CASTEL DEL MONTE: IL CASTELLO OTTAGONALE

A cura di Giovanni D'Introno

Castel del Monte è uno degli edifici più emblematici e suggestivi della Puglia e di tutto il Medioevo, ingegnosa opera di precisione geometrica ed eclettismo stilistico. La costruzione di questo misterioso castello, sorto su una catena delle Murge Occidentali nei pressi di Andria, fu ordinata  dal celebre Federico II di Svevia, lo “Stupor mundi”. Incerto però rimane l'arco cronologico in cui inserire i lavori di costruzione, ai quali parteciparono indubbiamente i cistercensi, i cosiddetti “monaci dissodatori”: una data di riferimento è il 29 gennaio 1240, quando Federico ordinò a Riccardo di Montefuscolo, giustiziere di Capitanata, di disporre il materiale necessario per la costruzione di un castello presso la chiesa di “Sancta Maria de Monte”, oggi non più mirabile, venendo così denominato per molti decenni “Castello di Santa Maria del Monte”.  In realtà quei materiali richiesti servivano per completare la copertura dell'edificio, quindi questa data non va intesa come il momento d'avvio dei lavori, dal momento che, secondo alcuni studiosi, in quegli anni il castello era quasi terminato. Infatti, alcune fonti documentano alcuni eventi importanti svoltisi pochi anni dopo nel castello, come i festeggiamenti per il matrimonio di Violante, figlia naturale dell'imperatore e Bianca Lancia.

Con la caduta definitiva degli Svevi ,dopo la disfatta di Corradino a Tagliacozzo nel 1268, Carlo I d'Angiò vi imprigionò i figli di Manfredi. Il castello nei secoli successivi svolse principalmente la funzione di carcere.

Nel 1552 entrò a far parte del patrimonio dei conti Carafa di Ruvo, diventando per questi un luogo di villeggiatura. Negli anni della peste della metà del XVII secolo, ospitò numerose famiglie di nobili andrianesi. Dal XVIII secolo però il castello fu lasciato in totale stato d'abbandono e di conseguenza fu soggetto a razzie e funse da rifugio per pastori e briganti.

Nel 1876 l'edificio fu acquistato dallo Stato Italiano per 25.000 lire e furono avviati lavori di restauro, che ebbero ulteriori sviluppi dal 1928 fino agli anni Ottanta. Dal 1996 fa parte della lista dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO e dal 2002 compare la sua effige nel centesimo di euro.

Il castello in pietra calcarea locale è a pianta ottagonale, riproponendo la forma della corona imperiale, e a ciascuno degli otto spigoli poggia una torre, anche questa ottagonale. La struttura si sviluppa su due piani, ognuno dei quali è composto da otto sale di forma trapezoidale, che configurano una corte ottagonale al centro del castello (fig. 1), all'interno della quale vi era una vasca anche questa di forma ottagonale.

Fig. 1

Il portale principale in breccia corallina (fig. 2), al quale si accede attraverso due rampe di scale, è costituito da due lesene scanalate con capitelli corinzi che sorreggono un finto architrave, sul quale a sua volta si erge un timpano cuspidato, come citazione all'arte classica, all'interno del quale vi erano probabilmente delle statue, tra cui il busto di Federico II (fig. 3), oggi custodito nel Castello di Barletta, il “frammento Malajoli”, consistente in un frammento di testa laureata, e i resti di un busto imperiale, ritrovati durante il restauro degli anni '20 ai piedi di Castel del monte e oggi esposti nella Pinacoteca Provinciale di Bari. L'apertura esterna dell'arco del portale presenta due colonnine sormontate da due leoni dal taglio romanico. L'ingresso che si affaccia verso occidente è costituito da un semplice arco a sesto acuto.

Ogni lato di Castel del Monte presenta due finestre in asse tra di loro, una per ogni piano, in breccia corallina e sostenute da colonnine in marmo bianco. Le due finestre, inquadrate tra le due torri ai vertici, sono divise da una cornice marcapiano: le pareti del piano terra, eccetto quelle in cui sorgono i portali, presentano delle monofore, mentre le pareti del piano superiore presentano delle bifore (fig. 3), eccetto la parete che guarda verso nord, che presenta una trifora. Sulle torri si aprono numerose feritoie e davanti ad una torre si erge una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana, necessaria per lo scarico dei servizi.

Fig. 3

Il piano terra è costituito da otto sale trapezoidali: il soffitto di ogni sala è stato idealmente scomposto in un quadrato, sormontato da volte a crociera costolonata, i cui costoloni partono da colonne in porfido rosso (fig.4) e si inerpicano fino ad incrociarsi nella chiave di volta (fig.5), spesso scolpite con elementi vegetali o con particolari teste di fauno dalle grandi orecchie, e in due triangoli laterali, sorretti ciascuno da semibotte ogivali.

Si può accedere al cortile centrale attraverso tre porte con arco a sesto acuto (fig. 6). Per raggiungere il piano superiore, bisogna usufruire delle scale a chiocciola che si trovano nelle torri. Anche il piano superiore è diviso in otto sale trapezoidali, con bifore dotate di scale e sedili. In queste sale viene riproposta la volta a crociera costolonata del piano terra, con i costoloni che partono da colonne con capitelli a crochets. Nelle sale, inoltre, sono visibili i resti di altissimi camini.  Alcune sale sono dotate di porte finestre, impreziosite da breccia corallina e marmo bianco, che si affacciano sul cortile interno.

Fig. 6

Come già detto, il castello è privo di ogni tipo d'arredo, ma conserva numerose e raffinate decorazioni scultoree, come i telamoni che sorreggono la volta di una delle torri e le mensole della torre del Falconiere (chiamata così perché secondo la tradizione vi venivano allevati i giovani falchi) con teste antropomorfe (fig. 7), connotate da una certa plasticità, tipico della scultura gotica. Inoltre è importante segnalare la scoperta di resti di pavimento musivo in una delle sale del piano inferiore.

