 1984, quando, durante i lavori di costruzione di un’azienda ittica in località Paludi (AQ), emersero alcuni resti lignei e materiale ceramico risalente al II millennio a.C. che testimoniavano un’antica frequentazione della zona. L’anno successivo, durante l’ampliamento del laghetto artificiale circostante, si comprese la complessità e la vastità dell’insediamento. Il sito, che oggi occupa una superficie di 4000 metri quadrati, fu utilizzato dalla media età del Bronzo (XVIII secolo a.C.) fino all’età del Bronzo finale (XII- X secolo a.C.). Inoltre, a testimonianza di una lunga e continua frequentazione della zona, si osservò che il sito era stato dapprima utilizzato come un luogo abitativo, successivamente utilizzato come un luogo sepolcrale (attestato grazie al ritrovamento di alcune sepolture), e infine di nuovo luogo abitativo con la costruzione di palafitte. Dal 1985 fino al 1989 sono state effettuate cinque campagne di scavo continue, condotte dalla Sopraintendenza Archeologica dell’Abruzzo e dirette dall’archeologo Vincenzo D’Ercole; queste hanno portato al ritrovamento di decine di pali lignei che indicavano la presenza di un villaggio palafitticolo datato alla fase finale del Bronzo, e alla scoperta di tre tombe a tumolo delimitate da pietre conficcate nel terreno. Le sepolture (fig.2), datate anch’esse nella fase finale dell’età del Bronzo, erano caratterizzate da un cassone ligneo in cui veniva deposto il defunto insieme al suo corredo funebre, composto da oggetti in bronzo come fibule, rasoi e aghi. Dopo anni di interruzione, gli scavi ripresero nel 1996, quando venne portata alla luce un’ulteriore tomba a tumolo e venne ampliata l’area di scavo di altri 500 metri quadrati, facendo così rinvenire nuove strutture lignee riferibili al villaggio palafitticolo. Nel 1998, con un’ultima campagna di scavo, furono ritrovate altre tre sepolture a tumolo molto simili a quelle precedentemente scoperte.

Fig. 2 - Sepolture trovate nel sito Celano Paludi (AQ).

Osservazioni

Dallo studio del materiale ligneo ritrovato durante le varie campagne di scavo presso il sito archeologico di Celano Paludi, si è notato che il legno utilizzato per la realizzazione dei pali è, nella maggior parte, legno di quercia; tuttavia si trovano anche, in piccola parte, legno di pioppo e di salice. Il diametro medio dei pali è di circa dieci centimetri, e questo permette di capire che essi sono stati ricavati sicuramente da tronchi di grosse dimensioni e poi adattati per l’utilizzo. Lo studio dei pali di legno e delle buche di palo ritrovate nel terreno ha permesso di ipotizzare le diverse aree abitative dell’insediamento: nella zona centrale dello scavo sono state trovate file parallele da cinque o più pali con una distanza tra loro che varia tra i novanta e i centotrenta centimetri, dal lato occidentale dello scavo, invece, si è notato che gli allineamenti di pali e buche possono raggiungere lunghezze notevoli. In questa zona, infatti, era presente una struttura quadrangolare formata da quattro allineamenti di pali lunghi quindici metri.

Il Museo di Preistoria di Celano Paludi (AQ)

Fig. 3 - Museo di Preistoria di Celano Paludi (AQ).

L’importanza e la singolarità del sito, unico in Abruzzo, portò il Sopraintendente archeologico dell’Abruzzo Giovanni Scichilione e il funzionario archeologico che aveva anche diretto gli scavi, Vincenzo D’Ercole, a presentare un progetto per la costruzione di un museo adiacente al sito archeologico di Celano Paludi. Il museo (fig.3), pienamente integrato nel territorio della zona, ha la forma di un tumolo e prende spunto dalle sepolture ritrovate negli scavi. Inaugurato nel 1999, è un edificio seminterrato che presenta stanze molto ampie e illuminate da grandi finestre poste sul soffitto. Al suo interno ospita reperti che spaziano dall’età del Bronzo fino all’epoca romana e vi si tengono anche alcune mostre temporanee. Il percorso museale inizia con la prima sala, che attualmente ospita una mostra: una collaborazione tra la Sopraintendenza archeologica d’Abruzzo e la società privata di Edison Gas che prende il nome di “Amore e morte”. L’esposizione accoglie i reperti archeologici trovati nella provincia dell’Aquila negli ultimi venti anni di scavi, tra cui si possono ammirare un complesso di vasi cinerari risalenti al VI millennio a.C., reperti metallici e ceramici del sito di Celano Paludi e anche la ricostruzione di una tomba a tumolo appartenuta ad una bambina morta all’età di dieci anni. Proseguendo il percorso si entra nella seconda sala, dedicata all’età del Ferro, in cui sono esposti i reperti delle necropoli di Fossa, Forca Caruso, San Benedetto in Perillis e Molina Aeterno. Il percorso si conclude entrando nella terza sala in cui sono collocati i corredi funebri delle necropoli di Fossa e di Bazzano: qui si può notare il livello di straordinarietà che aveva raggiunto l’Abruzzo nelle produzioni locali di ceramica a vernice nera, ceramica comune, e delle applique in osso che ornavano i letti funebri. All’interno della struttura si trovano anche grandi laboratori di restauro e spazi dedicati ad indagini antropologiche in cui vengono mostrate la storia e le prime frequentazioni umane della Marsica. Infine, in alcuni depositi del museo vengono ancora oggi conservate numerose opere d’arte provenienti da comuni abruzzesi colpiti dal sisma del 2009.

 

Conclusioni

Il sito di Celano Paludi, come detto in precedenza, rappresenta un caso unico sul territorio abruzzese soprattutto se si pensa che i siti palafitticoli sono concentrati soprattutto sul il versante alpino, in particolare nell’area della Pianura Padana, dove sono presenti grandi laghi ed estese zone paludose che giustificavano questo tipo di strutture. Il sito si trova nell’area del Fucino, una zona inizialmente paludosa, in cui si trovava il lago Fucino (considerato il terzo lago più grande in Italia per estensione). L’intera area fu successivamente bonificata dall’imperatore Claudio tra il 41 e il 52 d.C., ma l’originaria natura paludosa della zona può ben spiegare la costruzione di un villaggio palafitticolo a Celano Paludi.

 

 

Sitografia

aequa.org

il miraggio.com

inabruzzo.it

musei.abruzzo.beniculturali.it

neveappennino.it

treccani.it

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000


LA CHIESA DI SANTO STEFANO DI CARISOLO

A cura di Alessia Zeni

Introduzione: la “Danza macabra” e la “Leggenda di Carlo Magno”

Una delle chiese più importanti che si trovano in Val Rendena[1], nel Tentino occidentale, è sicuramente Santo Stefano nel comune di Carisolo, vicino Pinzolo. Una chiesa conosciuta per il celebre affresco della “Danza macabra” e il racconto della epica spedizione di Carlo Magno attraverso la Val Rendena.

La chiesa di Santo Stefano di Carisolo

Una leggenda racconta che la chiesa di Santo Stefano di Carisolo fu ampliata e sistemata alle porte della Val di Genova[2] per impedire a diavoli e streghe di evadere quando nel 1545, anno di caccia alle streghe nella regione, si diffuse la credenza che i padri della chiesa di Trento avessero relegato questi spiriti maligni nella selvaggia val di Genova, dov'erano rimasti immobilizzati e pietrificati nei grandi massi della valle. Infatti, chi si accinge ad imboccare la strada che da Carisolo conduce alla chiesa di Santo Stefano resterà estasiato dalla località: un colle a strapiombo sul fiume Sarca, all’imbocco della Val Genova, nel Parco Naturale Adamello Brenta, in un luogo privilegiato che permette all’uomo di entrare in contatto diretto con Dio. Un posto affascinante e molto suggestivo che è stato enfatizzato con la sistemazione di tre grandi croci in legno a ricordo del Golgota, quelle di Gesù Cristo e dei due ladroni nel giorno della loro crocifissione. Le croci sono state sistemate all’esterno dell’edificio religioso, sulla vetta dello sperone di roccia in cima a una stretta e ripida scalinata in pietra, nel punto più affascinante e panoramico del sito di Santo Stefano.

Si tratta del tipico edificio religioso dell’architettura alpestre trentina: semplice e robusta, conserva elementi dell’architettura romanica con richiami allo stile gotico. La chiesa è posizionata a oriente con abside rettangolare e campanile di impronta romanica, in pietra a vista, con quattro bifore. All'interno si accede tramite una lunga scalinata e, una volta entrati, ci si trova in un ambiente piccolo e spoglio, ma molto affascinante per i molti affreschi che decorano la chiesa.

Fig. 4 - Santo Stefano di Carisolo, prospetto fianco meridionale e spaccato interno (Chiappani, Trenti 2015).

La “Danza macabra”

Tra i molti affreschi che decorano l’interno e l’esterno della chiesa di Santo Stefano di Carisolo ci si soffermerà sul più importante e conosciuto, ovvero la “Danza macabra” dipinta sul fianco meridionale esterno di Santo Stefano. È opera di Simone II Baschenis, della famiglia di pittori della Val Averara in Lombardia, attivi in Trentino nei secoli XV e XVI. Simone Baschenis avrebbe dipinto la “Danza macabra” e gli affreschi della chiesa intorno al 1519, come indicato da un’iscrizione dipinta nell’intradosso della finestra meridionale.

La “Danza macabra” di Carisolo e quella della vicina chiesa di San Vigilio di Pinzolo sono celebri nel mondo della storia dell’arte per la rarità e la particolarità del soggetto, molto diffuso in Europa e in particolare nell'ambiente dell’oltralpe tardo medievale, ma purtroppo poco conosciuto perché molti esempi sono andati persi nel corso dei secoli. La “Danza macabra” si trovava dipinta soprattutto nelle chiese come monito al fedele, perché conducesse rettamente una vita cristiana ai fini della salvezza dell’anima: infatti questo affresco raffigura una danza fra uomini e scheletri, per ricordare al fedele che la morte colpisce chiunque, ricchi e poveri, vecchi e giovani. La “Danza macabra” di Carisolo è un affresco molto danneggiato, articolato per 12 metri e suddiviso in 20 riquadri. La scena raffigurata è suggestiva e terrificante per lo scheletro della morte che invita 17 personaggi all’ultimo traguardo, mentre gli scheletri musicisti con zampogna e trombe aprono le danze cantando una minacciosa preghiera “Io sonte la morte che porto corona, sonte signora de ogni persona”.