Fig. 7

Per anni gli studiosi hanno cercato di cogliere l'originaria funzione del castello e svelare i segreti che si celano dietro queste possenti mura. Si presume che sia nata come residenza di caccia: infatti l'imperatore possedeva ottime abilità venatorie, soprattutto con l'ausilio dei falconi; quindi poteva far sfoggio di questa sua arte proprio nell'incolto circostante. Questa tesi è stata negata, dando la possibilità di emergere ad un'altra congettura più recente, secondo la quale l'edificio, dato il sistema di raccolta d'acqua d'origine islamica, sia stato adibito a centro benessere per la rigenerazione del corpo, ricalcato sull'hammam arabo.

Ciò che ha fatto dubitare molto gli studiosi è il fatto che la  struttura si presenta priva di spazi adibiti a stalle, cucine e di una cinta muraria intorno al castello. Probabilmente quest'ultima vi era in precedenza, dal momento che il notaio cronista Domenico da Gravina ci riporta nelle sue cronache, risalenti alla prima metà del XIV secolo,  la notizia della fuga di un prigioniero da Castel del Monte, che avrebbe scavalcato le mura. Di conseguenza, si ipotizzava la presenza di strutture mobili in legno tra la cinta muraria e il castello, che dovevano quindi svolgere il ruolo di cucine, depositi e stalle.

 

Bibliografia

S. Mola ,“Castel del Monte”, 2018, Mario Adda Editore.

 

Sitografia:

https://it.wikipedia.org/wiki/Castel_del_Monte

http://www.italia.it/it/idee-di-viaggio/siti-unesco/castel-del-monte-la-fortezza-dei-misteri.html


GLI EX LIBRIS DEL FONDO LEBORONI A MACERATA

A cura di Matilde Lanciani

Introduzione: gli ex libris nella storia

Se parliamo di ex libris facciamo riferimento ad una tipologia di arte contrassegnata storicamente come “minore” ma che presenta nel suo piccolo universo una varietà di elementi culturali ed artistici che ne fanno un piccolo scrigno culturale. Con questo termine (con le varianti ex biblioteca, ex catalogo, simbulum bibliothechae, ex libris musicis, ex libris medicinae, ex libris eroticis..) indichiamo infatti un’incisione, solitamente di piccolo formato, eseguita in pochi esemplari numerati, secondo la richiesta di un committente mediante una serie di tecniche incisorie come la stampa a rilievo o alta, la stampa in cavo e la stampa in piano. L’ex libris, posto sul piatto interno alla copertina di un libro, indica infatti, come suggerisce la locuzione latina “ex” ossia “da”, che quel libro appartiene alla determinata collezione di un qualsivoglia bibliofilo, collezionista o studioso.

Nell’ex libris compaiono solitamente motti o stemmi che fanno riferimento alle caratteristiche di chi li commissiona per affermare la propria dotazione libraria e ribadirne la proprietà. Andrea Galante ne “Gli ex libris tedeschi”, articolo del 1987 sulla rivista “Emporium”, riporta un simpatico motto di un gentiluomo inglese che fece incidere sui suoi ex libris queste parole:

“My book is a thing

my fist ist an other

if you steal one

you will feal the other”.

(“Il mio libro è una cosa, il mio pugno un’altra. Chi ruba il primo proverà l’altro”).

Questa attestazione di possesso porta con sé moltissimi significati artistici e storici che è possibile ravvisare in una tipologia artistica così rara e preziosa: in primo luogo dà notevoli indizi sul periodo al quale appartiene l’ex libris, sull'individualità e le peculiarità di chi lo commissiona e anche sui connotati degli artisti che lo realizzano e dei modelli ai quali si ispirano.

I primi ex libris sono da ricercare addirittura nell'Antico Egitto, sappiamo che i rotoli di papiro del Faraone Amenophis (XV sec. a.C) venivano contrassegnati da una piastrina che recava il nome della coppia regnante. Allo stesso modo, in Cina, dopo l’invenzione della carta, l’ex libris assumeva quello stesso significato allegorico che gli è attualmente attribuito.

“Con questi precedenti – scrive E. Bragaglia – l’invenzione della stampa trovava nell’ex libris l’elemento perfetto in tutte le sue componenti; veniva stampato con gli stessi torchi utilizzati per il libro, le figurazioni simboliche erano incise su legno, analogamente alle illustrazioni che ornavano i libri più fastosi”.

Il primo esemplare riferibile a quest’arte è stato rinvenuto in Germania nel 1470, appartenente al religioso bavarese Hans Knabensberg. Successivamente nella personalità di Albrecht Dürer troviamo un grande punto di riferimento con la prima attribuzione di un ex libris del 1516 destinato a Hieronymus Hebner, giudice di Norimberga.

Michael W., X bn.

In ambito italiano il Bertarelli indica come documento principale a testimonianza di questa pratica artistica un ex libris eseguito per Mons. Cesare dei Conti Gambara, consacrato Vescovo di Tortona nel 1548 e poi un altro ancora per il giureconsulto pistoiese Niccolò Pilli, entrambi incisi su legno. Jacopo Contarini commissionò un altro esemplare nel 1560, posto a circoscrivere la raccolta da lui donata alla biblioteca di San Marco a Venezia, ne troviamo altri esempi in quelli di Bernardo Clesio e Gerolamo Veratti fra Trento e Ferrara. Nell'Italia rinascimentale sicuramente la tecnica incisoria ebbe una particolare fioritura grazie anche al Pollaiolo e al Mantegna, figure di spicco per quanto riguarda la divulgazione di questa pratica da cui deriva anche la tematica exlibristica. Nel ‘600 il disegno diventa più ricco e adorno con nastri, tralci di vite, rami fioriti ecc., tendenza che andrà sostituita poi nel ‘700 con la semplice etichetta tipografica che reca il solo nome e cognome del titolare della biblioteca.