Dopo l’immagine di Cristo risorto, abbigliati secondo il costume dell’epoca e il rango sociale, si presentano in sequenza: il papa, il cardinale, il vescovo, il sacerdote, il monaco, l’imperatore, il re, il gentiluomo (duca), il guerriero, l’avaro, lo zerbinotto (giovane galante), il medico, il fanciullo, la monaca, la gentildonna e la vecchia a fine corteo mentre recita il rosario. Nell’ultimo riquadro l’epilogo della danza macabra: la Morte in sella ad un cavallo bianco alato scocca le frecce su chi è ancora in vita. La chiosa del grande affresco farebbe pensare che la morte ha vinto sulla vita, in realtà è il contrario perché il primo personaggio chiamato dalla Morte è colui che l’ha vinta, ovvero Gesù Cristo Risorto con il messaggio: “O tu che guardi, pensa di costei la me ha morto mi, che son signor di lei”.

La “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”

L’affresco che ha reso celebre la chiesa di Santo Stefano di Carisolo è l’immagine del leggendario passaggio di Carlo Magno attraverso la Val Rendena. Una rappresentazione unica nel suo genere sia per le grandi dimensioni che per il tema trattato, tanto che ad oggi può essere considerato un unicum nel panorama artistico di tutta Europa. La leggenda del viaggio di Carlo Magno in valle Camonica e in Trentino è narrata in nove manoscritti latini, datati fra il XV e XIX sec. e in una settecentesca traduzione italiana. I testi sono quasi tutti uguali e l’unica differenza sostanziale è nei documenti conservati in provincia di Trento, dove vengono raccontate le tappe trentine del viaggio[3].

Fig. 8 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano”.

La storia vuole che Carlo Magno durante la spedizione in Italia nel 774 d.C., chiamato da papa Adriano (772-795 d.C.) contro i longobardi avrebbe attraversato la val Camonica, in Lombardia, e, valicato il Passo del Tonale, sarebbe sceso lungo l’alta Valle di Sole, in Trentino, e risalito verso il passo oggi chiamato Campo Carlo Magno. Giunto in Val Rendena avrebbe convertito al cattolicesimo i signorotti della valle e una volta giunto a Carisolo, alla chiesa di Santo Stefano, avrebbero battezzato la popolazione locale.

 

Questa storia al limite della mitologia è stata diffusa grazie al contributo del pittore Simone II Baschenis con l’affresco dipinto nella chiesa di Santo Stefano di Carisolo, sulla parete interna di nord-ovest. L’opera sarebbe stata eseguita tra il 1534 e il 1555 per ricordare il passaggio di Carlo Magno e le numerose indulgenze concesse dal Papa e dai sette vescovi al seguito del sovrano. In una cornice architettonica dipinta, l’Imperatore del Sacro Romano Impero con la sua corte assiste al battesimo di un catecumeno. Il sacramento è amministrato da papa Urbano accompagnato da sette vescovi, sistemati al centro del dipinto nel presbiterio di una cappella. Carlo Magno è dipinto sulla sinistra in primo piano, abbigliato alla moda rinascimentale, alla testa della corte; sulla destra invece è raffigurato un gruppo di persone che attende di ricevere il battesimo. Nell’angolo destro, seduto in primo piano, davanti alla folla, un giovane in tunica bianca che si sfila i pantaloni per prepararsi alla cerimonia; una figura emblematica che è stata identificata nell’autoritratto del pittore, Simone II Baschenis. Infine particolare attenzione meritano il paesaggio e le molte piante dipinte sul terreno in primo piano, ai piedi dei personaggi: lo sfondo alpino delle valli attraversate da Carlo Magno, con varie specie di fiori di montagna dell’ambiente rendenese (il cardo, il ranuncolo giallo, i denti di leone, il garofano selvatico e anche un ciclamino).

Fig. 9 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, la “Leggenda di Carlo Magno”.

Ma l’aspetto più significativo dell’affresco sta nella lunga scritta in volgare antico dipinta sotto la “Leggenda di Carlo Magno”, che narra le vicende del condottiero franco alla testa del suo esercito partito da Bergamo verso il Trentino. Il testo è conosciuto come il “Privilegio della Chiesa di Santo Stefano di Rendena”, e ricorda le numerose indulgenze concesse alle varie chiese e il frequente riferimento agli eretici, chiamati pagani e giudei, da combattere con ogni mezzo. Quest’ultimo aspetto segnala che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” sono stati dipinti per la lotta contro le eresie e per legittimare la concessione delle indulgenze, messa in discussione dalla riforma protestante di Martin Lutero. Dunque, l’intento di chi aveva commissionato l’opera sarebbe stato quello di riaffermare l’autorità della chiesa ed elevare Carlo Magno a paladino della fede cattolica.

Fig. 10 - Santo Stefano di Carisolo, interno, parete occidentale, il “Privilegio di Santo Stefano”.

Per concludere, bisogna segnalare che la “Leggenda di Carlo Magno” e il “Privilegio di Santo Stefano” di Carisolo presentano delle incongruenze: al tempo della spedizione di Carlo Magno in Italia (774 d.C.) non è documentata una chiesa all’imbocco della Val di Genova e il papa al soglio pontificio era Adriano (772-795) e non Urbano, per cui stabilire la veridicità di questa leggenda è ad oggi molto difficile.

Una cosa però rimane certa: la “Leggenda di Carlo Magno” e la “Danza macabra” della chiesa di Santo Stefano di Carisolo rimangono degli affreschi unici nel loro genere e quindi importanti nelle vicende della storia e dell’arte italiana, ma anche europea.

 

Note

[1] La Val Rendena si trova nel Trentino occidentale ed è conosciuta per gli impianti sciistici di Pinzolo e Madonna di Campiglio.

[2] La val di Genova è una valle ai piedi dell’Adamello e la si raggiunge dal paese di Carisolo, in Val Rendena. È un’area naturalistica protetta dal Parco Naturale Adamello Brenta ed è conosciuta per la rinomata cascata di Nardis.

[3] Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013, p. 14.

 

BIBLIOGRAFIA:

Chiappani Fulvia, Trenti Graziella, Santo Stefano in Carisolo. Storia arte fede, Tione di Trento, Antolini Tipografia, 2015

La Chiesa di S. Stefano a Carisolo, lezione dell’architetto Antonello Adamoli (curatore dei restauri)

Azzoni Giorgio, Bondioni Gianfranco, Zallot Virtus, La via di Carlo Magno in Valle Camonica e Trentino. Un itinerario di turismo culturale da Bergamo in Val Rendena seguendo l'antica leggenda, Brescia, Grafo, 2013


LA FONTANA DEL ROSELLO A SASSARI

A cura di Alice Oggiano

Cenni storici sulla fontana del Rosello

La fontana del Rosello, simbolo indiscusso della città sarda di Sassari e nota attualmente ai residenti come “funtana di Ruseddu”, venne fatta edificare nella valle del Rosello dinnanzi all’omonima porta. Prima della sua monumentalizzazione, avvenuta in età moderna, vi era la sorgente “di Gurusele”, conosciuta sin dall’età medievale e compresa all’interno delle antiche mura cittadine, ancora oggi parzialmente visibili. Lo straordinario sito trova tuttavia le sue radici in epoche ben più antiche. In età romana infatti l’acqua della fonte confluiva nell’acquedotto costruito per l’approvvigionamento di Porto Torres, fondata da Giulio Cesare nel 46 a.C e anticamente conosciuta come colonia Turris Libisonis. Alla fine del XVI secolo il comune sassarese affidò l’erezione della fonte a due noti artigiani genovesi, che le diedero forme tardo-rinascimentali. I lavori si conclusero tra il 1605 e il 1606.

Il complesso architettonico è dato dalla sovrapposizione di due parallelepipedi elegantemente rivestiti da motivi rettangolari dal colore verde e bianco che conferiscono un’apparente rigidità, controbilanciata tuttavia efficacemente dai due archi fasciati nascenti da angoli impreziositi con volute, culminanti in una statua equestre. La statua, realizzata anch’essa in marmo, ritrae il martire turritano San Gavino, tradizionalmente noto come protettore della città sassarese e di Porto Torres. È interessante, a tal proposito, notare come la presenza della sede vescovile in età altomedievale insistesse su quest’ultimo centro, fattore non secondario la progressiva ruralizzazione alla quale le città sarde andarono incontro. È utile inoltre, per chiarire i rapporti insiti tra i due centri, evidenziare come “Torres” fosse il porto prediletto dai sassaresi per l’importazione ed esportazione delle merci, e perciò fondamentale per lo sviluppo di Sassari e relativi ceti. San Gavino si eleva baldanzoso al di sopra di un podio anch’esso marmoreo, effigiato con lo stemma in rilievo della torre.

Altre torri merlate si ergono sul parallelepipedo maggiore, riportando le insegne della città sarda e della corona Aragonese, che impose progressivamente sulla Sardegna la propria egemonia a partire dal XIV secolo. Tra i due solidi si interpone una cornice sulla quale venne incisa per tre lati l’iscrizione celebratrice dei lavori svolti per la realizzazione dell’opera sotto Filippo III, sul quarto un motivo decorativo in fogliame. Il blocco maggiore presenta dodici marmoree bocche leonine cosiddette “cantaros”, inquadrate entro sagome squisitamente geometriche, dalle quali sorga sempre fresca ed abbondante acqua.

A conferire ancor più pregio artistico sono le quattro straordinarie statue, personificazioni delle stagioni, poste agli spigoli della struttura inferiore. Esse simboleggiano lo scorrere del tempo ed il rinnovarsi della speranza e della vita in seguito ad un lungo inverno, portatore di intemperie e del deperimento della carne. Ciò ritrova iconograficamente un riscontro, nel primo caso, nella Primavera e nell'Estate: una fanciulla nel pieno dei suoi anni sorregge una ghirlanda di fiori, ed una donna già più matura stringe tenacemente tra le braccia delle spighe, frutto di buon raccolto e prosperità. L’Autunno è rappresentato da un coraggioso Ercole, immortalato mentre si trova a sorreggere con il braccio destro la pelliccia del leone, con il sinistro un grappolo di vite che accosta al capo facendolo pendere in un silenzioso movimento. A chiudere il cerchio della vita l’Inverno, facilmente individuabile nell'anziano assorto in un sonno profondo, lontano dalla mondanità terrena.

Purtroppo, tre delle quattro statue andarono distrutte durante i moti antifeudali, verificatisi nella regione nel 1795. La loro presenza venne ripristinata da fedeli copie nella metà del ‘800, mentre l’Estate -unica superstite- fu posta per ragioni di sicurezza sottochiave presso Palazzo Ducale.

Oltre alle sculture finora menzionate, è di gran fascino quella della divinità fluviale posta a lato sud, al di sopra dell’iscrizione, in posizione supina e volta verso l’osservatore. Scrutandola, pare d’esser avvolti da un’aurea classicheggiante, resa ancor più esplicita dal panneggio, dalla ritrattistica e dalla posizione quasi “simposiaca” assunta dal dio.

La fontana del Rosello, per la prestigiosa valenza artistica nonostante i frequenti interventi che ne modificarono l’impianto originale, venne selezionata nel 1975 da Eros Donnini per far parte della serie di francobolli “Fontane d’Italia”, ideata da Poste Italiane e volta a rappresentare le ventuno regioni italiane, celebrandone il patrimonio culturale di ciascuna di esse.

Alimentato dalla fontana e posto accanto ad essa, vi è l’antico lavatoio (documentato sin dalla fine de 1200): costituito da due lunghe vasche longitudinali affiancate, verrà dotato nel corso del ‘900 di una copertura a capriate lignee. L’impianto antico è attualmente noto grazie ad un’incisione realizzata per mano di William Cook nel 1849. Qui le donne sarde si sono recate per generazioni a lavare i panni, abbeverarsi, far il bagno ai propri figli. La fontana, ricca di simbolismo e custode di tradizioni divenute ormai secolari, collega idealmente passato e presente, immersa in un’atmosfera suggestiva nella quale pare che a scorrere sia soltanto l’acqua: il tempo è cristallizzato.

 

Attualmente è possibile visitare la fontana, per la quale organizzano visite guidate in determinate fasce orarie previa prenotazione.

 

Bibliografia

La grande enciclopedia della Sardegna, Francesco Floris - Sardegna

Sitografia


PALAZZO GIO CARLO BRIGNOLE A GENOVA

A cura di Fabio D'Ovidio

Il palazzo Gio Carlo Brignole venne edificato dall’architetto Bartolomeo Bianco al termine degli anni ’20 del XVII secolo per la committenza di Giovan Battista Brignole di fronte ad un palazzo di proprietà della famiglia Grimaldi, abitato all’epoca da Gerolamo Grimaldi; con questi Giovan Battista Brignole stipulò un accordo affinché il futuro edificio non superasse in altezza Palazzo della Meridiana, nome con cui è nota questa residenza Grimaldi.

Nel corso degli anni ’70 dello stesso secolo, Gio Carlo Brignole – figlio di Giovanni Battista – avviò i primi grandi rinnovamenti estetici: commissionò a Pietro Antonio Corradi una revisione architettonica, e allo scultore genovese Filippo Parodi un ciclo scultoreo per conferire magnificenza al portale d’ingresso. Questo era – ed è tuttora – fiancheggiato da due possenti Telamoni quasi a proteggere coloro che entrano nel palazzo; al di sopra dell’architrave stava una coppia di putti con in mezzo lo stemma araldico della famiglia Brignole, oggi perduto a causa di modifiche all’intera architettura del palazzo e al successivo passaggio di proprietà, avvenuto nel 1854 a favore della famiglia Durazzo.

Questa famiglia genovese, che ancora oggi è proprietaria del palazzo, commissionò al pittore Giuaseppe Isola (1808-1893) gli affreschi del sontuoso atrio d’ingresso, realizzati secondo un linguaggio pittorico meramente accademico.

La volta ribassata, posta a copertura di questa prima sezione dell’atrio è stata pensata per omaggiare non solo alcuni viri illustres liguri –  ai lati, ma anche la volontà di indipendenza dell’ormai defunta Repubblica di Genova – al centro del soffitto. Tra gli uomini qui dipinti si possono citare Guglielmo Embriaco (1040-1102), eroe genovese durante la Prima Crociata (1096-1099) che stando agli annali cittadini fu il primo ad entrare a Gerusalemme, mentre secondo il poeta Torquato Tasso si distinse tra i vari cavalieri presenti durante la presa della Città Santa per le doti ingegneristiche. A seguire Caffaro di Rustico da Caschifellone (1080-1164) autore degli Annali, fonte storica principale per la ricostruzione degli eventi che segnarono la nascita e i primi anni di vita del Comune di Genova. Proseguendo in ordine cronologico sono presenti Simone Boccanegra, che nel 1339 istituì la carica dogale; il famosissimo navigatore Cristoforo Colombo (1451-1506); il pontefice Giulio II (1443-1513) che a Roma commissionò a Michelangelo la decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina, mentre a Raffaello  affidò il cantiere delle Stanze vaticane; Andrea Doria (1466-1560); e da ultimo si riconosce il massimo pittore genovese di secondo Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), i cui capolavori sono conservati nei musei cittadini, e nelle volte dei saloni dei palazzi Rolli e delle ville aristocratiche fuori Genova.

Al centro del soffitto invece si trova la scena dedicata ad Ottaviano fregoso che fa distruggere la fortezza della Briglia, roccaforte francese costruita per volontà di Re Luigi XII al tempo della dedizione francese, che fu impiegata come avamposto di controllo politico-militare di Genova diventando così un segno tangibile dell’oppressione straniera, con un richiamo al periodo storico coevo al pittore: nel 1849, i bersaglieri guidati da Alfonso La Marmora avevano represso nel sangue un’insurrezione indipendentista contro il Regno di Sardegna [2].

La seconda parte dell’atrio è coperta da una serie di volte a crociera tutte decorate con il motivo della grottesca, che si ricollega così stilisticamente alle decorazioni dei palazzi genovesi di pieno XVI secolo, realizzate da Federico Leonardi, pittore specializzato in questo motivo ornamentale.

Affreschi del primo piano nobile di palazzo Gio Carlo Brignole

Della grande decorazione ad affresco citata nelle guide cittadine di XVIII e XIX secolo restano oggi le scene mitologiche realizzate da Gregorio e Lorenzo De Ferrari (1647-1726; 1680-1744). Eseguiti sui soffitti dei quattro salottini che circondano il grande salone centrale, gli affreschi sono ascrivibili alla piena maturità di Gregorio e al momento in cui Lorenzo si fece interprete di un linguaggio figurativo estremamente elaborato, soprattutto nella finzione pittorica. Nonostante si sia privi di documenti d’archivio che attestino l’identità del committente e gli anni in cui i pittori si occuparono di tale cantiere, gli studiosi del sito hanno ipotizzato di collocare cronologicamente i lavori entro gli anni ’20 del Settecento, identificando il committente nella figura di Giovanni Carlo Brignole junior, che diventò poi senatore della Serenissima Repubblica di Genova nel 1721.

Dei quattro salotti sopracitati, tre si devono attribuire alla mano del De Ferrari più anziano. Nello specifico, i due vani che si aprono su Strada Nuova mantengono una decorazione perfettamente conservata non solo sotto il profilo dei colori ma anche sotto quello ideologico conferitogli da Gregorio stesso. Leggermente differente è invece lo stato conservativo del salotto dedicato alla Primavera, poiché a causa di infiltrazioni è stato oggetto di ridipinture di qualità non eccezionale nel XIX secolo; tuttavia la decorazione risulta ancora leggibile e si pone in un dialogo ideale con le altre scene.

Seguendo il tradizionale percorso di visita istituito durante i weekend dedicati ai Rolli Days, la visita del piano nobile ha inizio in un salotto le cui decorazioni si datano agli anni centrali del XVIII secolo: sia le pareti che la volta sono dipinte di verde, a conferire un tocco di brillantezza sono gli inserti in legno dorato posti nelle zone di congiunzione tra i muri perimetrali e il soffitto; ad adornare lo spazio delle pareti sono alcuni dei quadri che costituiscono parte dell’ormai dispersa quadreria Brignole, tra cui si possono osservare due ritratti di esponenti della famiglia – la loro identità ad oggi è ignota – e un’Adorazione dei Pastori di Francesco Bassano e allievi (1549-1592).

A questa piccola stanza segue il cosiddetto salotto di Prometeo, opera magistrale di Lorenzo De Ferrari, dipinto negli anni ’30 del XVIII secolo. Raffigurata al centro della volta, dentro una cornice mistilinea prospetticamente aggettante, la scena mostra Prometeo, abbigliato con vesti sgargianti, che con la fiamma del fuoco rubato agli dei infonde la vita ad una statua che sarà l’Uomo. A sovrintendere l’intero evento sta Minerva, dea protettrice dell’ingegno umano capace di domare e superare le avversità, che nella scena è personificato e simboleggiato dal titano stesso. La figura di Prometeo viene dipinta dall’artista con un particolare avvitamento; come se lui stesso fosse una lingua di quella fiamma che a contatto con la pietra marmorea ne trasforma il freddo grigio in rosa carne. Dando le spalle alla finestra che si trova nella stanza, il visitatore può osservare la personificazione del Valore: un giovane ragazzo alato, appoggiato al cornicione, con addosso la leonté erculea e un braccio teso nell’atto di porgere una corona di alloro. Dalla parte opposta dell’illusoria cornice, si trova una seconda figura maschile, questa volta stante con le gambe leggermente divaricate, che regge un globo armillare e un compasso: è l’allegoria dell’Ingegno. Questi due aspetti della mente umana, qui rappresentati dai due giovani, connotano come eccezionale il gesto di Prometeo, che pagherà cara la sua insubordinazione con una punizione esemplare, qui non raffigurata: incatenato ad un monte, un’aquila in eterno gli mangerà il fegato, che ogni notte si rigenererà per poter così ripetere quotidianamente il castigo.

L’intera scena vuole omaggiare attraverso il ricorso all’allegoria il ruolo e la figura del self-made man incarnato dalla famiglia Brignole, i cui membri furono ammessi all’interno dell’aristocrazia genovese non per lignaggio e sangue ma per merito, qualità che concerne anche il rischio: i loro esponenti sono quindi tutti novelli Prometeo, capaci di modificare il destino della città di Genova, così come la figura mitologica protagonista della scena ha influito sulla storia dell’umanità.