In Germania, dove senz'altro il genere nasce e trova terreno fertile, viene introdotta la tecnica dell’acquaforte, che trova in Rembrandt le sue radici con una serie di sperimentazioni dell’artista anche a bulino e puntasecca. Verso la fine dell’800 la xilografia è sostenuta da artisti del calibro di Gauguin, Münch, Kirchner e gli espressionisti della “Die Brüke” mentre agli inizi del ‘900 si fa risalire la linoleografia (in sostituzione del legno) per merito di Matisse e Picasso.

Nel 1902 in Italia viene pubblicato l’ancora ad oggi insuperato volume sugli exlibristi “Gli ex libris italiani” di Bertarelli e Prior e nel 1919, quando nasce la prima associazione di collezionisti a Torino, questo tema avrà ancora più ampio respiro supportato anche da iniziative artistiche come la rassegna “EROICA” fondata da Ettore Cozzani e Franco Oliva nel 1911 a La Spezia in cui Adolfo De Carolis emerge come figura rilevante del gruppo.

La prima fase dell’exlibrismo italiano parte quindi da Torino e precisamente nel 1910 ad opera del conte Rati Opizzoni che fondò l’”Associazione italiana tra amatori di ex libris”, prosegue poi con l’ “AIACE” a Bologna di Gino Sabbatini e la “B.N.E.L Bianco e Nero ex Libris” fondata e gestita dall'ingegnere Gianni Mantero di Como, il quale collezionò più di 2.000 esemplari individualmente.

Il fondo Leboroni della biblioteca statale di Macerata e l’opera di catalogazione di Goffredo Giachini

La collezione del fondo Leboroni di Macerata è stata donata da Maria Elisa Leboroni, xilografa di successo internazionale, che ha raccolto oltre 12.000 ex libris i quali costituiscono il nucleo di questo tema in ambito marchigiano. Nel 2002 infatti, Angiola Maria Napolioni, già direttrice della biblioteca statale di Macerata, mise le premesse per la costituzione del Fondo Leboroni appoggiando il progetto di Goffredo Giachini, noto curatore di esposizioni dedicate all'incisione e altro, mirante alla definizione della donazione a favore alla Biblioteca stessa.

Leboroni, allieva di Gerardo Dottori, Pietro Parigi e padre Diego Donati, realizza ex libris caratterizzati da un linguaggio personale, molto raffinato e fortemente coloristico. “La bellezza è la forma che l’amore dona alle cose” è infatti il credo di questa artista che trae le sue radici dal grande xilografo Mimmo Guelfi.

Il fondo è stato interamente catalogato da Giachini che con competenza, costanza e dedizione ha suddiviso tutti gli ex libris in ordine alfabetico, cronologico, a seconda della tecnica, delle dimensioni, del committente e della tematica trattata. L’importante collezione è stata interamente digitalizzata e resa fruibile a studiosi, letterati ed artisti. Ma cosa più singolare è che Giachini ha riportato una serie di riproduzioni nel libro “Gli ex libris del Fondo Lebroni della Biblioteca Statale di Macerata” del 2015 commentato dal critico Gian Carlo Torre, le quali presentano gli exlibristi con autografi originali e l’elenco dei loghi e delle firme di tutti gli autori facenti parte del fondo.

In ambito marchigiano, Giachini si era in precedenza dedicato, come ci racconta, ad una serie di studi legati a questo tema prendendo in considerazione molti artisti come Bruno da Osimo, Renato Bruscaglia, Leonardo Castellani, Walter Piacesi, Giuseppe Mainini, Luigi Bartolini, Vito Giovannelli, Maria Adriana Gai e molti altri. A proposito del Bartolini, è bene precisare che questo illustre atrista del bulino, ha inciso non più di 8 ex libris, uno dei quali, dedicato al Mantero, fa parte del fondo Leboroni.

Goffredo Giachini, componente per molti anni del direttivo dell’Accademia dei Catenati di Macerata e collezionista, spiega: “La prima mostra fu fatta nella Galleria Galeotti in Piazza Vittorio Veneto, gestita dalla Fondazione Carima, poco dopo la Leboroni pensò di donare la sua preziosa collezione a Macerata. Mi sono fatto carico di classificare tutto questo materiale per renderlo disponibile a chi volesse godere di questo patrimonio”.

A introduzione del volume curato da Giachini troviamo una citazione esemplificativa da Bruno Marsili da Osimo: “La gemma che incastona l’aurea bellezza del libro è il suo ex libris. Al pari del cammeo e del niello, esso concentra in minime proporzioni la potenza dei grandi quadri”.

Dal Fondo Leboroni

Sul frontespizio di un Codice Giudiziario delle cause civili del principato di Trento del 1788 si leggeva questo motto:

“Hic liber est meus quem mihi dedit Deus, nomen non pono, quia laudari nolo; si tamen vis scire, in ultima pagina experire”.

All’ultima pagina lo sberleffo: “Si curiosus fuisti, nasu longo eccepisti”.

(Le dimensioni delle immagini presenti all'interno dell'articolo non rispettano quelle dei reali ex libris ma sono state ampliate per permettere una migliore fruizione)

Bibliografia

Beccaletto C. (1999), Le tematiche grafiche dell’ex libris, Roccalbegna, Grosseto.

Bragaglia E. (1988), Bibliografia Italiana degli ex libris, ed. TEMI.

Conforti A. (2019), Quelle piu modeste imprese. Gli ex libris: storia, linguaggio, stili, fortuna.

Giachini G. (2015), Gli Ex libris del fondo Leboroni della Biblioteca Statale di Macerata, Biblohaus.

Palmirani, R. (1999), Manuale dell'amatore di ex libris: guida illustrata alla storia, alla cultura ed al collezionismo degli ex libris dal XVI secolo ai giorni nostri. Essegi.

Raimondo L. (1952), Ex libris e marchi editoriali di L.Servolini, ed. Fiammenghi, 1952.

Torre G.C. (2009), Da segno di possesso a stumento di conoscenza. L’Ex libris una storia in breve, La Berio, anno XLIX- n.1 gennaio/giugno, pag. 8-17.


LA CASINA CINESE: UNA DIMORA PER GLI SVAGHI

A cura di Antonina Quartararo

La storia della Casina cinese: un amore a prima vista

Ferdinando IV di Borbone e la moglie Maria Carolina arrivarono a Palermo nel 1798, in fuga dalla città di Napoli, dopo 40 anni di regno, per i tumulti provocati delle truppe francesi e per trovare protezione sotto il protettorato inglese in Sicilia. Esule e lontano dalla sua residenza napoletana, per il re le battute di caccia e le sperimentazioni agricole rimanevano sempre una grande passione. Per far fronte a questo suo interesse per l’arte venatoria, il re diede l’incarico al viceré Giuseppe Riggio, principe di Aci, di acquistare i terreni situati nella cosiddetta “Piana dei Colli” sotto le pendici di Monte Pellegrino (Fig.1). All'interno di questi terreni (che corrispondono all’attuale Parco della Favorita) sorgeva un edificio ligneo dallo stile “stravagante” di proprietà dell’avvocato Benedetto Lombardo, che piacque molto al re Ferdinando IV che decise di ristrutturarlo per adibirlo a seconda residenza dopo il Palazzo reale. Per comprendere l’aspetto della preesistente casina lignea, ci rimane un importante acquerello realizzato da Pietro Martorana nel 1797, oggi conservato presso il Palazzo Reale del capoluogo siciliano (Fig.2). Da questo disegno si denota come l’originaria costruzione lignea, dagli evidenti caratteri orientali, aveva una pianta quadrata con tre elevazioni sormontati da tetti a pagoda e da ringhiere che ne ornavano il perimetro.

L’edificio attuale

Gli interventi ottocenteschi di trasformazione in residenza regale furono affidati all'architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia che si occupò anche di sistemare i giardini. L’architetto organizzò la casina a più livelli aggiungendo due terrazzi simmetrici cinti da colonnati e da un seminterrato (Fig.3). Dal 1802 la direzione dei lavori fu affidata al figlio di Marvuglia, Alessandro Emanuele, che concluderà i lavori. Partendo dall'ultimo livello dell’edificio si trova una grande terrazza coperta da un tetto a pagoda e una loggia ottagonale denominata “Sala della Specola” o “Stanza dei Venti” decorata all'interno dall'artista Rosario Silvestri. Al primo e al secondo piano vi sono delle balconate continue da cui si accede anche da due torri esterne con scale elicoidali realizzate da Giuseppe Patricolo nel 1806 (Fig.4).

Il seminterrato presenta dei portici ad archi acuti che ricordano lo stile gotico. I pronai dei prospetti nord e sud, a sei colonne di marmo, sono coronati da cornice a pagoda da cui si ricavano due piccoli terrazzi (Fig.5). Elementi tratti dallo stile Neoclassico sono le cornici di colore rosso, verde e ocra che delineano le porte e le finestre della facciata esterna. Le cancellate sono decorate con campanellini e i lampioni sono di gusto orientale (Fig.6).

Gli interni della Casina cinese

Per quanto concerne la decorazione degli interni, essa spazia tra lo stile cinese, quello turco e il gusto neoclassico (per lo stile pompeiano e le raffigurazioni di rovine). Il secondo piano adibito ad uso della regina Maria Carolina è composto da un “Salottino alla turca” (Fig.7 a-b) e dal “Salottino all’Ercolana”, di chiaro gusto neoclassico e ispirato alle scoperte archeologiche, decorato dal Silvestri (Fig.8). Un piccolo ambiente soprannominato “gabinetto delle pietre dure” aveva la funzione di studiolo ed è ornato da motivi ad intarsio (Fig.9 a-b). Sullo stesso piano è collocata la camera da letto con spogliatoio in stile neoclassico, decorata da piccoli medaglioni dove sono raffigurati i ritratti monocromi dei membri della famiglia reale ornati da didascalie dai toni amorevoli e affettuosi attribuiti al pittore napoletano Cotardi (Fig.10).

Fig. 8 - Salottino all’Ercolana.
Fig. 10 - Medaglione con autoritratto della regina Maria Carolina con scritto “Me stesso”.

Nel piano intermedio troviamo le stanze della servitù, delle dame e dei cavalieri decorate in stile neoclassico e da figure mitologiche. Al primo piano, da cui si accede tramite le due scalinate esterne del prospetto sud, troviamo la zona di rappresentanza con il “Salone delle Udienze” (Fig.11 a, b, c, d, e) impreziosito da pannelli in seta decorati con motivi cinesi e delle scritte in varie lingue: arabo, cinese ed ebraico (le scritte non possiedono alcun significato) e il “Salottino da gioco” decorato da Velasco con scene tratte dal mondo cinese e uccelli intrecciati a motivi ornamentali. A destra dell’entrata si trova la sala da pranzo con la “tavola matematica” progettata dal Marvuglia, dotata di un dispositivo a corde con il quale faceva salire e scendere le portate dalla cucina per evitare l’intervento fisico della servitù (Fig.12 a,b,c,d). Un tavolo simile si trova nel Petit Trianon situato all'interno dei giardini della Reggia di Versailles fatto installare da Luigi XV. Le pareti della sala da pranzo sono decorate con scene di vita quotidiana cinese in un’ambientazione campestre. A sinistra dell’entrata, invece, è disposta la stanza da letto del re Ferdinando IV delimitata da un’alcova con otto colonne in marmo bianco. Il soffitto fu dipinto da Velasco e Cotardi con figure di pavoni simbolo della fertilità e con personaggi cinesi abbigliati con vesti multicolori in atto di rendere omaggio ai dignitari seduti sotto grandi pagode (Fig.13).