Il salotto contiguo, che si affaccia su via Cairoli (già Strada Nuovissima), è quello della Primavera, realizzato da Gregorio De Ferrari nella sua maturità artistica, collocabile tra il primo e il secondo decennio del Settecento. La scena presenta un impianto prospettico molto meno illusionistico rispetto a quello del salotto precedente. Al centro dell’intera scena si può osservare la personificazione dell’Abbondanza, una giovane ragazza bionda adagiata su una nuvola che tiene sotto il braccio la cornucopia – suo tipico attributo – da cui si intravede ogni genere di ricchezze, in particolare monete d’oro, a simboleggiare la potenza economica ottenuta con il duro lavoro dalla famiglia Brignole. In una sezione meno centrale della volta è presente una seconda giovane donna, in questo caso con i capelli castani, raffigurata con una corona di fiori a cingerle il capo, adagiata anch’essa come l’Abbondanza su una nuvola, mentre con le mani cinge un festone floreale che le passa dietro la schiena. A completare l’intera scena troviamo alcuni putti di pieno gusto barocco disposti lungo il cornicione, intenti a giocare con differenti animali: tra i vari rappresentati – soprattutto animali da compagnia – compare il pavone, animale esotico (dall’elevato valore economico), che nell'antica simbologia cristiana rappresentava la rinascita e la vita eterna.

Sulle pareti di questo raffinato salottino trovano posto alcuni quadri, tra questi si possono notare due paesaggi realizzati da due differenti pittori olandesi secenteschi, una Guarigione di Tobia e un Eracle e Onfale.

A concludere l’intero tour del palazzo durante i weekend dedicati all’evento è la visita del grande salone di rappresentanza; sotto il profilo artistico questo presenta sulle pareti più lunghe due grandi arazzi risalenti al XV secolo circa, la cui cromia risulta alterata (in particolare i rossi hanno virato ad un marrone pieno, mentre il rosa degli incarnati oggi risulta molto sbiadito e tendente al beige). Al di là di ciò le due scene – tratte dalla storia antica – risultano nel complesso leggibilissime. L’arazzo della parete destra (dando il volto verso Strada Nuova) raffigura Cambise intento ad uccidere il bue Api; secondo il mito e la tradizione storica, il re persiano fu colpito da una particolare malattia mentale che lo portò appunto a sacrificare il sacro animale; sulla parete opposta invece si può osservare l’incontro tra Cesare e Cleopatra. All’interno di questo ampio salone sono stati poi collocati i busti di Giovanni Battista Brignole di Giacomo Antonio Ponzanelli (1654-1735); di Giovanni Luca Durazzo, opera di Filippo Parodi (1630-1702); di Eugenio Durazzo, di Francesco Maria Schiaffino (1688-1783; di Marcello Durazzo ad opera di Nicolò Traverso (1745-1823). I busti degli esponenti della famiglia erano conservati in quello che è oggi noto come Palazzo Reale, proprietà dei Durazzo sino a quando i Savoia – dopo l’annessione dell’ex-Repubblica di Genova al Regno di Sardegna – non lo acquistarono per farne il loro palazzo ufficiale durante i periodi di residenza nel capoluogo ligure; così la famiglia genovese, tutt’ora proprietaria del palazzo sito in piazza della Meridiana, collocò questi tre busti nel salone del piano nobile.

 

Note

[2] Con il Congresso di Vienna (1° novembre 1814 - 9 giugno 1815), la Repubblica di Genova – o come era meglio nota al tempo, Repubblica Ligure – non riottenne la sua indipendenza in quanto fu annessa direttamente ai territori governati da casa Savoia che da secoli cercavano uno sbocco sul mare, ottenendo così uno dei principali porti del Mediterraneo.

 

Bibliografia

Alizeri, Guida illustrativa della città di Genova, Genova 1845

Colmuto, Palazzo Brignole-Durazzo, in Genova, Strada Nuova, a cura di Vagnetti, Vitali e Ghianda, Genova 1967

Gavazza, Lorenzo De Ferrari, Milano 1965

Gavazza, Lo spazio dipinto. L’affresco genovese del ‘600, Genova 1989

Poleggi, Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1530-1664, Torino 1998

Gavazza, L. Magnani, Pittura e decorazione a Genova in Liguria nel Settecento, 2000

Ciotta (a cura di), Genova. Strada Nuovissima. Impianto urbano e architetture, Genova 2005

Franzone, G. Montanari, Palazzo Brignole Durazzo alla Meridiana in Genova, 2018


LA CHIESA DEI MORTICELLI A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio
Fig. 1 - Chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti.

Introduzione e storia della nascita della chiesa dei Morticelli

Passeggiando nel centro storico di Salerno, in Largo Plebiscito e nei pressi del Museo Diocesano, è possibile imbattersi in un particolare edificio, purtroppo quasi sempre chiuso e dall'aspetto poco curato, che, tuttavia, ad un sguardo più attento, è certamente capace di suscitare curiosità, interesse e forse anche un po' di timore iniziale per la presenza di due scheletri con le falci posti ai lati del portale centrale d’ingresso e per il soprannome con cui lo stesso edificio è noto ai salernitani, ossia chiesa dei Morticelli.

Si tratta della chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti, in origine dedicata ai Santi Martiri Sebastiano, Cosma e Damiano, che sorge a ridosso delle antiche mura orientali della città, nei pressi dell’antica Porta Rotese, abbattuta nell’800, e le cui prime testimonianze sembrerebbero risalire al 994, in base ad un documento del Codice Diplomatico Cavese.

Tuttavia le prime notizie certe si hanno dal 1530, anno in cui la chiesa viene edificata o ristrutturata ad opera dell’architetto salernitano Antonio da Ogliara, come ex-voto della cittadinanza scampata alla peste che negli anni precedenti aveva decimato la popolazione salernitana. Secondo la leggenda, nel Seicento, sotto la chiesa furono seppelliti i cadaveri dei salernitani colpiti dalla peste, da cui il soprannome attribuitole, “Morticelli”.

Molto interessante è il suo impianto architettonico, di tipo tardo - rinascimentale, e la pianta ottagonale, caratteristica comune ad altre tre chiese presenti sempre nel centro storico salernitano, ovvero la chiesa di Sant’Anna al Porto, nei pressi del Teatro “Giuseppe Verdi”, la cappella di San Filippo Neri, presso l’ex convento dei Cappuccini, e la chiesa di S. Salvatore de Fondaco, sita lungo via Mercanti.

Monsignor Arturo Carucci, appassionato studioso della storia salernitana, ha elaborato un'ipotesi secondo cui la chiesa avrebbe le fattezze di un battistero paleocristiano tipico del IV - V sec. d.C., sia per la sua pianta ottagona, in quanto l’otto, nella simbologia cristiana, rinvia al tema della resurrezione, sia per la presenza di un vano sottostante il pavimento della chiesa, profondo circa due metri, al quale si accede tramite una scala con sette gradini, che doveva essere destinato al battesimo dei neofiti, poi adibito a luogo di sepoltura.

Nel 1615 la chiesa diventa sede dalla Confraternita del Monte dei Morti, legata alla devozione per le anime del purgatorio e, dunque, luogo deputato allo svolgimento delle messe in suffragio dei defunti, subendo, peraltro, nello stesso periodo, numerose modifiche.

Fig. 2 - Portale d'ingresso.

La chiesa dei Morticelli: descrizione degli esterni

Di originario resta l’impianto ottagonale della chiesa e la semplice cornice modanata cinquecentesca che inquadra il portale d’ingresso.

Quest’ultimo è stato arricchito dalle colonne laterali scanalate con i capitelli corinzi sormontate da un timpano curvilineo spezzato, caratteristica di molte chiese partenopee del XVII secolo.

Le colonne, a loro volta, sono affiancate da bassorilievi marmorei raffiguranti scheletri con la falce, mentre i loro basamenti ritraggono teschi e clessidre che rimandano ad una profonda riflessione sul tema del tempo, della morte e della caducità della vita, una sorta di monito richiamato anche negli stucchi delle pareti interne con la raffigurazione di teschi.

La chiesa dei Morticelli: descrizione degli interni

Se l’esterno si contraddistingue, sostanzialmente, per l’equilibro e la linearità delle sue forme, gli interni dovevano costituire una piacevole sorpresa.

Nonostante siano stati privati delle pale d’altare e di tele del ‘600 che impreziosivano gli ambienti (di cui restano tracce nelle schede di catalogazione della Soprintendenza), colpiscono la bellezza delle finiture, la policromia dei marmi del pavimento e degli altari e la ricchezza delle numerose decorazioni in stucco bianche e dorate. Il pavimento, risalente al XVII secolo e lungo il quale si distribuiscono una serie di lapidi commemorative, è composto da marmi e maioliche che ripetono lo schema geometrico della cupola a ombrello, a otto spicchi, sormontata da una lanterna.

Esso presenta, infatti, la divisione in otto spicchi raccordati in una rosa centrale posta in asse alla lanterna. La rosa è a sua volta circondata da un anello di marmo bianco lungo il quale si distribuiscono elementi decorativi romboidali.

Nella parte superiore della parete est è posizionata una grande lapide, datata 1623, che documenta la concessione di Papa Gregorio XV di una proroga di cinque anni per le celebrazioni di messe in suffragio dei defunti. Ai suoi lati sono posti quattro stemmi, dei quali i due di sinistra sono identificabili con quelli di Papa Gregorio XV e del Cardinale Lucio Sanseverino. Un altro stemma, simbolo della città di Salerno, è posto sopra l’arco dell’altare maggiore.

 

Al XVIII secolo risalgono, invece, i quattro altari minori e quello maggiore, rivestiti da marmi policromi ed inquadrati da grosse nicchie scavate nella muratura.
Ai lati dell’altare maggiore, due portali incorniciati in pietra conducono ad un piccolo ambiente e alla sagrestia a pianta quadrata con volta a vela.
Negli anni ’50 la chiesa viene concessa da monsignor Demetrio Moscato alla confraternita di S. Bernardino come sede delle loro riunioni; la confraternita esegue una serie di lavori di restauro alla struttura, che versava in pessime condizioni, soprattutto a causa dello stato di abbandono e dell’umidità.
In particolare sono da segnalare i lavori di rafforzamento nelle porte, o rivestite con pannelli di metallo decorati in ottone (la principale), o irrobustite inserendo una porta interna formata da una struttura in ferro munita di vetrate colorate con scene sacre, mentre davanti alla porta della sagrestia è stato posizionato un cancello. All'esterno il quadro della Madonna con Bambino, originariamente presente, è stato sostituito con un’effigie di San Bernardino su piastrelle, ripresa da un dipinto raffigurante lo stesso soggetto, eseguito dal pittore salernitano Giuseppe Avallone nel 1923.