Fig. 11e - Dettagli.

Nel seminterrato si trovano la camera da bagno in marmo con una grande vasca ovale incassata nel pavimento e la “Sala delle Rovine” con un tromp-l’oeil che raffigura nella volta una finta rovina avvolta dalla natura selvaggia e dall'umidità (Fig.14) attribuito a Raimondo Gioia, e la “Sala da Ballo” con due vani orchestra e ornata in stile Luigi XVI da Velasco (Fig.15). Dopo aver subito un accurato restauro la Casina cinese è stata riaperta al pubblico nel 2009.

Il gusto per le cineserie

La costruzione mostra con disinvoltura l’accostamento e la fusione di elementi esotici e orientali all'arte neoclassica, dando vita a quello stile che prende il nome di “eclettismo ottocentesco”.  All'epoca la Cina non era una terra molto conosciuta, ma la sua cultura raggiunse l’Europa, in particolare la Francia e poi Napoli soprattutto attraverso l’Inghilterra, mediante l’importazione di testi, stampe, porcellane e tessuti. Di questa cultura “cinese” se ne fece un’interpretazione artistica propria ed in Sicilia questo stile ebbe molto slancio, soprattutto nella città di Palermo, dato l’avvicinamento con l’Inghilterra durante la guerra napoleonica. Ulteriori testimonianze sono: la “Sala Cinese” dipinta dai fratelli Giovanni e Salvatore Patricolo all'interno degli appartamenti del Palazzo Reale di Palermo che veniva utilizzata spesso dai regnanti come sala da tè e il “Salottino alla cinese” decorato dal pittore Giovanni Lentini con sete e dipinti con temi d’ispirazione orientale realizzato presso il Palazzo Filangeri di Mirto a metà del XIX secolo (Fig.16).

Fig. 16 - Salottino alla cinese di Palazzo Filangeri Mirto (particolare).

 

Bibliografia

Bajamonte C. et al., Palermo l’arte e la storia. Il patrimonio artistico in 611 schede, Palermo 2016.


LA CAPPELLA DELLA SACRA SINDONE

A cura di Francesco Surfaro
Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Sublime parto dell'estro anticonvenzionale di Guarino Guarini, la Cappella della Sacra Sindone è un unicum all'interno del panorama architettonico europeo. Dopo il disastroso incendio che, nel 1997, ha rischiato di distruggerla per sempre, è rinata dalle proprie ceneri grazie ad una lunga e complessa opera di restauro.

La storia

Tra 1576 e 1577 una violenta epidemia di peste imperversava a Milano e in diversi altri centri dell'Italia settentrionale e della Sicilia. Al fine di impetrare la liberazione della città dal terribile morbo, il cardinale-arcivescovo metropolita del capoluogo lombardo, Carlo Borromeo, pronunziò solennemente il voto di compiere un pellegrinaggio penitenziale a piedi fino alla Sainte-Chapelle di Chambéry, per venerare la Sacra Sindone ivi custodita. Secondo la tradizione cattolica, tale reliquia - un lenzuolo di lino intriso del sangue di un uomo flagellato e crocifisso - sarebbe il sudario entro il quale, dopo la morte e la deposizione dalla croce, venne avvolto il corpo di Cristo prima di essere sepolto. Il sacro cimelio era di proprietà dei Savoia sin dal 1453, data in cui la nobile francese Marguerite de Charny lo cedette a Ludovico di Savoia. Venuto a conoscenza del voto di Borromeo, Emanuele Filiberto di Savoia detto il "Testa di Ferro", abile diplomatico e scaltro stratega, incaricò il canonico Neyton di traslare definitivamente il Santissimo Sudario dall'ex capitale transalpina del ducato sabaudo alla nuova capitale, Torino. In questo modo il duca intendeva ingraziarsi l'illustre porporato milanese (uno dei principali fautori della Controriforma), che così facendo si sarebbe risparmiato diversi chilometri, e portare più vicino a sé quello che era considerato come una sorta di palladio dinastico. Nel 1578, al termine della pestilenza, la Sindone venne trasferita ed accolta in pompa magna alle porte di Torino con un solenne corteo processionale, che la scortò fino al Palazzo Ducale. Il viaggio verso la capitale fu tutt'altro che facile: era infatti divenuto indispensabile percorrere sentieri meno diretti che fossero fuori dal raggio d'azione degli ugonotti, i quali, appresa la notizia della traslazione, avevano manifestato la volontà di impadronirsi della Sindone per distruggerla. L'undici ottobre dello stesso anno, nella cornice del coro della Cattedrale di San Giovanni Battista, si tenne l'evento epocale dell'ostensione della sacra reliquia alla presenza del cardinale Borromeo che, il giorno precedente, appena arrivato in città, aveva sciolto in forma privata il proprio voto presso la chiesa romanica di Sancta Maria ad Praesepe (la futura Real Chiesa di San Lorenzo).

Giovanni Francesco Testa - Prima solenne ostensione della Sacra Sindone a Torino alla presenza di Carlo Borromeo (al centro), 1578, acquaforte e bulino su carta. Racconigi, Castello di Racconigi. Copyright fotografico: Vatican News.

 

Interni della Sainte- Chapelle a Chambéry. Copyright fotografico: Christian Pourre - www.hautesavoiephotos.com.