Fig. 11 - Porta d’ingresso con vetrate colorate.

Stato attuale

Nel 1980 la chiesa viene dichiarata inagibile a causa del terremoto, pur restando aperta fino al 1986. Sottoposta a restauro conservativo, è riaperta al pubblico, ormai sconsacrata, nel 2011, per poi essere nuovamente richiusa.
A partire dal 2018, grazie all'opera del gruppo BLAM, collettivo di architetti, artisti, fotografi, appassionati di storia salernitana e studenti, in collaborazione con il DiARC - Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II- il Comune di Salerno ha avviato un progetto per la riqualificazione e la valorizzazione degli spazi della chiesa dei Morticelli. La ex chiesa, ora soprannominata spazio SSMMOLL (San Sebastiano del Monte dei Morti Living Lab), diventa luogo di condivisione di eventi, di laboratori creativi e di aggregazione sociale (performance artistiche e teatrali, mostre, attività per i bambini, aperture speciali con visite guidate, proiezioni filmiche nella piazzetta antistante) con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico, cittadini e turisti, e di condurlo alla riscoperta di un pezzo di storia e di arte della città per troppo tempo lasciati nell'oblio.
Dal 2020 la ex chiesa dei Morticelli è candidata tra i luoghi del cuore FAI.

 

Sitografia

www.academia.edu

Oliva V., La chiesa del Monte dei Morti, un esempio di edilizia rinascimentale a Salerno

www.arcansalerno.com

www.blamteam.com

www.salernodavedere.it

www.salernonews24.com

Magliano D., La rinascita della Chiesa di San Sebastiano del Monte dei Morti


IL SITO ARCHEOLOGICO DI ROCA VECCHIA

A cura di Matilde Lanciani

INTRODUZIONE: DALLA CIVILTÀ MESSAPICA ALL'IMPIANTO URBANISTICO MEDIEVALE

Il sito archeologico di Roca Vecchia (fig.1) in Puglia è uno dei più importanti dell’intero bacino del Mediterraneo. Esso comprende gli scavi concentrati nella cosiddetta “località Castello”, piccola penisola circondata dai resti della sua fortificazione tardo-medievale, caratterizzata dalla stratificazione di reperti risalenti all’occupazione umana durante 3500 anni, esattamente dal II millennio a.C. fino alla metà del XVI secolo d.C.

Fig. 1

È da sottolineare la presenza nel sito di Roca Vecchia delle grotte della poesia (fig.2); infatti una di queste, scoperta a seguito degli studi del prof. Cosimo Pagliara, iniziati nel 1983 e proseguiti grazie all’Università del Salento, è stata indicata come grotta-santuario sulle cui pareti è conservato il più ricco repertorio di incisioni di età pre-protostorica e testi votivi in lingua latina e messapica (IV-II secolo a.C.) volti a celebrare la divinità locale “Thaotor Andirahas”. Nella zona adiacente alle grotte si possono osservare i resti di un piccolo insediamento rupestre del X-IX sec. a.C. con percorsi stradali della fase messapica, pozzi, basamenti di edifici e numerose tombe che è stato possibile studiare ed indagare a fondo dal ‘900 grazie al Museo Provinciale e alla Soprintendenza.

Fig. 2

La monumentale porta (fig.3,4) che doveva dare accesso al sito, risalente all’età del Bronzo Medio, si ergeva in mezzo ad una serie di passaggi minori, detti postierle: semplici corridoi di non più di un metro e mezzo, le cui entrate erano caratterizzate da contrafforti e torri. Prima dell’incendio che la distrusse nel XIV sec. a.C., la porta era alta almeno 8 metri e larga 25. Per entrare si doveva attraversare il cosiddetto Corridoio degli Ortostati, costellato da grandi lastre di pietra conficcate verticalmente sulla base del muro accostato ad una possente torre semicircolare. Percorrendo il corridoio si arrivava ad un portone in legno di quercia attraverso il quale si accedeva ad un ulteriore corridoio di 2,5 metri di larghezza, ai lati del quale erano una serie di vani accessori e che conduceva all’interno di due maestose torri contrapposte, oltre le quali si raggiungeva l’abitato.

Oggetto di numerosi studi del sito di Roca Vecchia è stata la postierla B, uno dei corridoi meglio conservati, posizionata a Sud della Porta Monumentale e delimitata - come tutte le altre - da rettilinei murari paralleli tra loro, realizzati in pietra locale sovrapposta a secco e legata con tufina (calcarenite sbriciolata) ed argilla. Nelle pareti murarie si aprono una serie di buchi circolari disposti ad intervalli regolari di circa 1 metro dove sono stati rinvenuti i resti carbonizzati dei pali di sostegno. Queste travature verticali avevano duplice funzione strutturale: per le murature retrostanti e per le strutture di copertura. Al momento del rinvenimento, durante gli scavi, le postierle erano colmate dalle porzioni di murature superiori crollate in seguito al violento incendio che conseguì alla battaglia databile intorno alla fine del Bronzo Medio (XIV sec. a.C.). A terra, nei cunicoli, c’erano resti di pasti, contenitori ceramici e manufatti di bronzo. In particolare nella postierla C (fig.5), similmente a Pompei, sono stati ritrovati gli scheletri di 7 individui in connessione anatomica di diversa età (probabilmente una famiglia con dei bambini) morti per soffocamento a causa dell’incendio, uno di loro con le mani alla gola nella tipica condizione di asfissia e gli altri con gli arti protesi verso l’alto per proteggersi probabilmente dalla caduta delle strutture incendiate soprastanti. Ciò è testimoniato da un’illustrazione che costituisce un’accurata ricostruzione storica ad opera dell’artista Karol Schauer (fig.6).

Durante l’epoca del Bronzo Recente (XIII-XII sec. a.C.) furono fatte una serie di opere di ricostruzione delle fortificazioni protostoriche a seguito di questo tragico evento, come ad esempio le murature pseudo-isodome “a scarpa” o “a gradoni” disposte lungo filari regolari, impostate su terreni di riporto con accumuli di pietrame derivati dalle rovine della fase abitativa precedente. Queste murature, conservate solo per un’altezza di 3 metri e inclinate da Ovest verso Est, erano realizzate con blocchi di calcarenite scavati e squadrati coperti da uno spesso strato di tufina. Nella seconda fase di ricostruzione invece troviamo una muratura verticale con materiali simili. Queste tecniche sembrano essere derivate in particolare da modelli di origine egea come quelli della civiltà palaziale micenea (XIV-XIII a.C.) come dimostrano i reperti di ceramiche importate nel Tardo Elladico IIIB-IIIC Medio.

La successiva fase del Bronzo Finale (XII-XI secolo a.C.) vide il costituirsi di una solida palizzata lignea di contenimento, inserita in uno zoccolo basso di muratura a secco, all’interno delle mura. Fu eretta inoltre una serie di strutture a capanna nella rete urbanistica stradale, andata poi distrutta, anche questa volta, a causa di un incendio. La più importante di queste strutture, di cui è possibile osservare la ricostruzione virtuale (fig.7), è stata indicata essere quella nel settore Nord con una pianta quadrangolare allungata di 17 x 43 metri che fungeva da luogo di culto e di sacrificio animale. Lo spazio interno è suddiviso in navate longitudinali scandite da pali verticali ad intervalli di 2,5 o 3 metri. Al momento degli scavi tutta la struttura lignea era crollata e si trovava sotto uno spesso strato di macerie, ma fu ugualmente possibile notare una serie di oggetti di carattere sacro: “tavole per offerte”, idoletti antropomorfi e manufatti vari in bronzo e oro, insieme ad altri reperti di uso quotidiano come ad esempio vasellame in ceramica d’impasto e figulina dipinta. C’erano, inoltre, nel sito di Roca Vecchia, diverse aree di cottura con forni in argilla e piastre da focolare.

Fig. 7

Oltre alla civiltà messapica si trovano tracce della cittadella medievale di Roca, edificata secondo un modello militare databile intorno al XIV sec. d.C., voluta da Gualtieri VI di Brienne conte di Lecce ed erede del ruolo di fondatore di questo nucleo preesistente dal ‘200, creato dai suoi avi. Come disposizione urbanistica il conte attinse dagli schemi delle “bastides” francesi per nobilitare le origini della sua dinastia. La pianta presenta una maglia stradale ortogonale con isolati rettangolari di lato corto uguale a 22 metri, con le mura costruite direttamente su quelle protostoriche - di cui il lato ovest è andato distrutto completamente. Dentro le aree abitative sono una serie di ambienti e vani con diverse funzioni come la cucina, il cortile, la latrina ecc. (fig.8). Alla fine del XV secolo la città fu parzialmente ristrutturata, come testimoniato dal notevole ampliamento della chiesa e dalla costruzione del castello.

Fig. 8

Gli studi di questa fase hanno portato alla luce un secondo edificio di culto (oltre alla già citata “capanna sacra”), ossia la chiesa greca medievale che è posta 25 metri ad est dalla chiesa di rito latino. La pianta rettangolare ha l’asse maggiore orientato NO/SE e risulta essere divisa in due ambienti: quello maggiore con le sepolture (fig.9) e quello minore con lastricato pavimentale e due podi quadrangolari ai due estremi della parete meridionale, di cui quello ad est conserva un cippo basso tronco-piramidale ed una seduta litica poggiata alla parete. Lo spazio tra i due elementi costituisce l’accesso all’ambiente dell’altare in blocchi squadrati, mentre le sedute si ritrovano anche lungo le pareti laterali in forma continua e sorrette da elementi verticali. La chiesa aveva una decorazione interna ad affresco policromo ed il tetto in travi di legno con copertura a coppi. È interessante rilevare come l’edificio sia stato costruito sui resti di un insediamento rupestre e quindi abbia forse assunto la funzione di dare continuità storica al culto e al rito sacro. Fuori dalla chiesa erano poste le sepolture, spesso di neonati non battezzati, poiché l’acqua piovana scivolando sul tetto dell’edificio e bagnandone le tombe, simboleggiava il non ricevuto sacramento ed aiutava il defunto nel passaggio al Paradiso.