Morto nel 1580, Emanuele Filiberto ordinò per disposizione testamentaria che fosse edificato un luogo di culto in cui il sacro lino potesse "con degna pompa venerarsi" e lì voleva che fosse preparata la propria sepoltura. Lasciò inoltre scritto che la costruzione dell'edificio doveva essere finanziata interamente con le elemosine raccolte nel corso dei suoi funerali. In attesa dell'inizio dei lavori, la Sindone rimase all'interno del duomo presso la cappella dei santi Stefano e Caterina, nella navata sinistra. Due a questo punto erano le soluzioni possibili che si prospettavano per la custodia del sacro vestigio: innalzare un grande spazio liturgico indipendente dalla cattedrale e con un convento annesso per la cura dei sacri uffizi, che fosse collocato in una posizione eminente all'interno della città, oppure erigere un altare sotto la crociera della cattedrale, la cui imponenza doveva essere direttamente proporzionale all'importanza della reliquia. Per ovviare alla questione venne interpellato l'architetto e pittore Pellegrino Tibaldi detto Pellegrino de' Pellegrini, personaggio chiave per l'arte lombarda post-tridentina molto vicino a Carlo Borromeo. Tibaldi, incaricato dall'Eccellenza milanese di fare pressioni sul nuovo duca Carlo Emanuele I, affinché non custodisse il sacro telo all'interno di una cappella palatina accessibile a pochi, ma in un luogo dove potesse essere oggetto di venerazione da parte di tutti i fedeli, progettò un altare provvisorio da collocarsi nel presbiterio del duomo, in attesa dell'avvio del cantiere per la costruzione di una grande chiesa in Piazza Castello. Tuttavia, nel 1584, con la dipartita di Borromeo, il Pellegrini, sentendosi sollevato dai propri oneri nei confronti del duca, non diede più notizie di sé a Torino. Fu così che il Santissimo Sudario venne posto all'apice di un apparato effimero collocato un poco innanzi all'altare maestro della cattedrale, descritto dalle fonti come un'edicola sorretta da quattro colonne in legno tinte d'azzurro ed ornata con angeli dorati che sostenevano un baldacchino. Quella che doveva costituire una soluzione provvisoria, a ragione delle continue lotte intestine scatenate dal forte accentramento dei poteri voluto da Emanuele Filiberto prima, e proseguito dal figlio poi, divenne stabile per i successivi ottantatré anni. Si rese perciò necessario sostituire la scenografia lignea con un imponente altare aulico caratterizzato da un basamento lapideo, quattro mastodontiche colonne in marmo nero di Frabosa (poi riutilizzate per ornare uno dei due portali d'accesso all'attuale cappella) ed un'elaborata struttura lignea apicale.

La Cappella della Sacra Sindone: l'Ellissoide di Vitozzi e Castellamonte padre

Ascanio Vitozzi e Carlo di Castellamonte - Pianta del progetto per la Cappella della Sacra Sindone, 1611 circa. Dall'Album Valperga.

Risoluto a rispettare le ultime volontà paterne, Carlo Emanuele I si rivolse all'ingegnere ducale Ascanio Vitozzi (o Vittozzi) e al suo collaboratore, Carlo Cognengo di Castellamonte, i quali, accantonati i progetti del loro predecessore, tra il 1610 e il 1611 iniziarono a valutare la realizzazione di una cappella a pianta ellittica incastonata tra il Palazzo Ducale e il duomo, accessibile tramite un vano di collegamento ricavato nel coro. Con chiare implicazioni simboliche, l'ambiente fu pensato perfettamente in asse con la dimora di rappresentanza del reggente e rialzato rispetto a San Giovanni. Questo espediente architettonico rimarcava anzitutto la dicotomia tra le due sedi del potere spirituale e temporale, ribadiva il fatto che si era difronte ad una committenza squisitamente ducale e non religiosa e, non in ultimo, costituiva una forte dichiarazione propagandistica atta a dimostrare che la casata aveva la piena approvazione divina in quanto custode della (presunta) prova tangibile della risurrezione di Cristo. Il progetto doveva essere grandioso, non soltanto nell'apparato ornamentale interno, previsto in pregiatissimo marmo nero e bronzo dorato, ma anche nella struttura, che doveva sconfinare di molto nello spazio destinato al cortile palatino. La facciata dell'oratorio sarebbe stata ricavata nell'abside tramite l'abbattimento dell'esedra semicircolare. Nel 1624 erano state soltanto gettate le fondamenta quando i lavori subirono un arresto e non progredirono né nel corso della breve amministrazione di Vittorio Amedeo I, né durante i turbolenti anni di reggenza della sua vedova, la Madama Reale Maria Cristina di Borbone-Francia.

Un nuovo progetto: Quadri e Castellamonte figlio

Si dovette attendere la piena assunzione del potere da parte del loro erede, Carlo Emanuele II, per lo sblocco del cantiere, avvenuto nel 1657 dopo le varie pressioni dello zio, il cardinale Maurizio, il quale, memore del terribile incendio scoppiato il 4 dicembre del 1532 all'interno della Sainte-Chapelle di Chambéry, che causò danni irreparabili alla reliquia, aveva espresso il proprio legittimo timore di continuare a custodirla sopra un altare incessantemente illuminato da lanterne che, nella sua parte apicale - dove era collocato lo scrigno del sacro lino - era interamente in legno. La direzione della fabbrica venne affidata al ticinese Bernardino Quadri, più abile come scultore e stuccatore che come architetto, e perciò sottoposto alla supervisione dell'ingegnere ducale Amedeo Cognengo di Castellamonte, figlio del già citato Carlo di Castellamonte. Ritenendo ormai superata la pianta ellissoidale, i due optarono per un'aula liturgica a pianta circolare rialzata di parecchi metri (è bene ricordare che nel precedente progetto si parlava di una sopraelevazione di 1 o 2 metri, qui si trattava invece di ben 6-7 metri) rispetto al piano di calpestio di San Giovanni, che fosse contenuta all'interno di uno spazio quadrato nella manica ovest del Palazzo Ducale. Il notevole innalzamento della cappella rispetto al duomo avrebbe permesso una vista privilegiata sull'altare-reliquiario anche dall'interno della basilica al piano inferiore, grazie ad un monumentale finestrone ricavato nel coro con l'abbattimento dell'abside. I fedeli potevano avere accesso all'oratorio tramite due scaloni introdotti da enormi portali in marmo nero posti in fondo alle navate minori, uno per salire e l'altro per scendere, perfetti per evitare resse e assembramenti in caso di grandi afflussi di pellegrini; i Savoia, invece, potevano accedere all'ambiente sacro per mezzo di un portale posizionato al primo piano del loro palazzo. In ossequio alle richieste di Carlo Emanuele II, i progettisti pensarono ad una cupola che per altezza, imponenza e bellezza doveva superare quella più spartana della cattedrale rinascimentale. Dopo la demolizione delle fondamenta dell'ellissoide, i lavori di edificazione procedettero spediti nei nove anni successivi fin quando, arrivati alla trabeazione del primo livello, ci si rese conto che la struttura aveva delle forti criticità statiche. Non essendo in grado di porre rimedio a queste, Quadri fu sollevato dall'incarico nel 1666. Proprio in quest'anno le ricevute di pagamento documentano l'ultima retribuzione dovuta all'autore del progetto fallimentare. A lui subentrò, nel 1668, il padre teatino modenese Guarino Guarini, giunto a Torino due anni prima, su invito del suo ordine, per portare a termine la Real Chiesa di San Lorenzo.