Fig. 9

Da questa conformazione risulta un sito ricchissimo di storia e di civiltà che si è riuscito a conservare e a dimostrare come talvolta la vita degli antichi non sia così distante dalle abitudini contemporanee e dai valori che legano la società. Alma Tadema, pittore neogreco-neopompeiano dell’800, ha espresso in maniera esemplare questo concetto:

“Tra gli antichi e i moderni c’è meno differenza di quanto siamo portati a credere. È questa la verità che ho sempre cercato di esprimere nei miei dipinti, cioè che gli antichi erano esseri umani in carne ed ossa come noi, animati dalle stesse passioni e dalle medesime emozioni”.

 

Bibliografia

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Barrow R.J., Lawrence Alma Tadema, Phaidon Press, Hong Kong, p.6.

Butalag, K., Demortier, G., Quarta, G., Muscogiuri, D., Maruccio, L., Calcagnile, L., ... & Mazzotta, C. (2005). Checking the homogeneity of gold artefacts of the final bronze age found in Roca Vecchia, Italy by proton induced X-ray emission. Nuclear Instruments and Methods in Physics Research Section B: Beam Interactions with Materials and Atoms240(1-2), 565-569.

Guglielmino, R. (1999). I dolii cordonati di Roca Vecchia (LE) e il problema della loro derivazione egea. In EPI PONTON PLAZOMENOI. SIMPOSIO ITALIANO DI STUDI EGEI (pp. 475-486). Scuola Archeologica Italiana di Atene.

Guglielmino, R., & Pagliara, C. (2006). Rocavecchia (Le): testimonianze di rapporti con Creta nell’età del bronzo. Studi Peroni, 117-124.

Maggiulli, G. (2009). I ripostigli di Roca Vecchia (Lecce): analisi dei materiali e problematiche archeologiche. E. Borgna e P. Cassola: Guida Dall'Egeo all'Adriatico: organizzazioni sociali, modi di scambio e interazione in età postpalaziale (XII-XI sec. aC). Atti del Seminario internazionale (Udine, 1-2 dicembre 2006), Quaderni di Protostoria Mediterranea, 205-218.

Pagliara, C., Guglielmino, R., Coluccia, L., Malorgio, I., & Merico, M. (2008). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006). Roca Vecchia (Melendugno, Lecce), SAS IX: relazione stratigrafica preliminare sui livelli di occupazione protostorici (campagne di scavo 2005-2006), 239-279.


LA SALA DELLE NOZZE DI ALESSANDRO E ROSSANE

A cura di Federica Comito

Subito successiva alla Sala delle Prospettive, si trova la camera da letto di Agostino Chigi conosciuta come la Sala delle Nozze di Alessandro e Rossane. Prende il nome dalle storie affrescate che vedono come protagonista Alessandro Magno e la principessa Rossane, figlia di Ossiarte satrapo della Battriana (una regione asiatica corrispondente più o meno all'attuale Afghanistan), che il giovane condottiero sposa nel 327 a.C. La storia scelta era destinata a glorificare il committente Agostino, paragonandolo all'eroe della classicità. Affrescata nel 1518-19, effettuarono i lavori nella sala prima l’architetto Baldassarre Peruzzi e poi il pittore Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma. Questo incarico offrì al Sodoma la possibilità di entrare a far parte del prestigioso circolo di umanisti di Agostino Chigi. Nella sala colpisce l’elaborato soffitto a cassettoni con forme geometriche dorate e blu che incorniciano dodici piccoli riquadri rappresentanti scene dalle Metamorfosi di Ovidio alternate a decorazioni vegetali. Disegnato da Baldassarre Peruzzi, è stato eseguito poi da Maturino da Firenze aiutato probabilmente da un giovane Polidoro da Caravaggio. Al centro si trova lo stemma araldico di Agostino Chigi su fondo azzurro.

Fig. 1 - Soffitto cassettonato con lo stemma di Agostino Chigi e decorazioni.

Gli affreschi della Sala delle Nozze

Sulle pareti sono affrescate alcune significative scene della breve vita del condottiero Alessandro Magno, morto a soli 33 anni.

Sull’intera parete nord della Sala delle Nozze è raffigurata la scena, particolarmente conosciuta e che dà il nome alla stanza, delle Nozze di Alessandro e Rossane. Nell'affresco sono frequenti i richiami al tema matrimoniale, dai puttini alati alla fiaccola accesa sostenuta dal dio Imeneo, emblema delle nozze, ritratto alle spalle del seminudo Efestione, fedele compagno del condottiero macedone. Da notare i giochi prospettici: in basso una sorta di balaustra dietro la quale si vede un pavimento in prospettiva con Alessandro che porge la corona alla bellissima sposa; sul fondo del padiglione del letto c’è uno specchio - tipico della cultura fiamminga - che ingrandisce otticamente la stanza; un loggiato sulla destra dona profondità alla scena. Il letto, probabilmente, riprendeva quello realmente presente nella camera, costato 1592 ducati perché realizzato in oro, avorio e pietre preziose. L'affresco con le Nozze di Alessandro e Rossane era il più importante perché dedicato al matrimonio tra Agostino e Francesca, ma anche il più difficile da realizzare in quanto avrebbe dovuto ricreare un antico dipinto del pittore greco Aezione. Purtroppo però tale dipinto non esisteva più, e non ne erano neppure reperibili delle copie. Per ricostruirlo si dovette far fronte a una descrizione letteraria contenuta nell'Erodoto dello scrittore latino Luciano. Il testo, in greco, venne tradotto in latino nel 1503, ma stampato e diffuso solo dopo il 1529. Secondo alcuni storici è probabile che inizialmente Agostino Chigi avesse affidato a Raffaello il compito di dipingere questa camera, infatti in alcuni passi dei trattati di Dolce e Lomazzo si accenna ad un disegno realizzato dal Sanzio ad acquerello e biacca con le storie di Alessandro il Grande. Tuttavia Raffaello in quel momento era già impegnato ad affrescare la Loggia di Psiche perciò l'incarico passò al Sodoma, già conosciuto dalla famiglia Chigi in quanto aveva lavorato a Siena per Sigismondo, fratello di Agostino. Prendendo in esame lo studio di Raffaello, il Sodoma ridefinì la composizione, seguendo scrupolosamente il testo letterario e arricchendo la scena di elementi narrativi. La mano raffaellesca è ancora evidente, come nella donna con la brocca a sinistra, ripresa dall'Incendio di Borgo nell’omonima Stanza Vaticana, ma anche nelle architetture tipicamente bramantesche e nella dilatazione spaziale. Il Sodoma però effettua anche interessanti variazioni personali, dettate dai suoi studi archeologici: la figura di Alessandro deriva dalla conoscenza dell'Apollo del Belvedere, quella di Vulcano ripropone il movimento ricco di tensione e dramma del Laocoonte.

Fig. 2 - Parete affrescata con la scena delle nozze di Alessandro e Rossane.

Sulla parete successiva è raffigurato Alessandro Magno che doma Bucefalo, dipinto in cui è riconoscibile, specialmente nella parte destra, la mano di un collaboratore. Si pensa che questo affresco sia stato realizzato per coprire i buchi lasciati dalla rimozione del letto a baldacchino che doveva trovarsi ancorato proprio a quella parete. Pare invece che il lato sinistro sopra l’entrata, dove si intravede sullo sfondo la Basilica di Massenzio e in primo piano la Lupa con Romolo e Remo, sia da attribuire al Sodoma.

Fig. 3 - Affresco con Alessandro che doma Bucefalo.

Nella parete tra le due finestre è affrescata una scena di battaglia con un paesaggio di campagna romana che si perde all'orizzonte, visto, anche in questo caso, oltre un parapetto come se ci si affacciasse sulla battaglia.

Fig. 4 - Scena di battaglia affrescata tra le due finestre.

Sulla parete destra è dipinta la Clemenza di Alessandro Magno nei confronti della famiglia di Dario, il re persiano sconfitto: Alessandro Magno, dopo la battaglia, riceve e perdona la vedova e le figlie del rivale. Tra le figure femminili si è voluta riconoscere una donna ispirata alla Galatea di Raffaello. Sotto l’affresco si trova il camino e ai lati è affrescata la fucina di Vulcano. Il dio si trova nella sua bottega a forgiare le frecce dell'amore per Cupido: è chiara l'associazione tra la fucina del dio e l'allume vulcanico alla base della ricchezza di Chigi, ma anche la volontà di alimentare il fuoco dell'amore. Infatti Chigi soffriva di idropisia (termine oggi sostituito da anasarca) che, in alcuni casi, influenza le prestazioni sessuali. Questo potrebbe quindi essere collegato all'approccio rinascimentale alla medicina, che coinvolgeva la teoria degli Umori secondo cui il loro squilibrio causava malattie. Pertanto l’incendio della fucina contrasterebbe l'effetto negativo dell’acqua legato all’idropisia.

Fig. 5 - Affresco raffigurante la Benevolenza di Alessandro. Sotto il camino e la fucina di Vulcano. Credit: Franco Cosimo Panini Editore.

Esiste anche una diversa lettura di questi affreschi del Sodoma che si basa sull’ermeneutica alchemica, citando le quattro fasi della Grande Opera (nigredo, rubedo, citrinitas, albedo; rispettivamente annerimento, sbiancamento, ingiallimento e arrossamento) descritte con simboli crittografici. Conosciuta in latino come Magnum Opus, la Grande Opera è l'itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima, finalizzato a realizzare la pietra filosofale.

Imperia e Francesca

Secondo una teoria meno considerata l’intera Villa, e in particolare la Sala delle Nozze, sarebbero stati realizzati non per Francesca Ordeaschi ma per omaggiare Imperia, una cortigiana di cui Chigi si era innamorato prima di conoscere Francesca. Imperia era considerata la donna più bella di Roma, al pari di una dea, però non era felice. Innamorata, infatti, di un nobile romano, Angelo Del Bufalo, non poteva sposarlo perché l’uomo era già coniugato. Quindi, dopo l’ennesimo litigio con l’amante, decise di uccidersi, assumendo un veleno mortale: a nulla valsero le cure dei medici più famosi di Roma chiamati da Agostino Chigi. Dopo due giorni di dolorosa agonia, Imperia morì. Agostino finanziò un maestoso funerale a Roma, sensazionale per una cortigiana. Il suo monumento funebre a San Gregorio al Celio non è sopravvissuto fino ai giorni nostri.

Questa sala, conosciuta come la "Camera delle Nozze", è stata incessantemente associata alla decisione di Chigi di sposare la veneziana Francesca Ordeaschi nel 1519, quando Imperia era già morta. Tuttavia recentemente è stato pubblicato un ritratto di Imperia e, se questo ritratto presenta le reali fattezze della donna, gli stessi lineamenti del viso possono essere chiaramente osservati in Rossane, in Galatea nel Trionfo di Galatea e in Venere nel pennacchio con Venere e Psiche nella Loggia di Psiche.

Quindi lo schema unificante per i dipinti di Villa Farnesina raffigurerebbe il grande amore di Chigi per una cortigiana, culminante in questa stanza finale, dove egli, attraverso la fantasia, potrebbe negare la realtà dei fatti e vivere un matrimonio immaginario, non reale, incarnato in parte nell'iscrizione originale che correva attorno alle pareti:

Vale et dormi; somnus enim otium est. Animae felices a miseris in dimidio vitae non differunt

(Addio e sonno; veramente nei sogni c'è tempo libero / pace / quiete / riposo. Gli spiriti della fortuna e della miseria nella vita vengono mandati via ma non dispersi.)

Nella Stanza delle Nozze tutto viene spazzato via a favore di una vita di fantasia, l'illusione del sogno dell'antichità e della classicità, dove tutto è bello oltre che eterno. Questo può forse essere il significato di fondo di uno dei tanti elogi a Imperia in occasione della sua morte, dove Chigi è identificato con l'Impero e Imperia con Venere e la loro storia d'amore elevata a un mito della Roma rinascimentale:

Dii duo magna dederunt munera Romae: Imperium Mavors et Venus Imperiam ... Hos contro steterunt Mors et Fortuna, rapitque Fortuna imperium, mors rapit Imperium. Imperium luxere patres, nos luximus ipsi hanc: Illi orbem, nos nos cordaque perdidimus.

(Gli dei fecero a Roma due grandi doni: Marte le diede l'Impero e Venere [diede] Imperia ... La morte e la fortuna erano contro di loro: la fortuna portò via l'Impero e la morte [prese] Imperia. I nostri padri piansero sull'Impero e noi piangemmo troppo su di lei: persero [l'Impero] mentre noi perdemmo il cuore.)

Così il poeta Giano Vitale piange la morte della cortigiana nell’Imperiae panegyricus nel 1512, anno della morte della fanciulla.

Conclusione

Si tratta della storia d’amore tra una ragazza di rango inferiore, anche in questo caso, e un uomo di successo, come la storia d’amore tra Francesca Ordeaschi e Agostino, perché anche Imperia era una cortigiana. Gli affreschi dipinti dal Sodoma raccontano delle nozze tra Alessandro Magno e Rossane, prima prigioniera e poi sposa. La scelta non è casuale, infatti gli affreschi non servono solo ad elogiare il matrimonio ma anche l’ascesa della moglie, Francesca Ordeaschi, da amante a moglie legittima. Quest’ultima versione è quella generalmente accolta.

Gli affreschi della Stanza, ritoccati da Carlo Maratta alla fine del ‘600, vennero restaurati nel 1974-1976 grazie ad un nuovo e fondamentale restauro.

 

Bibliografia

“A Fantasia Of Pagan Myth In The Villa Farnesina: Agostino Chigi’s Homage To His Lover, Imperia”, in Pagans and Christians- from Antiquity to the Middle Ages, ed., Lauren Gilmour, British Archaeological Reports, International Series 1610

Terenzio, La Farnesina, in “Bollettino d’arte del Ministero della Educazione Nazionale”, n. 24, 1930/31, pp. 76-85

 

Sitografia

http://www.travelingintuscany.com/arte/ilsodoma/villafarnese.htm

ww.villafarnesina.it

https://www.youtube.com/watch?v=eXPhhjkGLsI


LA CHIESA DI SAN DOMENICO A LAMEZIA TERME

A cura di Felicia Villella

Introduzione

Il territorio della città di Lamezia Terme ha subito nel corso dei secoli numerosi eventi sismici che non hanno però fermato il fermento edilizio che si è rinnovato di continuo nel corso dei diversi periodi storici che si sono succeduti.

I quartieri principali della città sono ricchi di palazzi e chiese di stampo soprattutto barocco, non a caso edificati dopo il terremoto del 1638 che rase al suolo gran parte delle strutture in situ.

Numerose sono state le maestranze locali e non che si sono prodigate nel rimettere in sesto ciò che era ancora utilizzabile e produrre ex novo dei veri e propri gioielli edilizi che sono il chiaro emblema per un gusto ricercato dell’estetica ampollosa tipica di questa corrente artistica e architettonica.

È il caso del complesso monumentale della Chiesa di San Domenico con chiostro annesso, intitolato inizialmente all'Annunziata e completato nel 1521, ma fortemente danneggiato dal suddetto sisma del 1638; ne seguì una serie di restauri e ripristini fino all'intitolazione a San Domenico nel 1781.

I domenicani arrivarono nel quartiere di Nicastro nel XV secolo per volere del feudatario e conte Marcantonio Caracciolo, che donò alla città un centro di studi nel luogo in cui era precedentemente presente un tempietto dedicato a tutti i santi, ivi adiacente era presente l’Ospedale dell’Annunziata poi convertito a convento. Il conte Caracciolo a questo punto inviò una supplica all'allora papa Alessandro VI, impegnandosi di cedere ai religiosi giunti fin qui l’intero complesso.

Chiesa di San Domenico: descrizione storico - architettonica

Il prospetto principale è stato realizzato nel 1838 da mastro Gregorio Segreto in stile tardo barocco e si sviluppa in tre livelli: il primo presenta una tripartizione intervallata da lesene che culminano in capitelli a doppie volute, l’ingresso è centrato e vi si accede superando una piccola scalinata mentre le due arcate laterali sono oggi murate. Anche il secondo livello ripropone la tripartizione del precedente, il comparto centrale presenta un dipinto attribuito a Raffaele o Antonio Palmieri, pittori locali, che raffigura la Madonna col bambino in trono e i santi in adorazione, al di sotto del quale è posizionato lo stemma della famiglia d’Aquino, promotori degli ultimi interventi di restauro del Settecento. Ai lati sono alloggiate due nicchie con chiusura a conchiglia, sormontate da due finestre.  Infine, il terzo ordine si figura con un timpano decorato a doppia voluta.

Fig. 3 – Chiesa di San Domenico, ordini superiori e convento.

L’edificio si sviluppa in un’unica navata longitudinale con ampio presbiterio a pianta quadrata sormontato da una cupola ottagonale riccamente decorata. La navata presenta una copertura con volta a botte, mentre all'ingresso è presente un organo a canne del XVII secolo.

Fig. 9 – Chiesa di San Domenico, altare maggiore.

Sotto l’altare maggiore, opera del maestro Segreti come riporta una incisione posta su di un lato che recita “D.O.M - Questo altare fu costruito da me M° Domenico Segreti da Fiumefreddo, essendo priore del convento P.L. Fra Domenico M. Stasi - MDCCCXXVII.D”, è presente una cripta circolare con affreschi che risalgono al 1534 fortemente deteriorati e sedili in pietra ricavati dal muro; probabilmente si tratta del luogo di sepoltura di monaci e nobili, come attesta lo stemma nobiliare che campeggia nell'ambiente appartenente alla famiglia dei Caracciolo.

La Chiesa di San Domenico: l’interno e le opere

Il terremoto del 1638 rase al suolo gran parte degli edifici della cittadina incluso il complesso in oggetto; rimasero solo alcuni muri perimetrali che incentivarono il processo di ricostruzione che terminò già nella prima metà del 1600. Il progetto proseguì ad opera dei padri domenicani che ne ampliarono la planimetria, ma due inondazioni del vicino torrente Piazza e due scosse sismiche alla fine del Settecento danneggiarono nuovamente anche le nuove strutture. Seguirono nuovi interventi non solo di recupero del bene, ma soprattutto decorativi. Durante il secolo XVIII la chiesa fu abbellita da stucchi a rocaille barocchi opera del fiumefreddese Pietro Joele, che contribuì insieme a Giovanni e Antonio Frangipane ai lavori di ripristino del monumento.

Sono opera del pittore nicastrese Francesco Colelli, allievo del Mattia Preti, invece, l’intero ciclo pittorico delle volte (San Raimondo da Penafort, Annunciazione, Incontro tra San Domenico e San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena), le decorazioni del coro (Madonna Patrona dell’Ordine dei Domenicani con San Gregorio Magno, San Ambrogio, San Agostino e San Girolamo), dei pennacchi della cupola (Gli Evangelisti), della calotta (Il Padre Eterno) e la tela con San Domenico e la prova del fuoco posta dietro l’altare maggiore. Ai lati dello stesso sono posti due affreschi, l’Assunzione della Vergine e la Trasfigurazione di Cristo, realizzati da Domenico Salvatore Palmieri e Giuseppe Palmieri nel XIX secolo. Infine, la parete di fondo è decorata da un imponente affresco cinquecentesco, Cristo Passo, al quale in epoca successiva sono stati aggiunti due soldati laterali.

Anche le opere poste negli altari laterali sono state realizzate dal Colelli, la principale tela da menzionare è sicuramente il Martirio di San Pietro da Verona, l’unica di sicura attribuzione all’artista, che riprende un dipinto di Mattia Preti presente nella chiesa domenicana di Taverna. Un’altra tela raffigura la Madonna del Carmine tra i Santi Giacinto e Teresa d’Avila, posta nella prima pala d’altare a sinistra rispetto l’ingresso. Procedendo verso l’altare maggiore si trovano altre due tele poste frontalmente, a destra San Vincenzo Ferrer, nella tela è presente probabilmente anche il committente, forse un nobile della famiglia D’Ippolito che ivi possedeva una sepoltura, a sinistra la Visione di San Tommaso d’Aquino.

Infine le ultime due pale ripropongono la Madonna del Rosario tra i Santi Domenico e Caterina da Siena, e Gesù infante tra i pontefici Pio V e Benedetto XI.

Curiosità

A sinistra dell’edificio ecclesiastico è posto il convento dell’ordine dei domenicani, costruito grazie ai Caracciolo tra il 1506 e il 1521. Fu il luogo in cui approfondì i propri studi in teologia un giovane Tommaso Campanella, autore de La città del sole, che fece una seconda visita a questi luoghi nel 1598. La vicina biblioteca comunale, oggi sita presso palazzo Nicotera, conserva alcuni volumi che riportano ai margini gli appunti del filoso stilese.