All'improvviso, il genio

In foto: Ritratto di Guarino Guarini dal frontespizio dell'Architettura Civile, pubblicazione postuma del 1737. Copyright fotografico: Wikimedia Commons.

Visto lo stato estremamente avanzato in cui versavano i lavori, Guarini non poté fare altro che mantenere l'assetto planimetrico del fabbricato, di cui però stravolse completamente il linguaggio. Prima di tutto si occupò di rafforzare e reintegrare la fragile struttura ideata dal predecessore, e riplasmò radicalmente lo scalone di destra, che risultava già ultimato. Per le lesene di ispirazione corinzia, questi pensò ad una nuova interpretazione simbolico figurativa legata alla Passione di Cristo del tradizionale capitello ornato con foglie d'acanto e volute, inserendo al loro posto elementi dalla forte carica allusiva, quali i rami d'ulivo (che rimandano all'agonia di Cristo nell'Orto del Getsemani), una corona di spine e un fiore di passiflora da cui emergono tre chiodi e il Titulus Crucis (il cartiglio con la motivazione della condanna di Cristo, appeso all'altezza del suo capo durante la crocifissione). Riprendendo i pennacchi della croce greca prevista dal progetto di Quadri, li ridusse da quattro a tre, inscrivendo all'interno della pianta circolare un triangolo, nei vertici del quale collocò dei vestiboli circolari, uno in corrispondenza dell'ingresso da Palazzo Ducale e gli altri due a conclusione degli scaloni monumentali. In luogo dei piedritti che avrebbero dovuto sostenere la basica cupola emisferica voluta da Castellamonte, andò a posizionare dei grandi fastigi ornamentali, sui quali svettano delle valve di conchiglia. Oltre il primo ordine, l'architetto dimostrò immediatamente di volersi distaccare, nella maniera più netta possibile, dai progetti a lui antecedenti, impostando una vertiginosa struttura a torre che andasse ad evocare nell'osservatore l'idea di un'ascesa vorticosa verso l'Infinito. Nel bacino tronco, al fine di snellire il più possibile il peso del costruito, aggiunse tre poderosi arconi, mentre nei pennacchi e nelle lunette aprì sei finestroni circolari, dai quali i raggi solari filtrano attenuati da apposite camere di luce, create per assolvere al duplice compito di direzionare i fasci luminosi in modo indiretto e soffuso sulle superfici lapidee interne, e di celare alla vista i contrafforti e i tiranti di rinfianco. L'adozione di questa serie di accorgimenti gli permise di ridurre di 1/4 l'ampiezza del diametro di imposta del tamburo, e gli consentì di dare piena soddisfazione alla richiesta ducale dell'edificazione di una cupola che fosse maggiore in altezza di quella del duomo. Abbondanti sono gli elementi simbolici, frutto di una mente erudita e raffinata: nelle ghiere dei tre grandi archi, i chiodi alternati a foglie d'ulivo stilizzate alludono alle sofferenze fisiche e spirituali di Gesù Cristo; nei tre pennacchi le croci greche e ierosolimitane rimandano al mistero dell'Umana Redenzione e allo stemma di Casa Savoia; nei lunettoni, infine, gli esagoni e le stelle a sei punte simboleggiano la Creazione e l'Empireo, il più alto dei nove cieli. Salendo nel tamburo, al livello successivo, Guarini alleggerì ulteriormente la struttura introducendo un camminamento anulare interno e sei enormi finestroni ad arco, dai quali la luce penetra in quantità evocando suggestivi effetti teatrali. Lo spazio tra un finestrone e l'altro venne ricolmato dal posizionamento di sei nicchie a tabernacolo. Nei pennacchi della cupola, la presenza della figura geometrica del pentagono assume ancora una volta una valenza simbolica: rievoca infatti le cinque piaghe, ovvero le ferite delle mani, dei piedi e del costato inferte al Nazareno durante il supplizio della crocifissione.

Una cupola per la  Cappella della Sacra Sindone

Cappella della Sacra Sindone. L'intradosso della cupola guariniana.