Il decreto di soppressione degli ordini religiosi emanato da Gioacchino Murat nel 1809 obbligò i padri domenicani a lasciare la città di Nicastro, solo nel 1818 il re di Napoli, Ferdinando I, autorizzò una nuova apertura del complesso, per poi essere nuovamente richiuso nella seconda metà dell’Ottocento. Il motivo di tali chiusure è legato alla necessità di avere nuovi luoghi da adibire a caserme militare, carceri e scuole, fu infatti questo il destino dell’edificio, passò da sede del Ginnasio-convitto a distretto militare, poi biblioteca comunale e infine liceo ginnasio.

Recenti interventi di restauro hanno permesso il recupero dell’intera struttura, adibendo il piano terra a circolo letterario, il Chiostro, e il primo piano a Museo archeologico Lametino.

 

 

Bibliografia

De Sensi Sestito (a cura di), Guida ai monumenti. Lamezia Terme tra Arte e Storia, Centro Herakles per il turismo culturale 2008, pag. 20.

Panarello, Francesco Colelli. Pittore 1734-1820. Documenti di cultura artistica su ‘700 calabrese, Soveria Mannelli (CZ) 1999.

Panarello, Riverberi pittorici. Gli artisti del settecento calabrese e la figura di Francesco Colelli, Corigliano – Rossano 2019.

Sitografia

http://www.diocesidilameziaterme.it/S.-DOMENICO-in-Lamezia-Terme.html

http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedaca.jsp?sercd=28257

https://www.beweb.chiesacattolica.it/edificidiculto/edificio/28257/Chiesa_di_San_Domenico_Nicastro,_Lamezia_Terme

 

Contatti

http://www.diocesidilameziaterme.it/S.-DOMENICO-in-Lamezia-Terme.html


LA “PIETÀ RONDANINI”, UNA GENESI DEL DOLORE

A cura di Silvia Piffaretti

Michelangelo, un genio immortale

Nell'elegante sede dell’antico ospedale spagnolo del Castello Sforzesco di Milano, eretto sotto il dominio visconteo e nei secoli a venire dominato da francesi e spagnoli, si trova il Museo della “Pietà Rondanini” di Michelangelo che, odiato ed amato dai suoi contemporanei, ebbe il merito di vedere riconosciuta la propria fama quand'era ancora in vita. Tra coloro che tesserono le sue lodi ci fu il conterraneo Giorgio Vasari che, nella sua opera Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori, celebrò Michelangelo come genio indiscusso, tant'è che nella seconda edizione del suo scritto del 1568, nonostante si iniziasse a prediligere l’eleganza e la licenza di Raffaello a seguito dello scandalo dei nudi della Cappella Sistina, continuò ad innalzarlo come artista supremo.

Michelangelo, nato nel 1475 a Caprese in Toscana, fu avviato dal padre agli studi umanistici ma fu subito evidente la sua predilezione per gli studi artistici che lo condusse alla bottega di Domenico Ghirlandaio e successivamente alla scuola del Giardino di San Marco di Lorenzo il Magnifico.

Nella sua vita ricevette importanti commissioni da papi e principi per cui realizzò capolavori pittorici, architettonici e scultorei; di fatto Vasari dichiarò che Dio avendo visto in terra tanta vanità e presunzione e studi senza frutto mandò in terra uno spirito che fosse abile in ogni arte. Ne “Le vite” infatti Michelangelo fu l’unico ad avere nel suo frontespizio, dove per ogni artista erano rappresentate le allegorie delle arti padroneggiate, le tre arti di pittura, scultura ed architettura. A detta del Vasari egli condusse le cose sue così col pennello come con lo scarpello e donò tanta arte, grazia et una certa vivacità alle cose sue da vincere gli antichi avendo saputo cavare della dificultà tanto facilmente le cose, che non paion fatte con fatica.

Fig. 1 - Il Castello Sforzesco di Milano.

La Pietà Rondanini, una genesi del dolore

L’iconografia della Pietà, pur non trovando fondamento evangelico, rappresenta nelle storie della Passione il momento che segue la deposizione dalla Croce, quando Maria insieme alle pie donne ed ai discepoli piange il Figlio prima di deporlo nella tomba. Il gruppo, caro alla mistica tedesca del XIV secolo e giunto successivamente in Italia, a partire dal Trecento si ridusse alle sole figure della Vergine e del figlio. Anche Michelangelo ne diede una personale interpretazione e, ritiratosi nella sua solitudine per creare indisturbato da compagnie e fastidi, iniziò la sua riflessione attorno a tale tema. Fu così che per prima realizzò la Pietà di San Pietro in Vaticano (1498-99) rappresentante un Cristo adagiato sulle ginocchia di una giovane Vergine, e successivamente la Pietà Bandini (1547-55) dove la madre ed il figlio erano accompagnati da Nicodemo e Maddalena.

L’ultima, dalla lunga e tormentata genesi, fu la Pietà Rondanini, realizzata da Michelangelo unicamente per se stesso in differenti fasi della sua vita. La prima fase è collocabile tra il 1552 e il 1555, la seconda dopo il 1555 quando ne riprese il lavoro, dopo la distruzione della “Pietà Bandini”, iniziando a scalpellare un pezzo di marmo su cui aveva già abbozzato unaltra Pietà, varia da quella, molto minore; ed infine l’ultima risale alla fine della sua vita come testimoniano le due lettere dell’allievo Daniele da Volterra, scritte dopo la morte di Michelangelo, indirizzate a Vasari e al nipote dell’artista Leonardo. Qui si racconta di come l’artista continuò a scalpellare l’opera fino a poco prima della morte, infatti nella lettera a Vasari del 17 marzo 1564 si legge: “Egli lavorò tutto il sabato, che fu inanti a lunedì che ci si amalò; e la domenica, non ricordandosi che fussi domenica, voleva ire a lavorar. Il gruppo scultoreo, che adotta uno schema compositivo diverso dalle precedenti pietà, rappresenta probabilmente la deposizione nel sepolcro di cui protagonisti sono le due sole figure di Cristo e della Vergine. Quest’ultima si trova in posizione elevata rispetto al corpo del figlio che, privo di vita, pare lasciarsi scivolare verso la madre stretta nel suo dolore.

Di tale dolore ne lascia un’interpretazione la poetessa milanese Alda Merini, la quale rimase colpita dalla vita straziata dal male fisico e morale dell’artista, da cui nacquero però cose grandiose. La poetessa individuò nella scultura due tempi del dolore, il dolore fisico del Cristo caduto dalla croce, morto ed ormai senza dolore, ed il dolore morale di Maria. Nella vita infatti è possibile distinguere tra dolore fisico e del sentimento, talvolta più incisivo del primo, e la Madonna costituisce l’emblema della totalità del dolore poiché il suo legame col figlio è tale da farle provare il medesimo dolore carnale, oltre che sentimentale. Cristo, per la Merini, avrà sentito il dolore come uomo ma come Dio avrà provato una grossa svalutazione di quello che era la sua grandezza sentendosi ferito a morte, perché è difficile [] per un essere che in sé aveva lidea del divino fare una morte così ignominiosa. In questo modo alla pietà, oltre al dolore straziante, si aggiunge il sentimento della vergogna di un Cristo spogliato e depauperato di tutto.

La Merini poi sottolinea come in ogni espressione artistica vi fosse qualcosa di divino, così come nel lavoro manuale, poiché l’operosità dell’uomo costituisce un segno della decadenza di quest’ultimo ma, al tempo stesso, della condanna e della presenza divina. Inoltre alla domanda che cosa fosse la materia, la poetessa dichiara che è quella di questi corpi marmorei che portano in se stessi il mistero della vita, infatti utilizzando la materia stessa è possibile farla urlare ed è così che qui compare un urlo segreto che non si sente. Ma, come Alda Merini conclude, a volte non è la voce che è sintomo di dolore ma spesso anche il silenzio, in questa pietà vi è un silenzio mostruoso che si configura come morte della parola, infatti a morire è Cristo che è il Verbo fattosi carne e venuto ad abitare in mezzo a noi.

Fig. 10 - Alda Merini che ammira la “Pietà Rondanini”.

L’opera si carica così di un forte carattere emozionale, nonostante l’incompiutezza dettata dalla morte che prese l’artista il 18 febbraio 1564 nella sua casa di Roma. Si dice che morì accompagnato dalla lettura del passo della Passione di Cristo, dopo aver redatto testamento affidando lanima sua nelle mani de Iddio; il corpo alla terra, e la roba a parenti più prossimi. Il corpo fu poi trafugato a Firenze dove, una volta svoltesi le esequie, fu seppellito nella Basilica di Santa Croce. Inutile dire che gli elogi postumi per il suo genio furono molteplici, ma tra i tanti emerse quello dello stesso Vasari che ebbe da lodare Dio d’infinite felicità poiché ebbe la grazia di esser nato al tempo di Michelangelo e di averlo avuto come amico, così egli poté dire di lui cose amorevoli e vere che altri non ebbero la fortuna di scrivere.

Bibliografia

Michelangelo, Art dossier, Giulio C. Argan, Bruno Contardi, Giunti, 1999.

Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Giorgio Vasari, edizione 1568.

Vuoto d’amore, Alda Merini, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1991.

Sitografia

treccani.it

lombardiabeniculturali.it

milanocastello.it

casabuonarroti.it

youtube.com/watch?time_continue=384&v=hwfGBRB-eLo&feature=emb_title

Immagini:

Fig. 1) https://www.lorenzotaccioli.it/castello-sforzesco-di-milano-cosa-vedere/

Fig. 2) https://it.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Buonarroti

Fig. 3) https://www.nationalgallery.org.uk/exhibitions/past/michelangelo-sebastiano-the-credit-suisse-exhibition/michelangelo-sebastiano-in-focus

Fig. 4) https://cultura.biografieonline.it/la-pieta-di-michelangelo/

Fig. 5) https://it.wikipedia.org/wiki/Pietà_Bandini

Fig. 6) https://one.listonegiordano.com/architettura/museo-pieta-rondanini/

Fig. 7) https://www.chiesadimilano.it/wp-content/uploads/2020/03/Pietà-Rondanini.jpg

Fig. 8) https://www.artwave.it/wp/wp-content/uploads/2017/12/30199-rondanini.jpg

Fig. 9.1) https://cbccoop.it/app/uploads/2017/04/060_041.jpg

Fig. 9.2) https://cbccoop.it/app/uploads/2017/04/062_047.jpg

Fig. 10) www.youtube.com/watch?time_continue=384&v=hwfGBRB-eLo&feature=emb_title