Perfetto connubio tra razionalismo e misticismo matematico, la cupola, o meglio, la pseudocupola della Cappella della Sacra Sindone si configura come una delle architetture più ardite e complesse dell'intera stagione barocca europea. Grazie allo studio sulle tecniche costruttive del gotico francese e delle strabilianti architetture stereotomiche del mondo islamico, Guarini pose in essere una struttura a scheletro, portante e ornamentale al tempo stesso, formata da una fitta rete di "cellule spaziali indipendenti" (Gianfranco Gritella - "Il Contributo italiano alla storia del Pensiero" - Tecnica, 2013) che si intersecano e ruotano attorno ad un unico fulcro che ha per base un poligono regolare, l'esagono, simbolo biblico della Creazione (svoltasi, secondo la Genesi, in sei giorni). In questo progetto trova la sua piena esemplificazione la concezione guariniana - mutuata in parte dal Borromini - di architettura, vista come un organismo vivo e pulsante, in perenne movimento, generato dall'incontro di spazi indipendenti e di forme pure che, concatenandosi, si influenzano reciprocamente dando vita alla struttura. Quella dimensione unificata ed armoniosa dei vari elementi architettonici autonomi che caratterizza le creazioni di Borromini è totalmente assente in Guarini, che anzi, provava gusto nel proporre soluzioni eterogenee e bruschi mutamenti di forma privi di qualsiasi elemento di transizione.

Cappella della Sacra Sindone, il cestello della pseudocupola. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Per realizzare il cestello della pseudocupola diafana, l'architetto giustappose sei livelli di sei piccoli archi a sesto ribassato digradanti verso l'alto, che in pianta corrispondono ad altrettanti sei ordini di esagoni che via via si restringono posando gli angoli degli uni sui lati degli altri. Questo moto continuo trova il suo apice nella stella-sole a dodici punte minori e dodici raggi maggiori, posta a conclusione del climax ascendente dei multipli di tre che si snoda lungo tutto l'impianto della cappella. Al centro del cupolino-lanterna, che appare inondato di luce grazie a dodici finestrelle ovoidali molto ravvicinate fra loro, si libra in volo la colomba dello Spirito Santo pendente da una complessa raggiera a base cilindrica, costituita da 240 bacchette in legno d'abete dorato a foglia di diverse dimensioni, poste in gruppi da 7 o da 12 su tre piani sovrapposti e con inclinazioni differenti. Fa da sfondo a questa geniale macchina scenografica un cielo tempestoso, grigio, quasi monocromatico, popolato da sei coppie di cherubini, che fu affrescato nel 1680 da Carlo Giuseppe Cortella.

Cappella della Sacra Sindone, pseudocupola. Fonte: torino.repubblica.it

Benché dall'esterno la cupola non appaia particolarmente alta, dall'interno il visitatore avrà l'impressione che questa sia molto più estesa di quello che effettivamente è. Questo avviene perché Guarini studiò accuratamente un gioco prospettico al fine di donare un'altezza fallace alla propria creatura, e per fare ciò tenne conto di tre importanti fattori:

  • la geometria: diminuendo l'ampiezza degli archetti depressi al crescere dell'altezza l'architetto mise a punto una struttura "a cannocchiale";
  • la luce: più la fonte luminosa è intensa meno l'occhio umano avrà la capacità di distinguere i contorni dell'oggetto illuminato, il quale verrà percepito più lontano. Proprio per questo Guarini fece in modo che la luce filtrasse abbondantemente dalle svariate aperture del tamburo e della cupola e che divenisse sempre più rarefatta scendendo verso il basso. Con lo scopo di catturare più luce possibile, i marmi dell'intradosso non vennero rifiniti con la lucidatura ma soltanto levigati;
  • il colore: in piena adesione ai canoni della prospettiva aerea di leonardesca memoria, secondo cui un colore appare più scuro quando è vicino mentre diviene più chiaro man mano che ci si allontana, nelle due scalinate e alla base dell'aula cultuale fu impiegato largamente il marmo nero di Frabosa, dal bacino tronco in poi si adoperò il marmo bigio.

In assenza della calotta emisferica, tradizionale simbolo della dimensione celeste dove la divinità ha la propria sede, sono gli stessi raggi del sole che trafiggono in ogni dove la cupola a simboleggiare la manifestazione del divino. Questo era molto più evidente in origine, quando il fedele veniva invitato a percorrere una delle due scalinate ripide e anguste, incupite dal marmo nero e formate da trentatré gradini ciascuna (uno per ogni anno della vita terrena di Gesù Cristo), al termine delle quali era ubicato un vestibolo circolare, aggiunto allo scopo di incutere un senso di inquietudine e vago mistero. Più avanti, la penombra, accentuata ulteriormente dal materiale lapideo scurissimo che riveste tutto il primo ordine della cappella, risultava gradualmente attenuata da una luce sempre meno fioca, fino a che lo sguardo non veniva inaspettatamente rapito dalla sbalorditiva visione estatica della cupola. Questo percorso ascensionale era densissimo di significato: tutti coloro che intendevano accostarsi a venerare la Sacra Sindone, difatti, dovevano prima ripercorrere il cammino tortuoso della Via Dolorosa per mezzo della gradinata scoscesa, attraversare le tenebre della morte e del peccato simboleggiate dal nero dei marmi, ed infine rigenerarsi nella teatralissima visione della luce filtrante dal cestello guariniano. In breve, entrare nella Cappella della Sacra Sindone significava rivivere spiritualmente i misteri pasquali della Passione, morte e resurrezione del Redentore attraverso un articolato sistema di simbologie.

Il bizzarro estradosso della cupola si palesa con una foggia piuttosto orientaleggiante, tanto da assomigliare più ad una pagoda che alla copertura di una chiesa. Le sei serliane del tamburo in laterizio donano alla struttura un caratteristico profilo sinusoidale. I candidi capitelli delle lesene di ispirazione corinzia presentano un motivo ornamentale formato da petali di iris. Nel livello successivo i dodici costoloni sono coronati da urne. In alto, il pinnacolo, ispirato alla lanterna del Sant'Ivo alla Sapienza borrominiano, è puntellato da numerose finestrelle ovoidali vere alla base e fittizie sopra, che si diradano in numero e in ampiezza man mano che si avvicinano all'apice. Sulla sommità svetta un globo dorato sovrastato da una croce, tre chiodi, una corona di spine e uno stendardo con lo stemma sabaudo, forgiato nel 1683 dal serragliere Pietro Tarino.

L'altare-reliquiario

Il 15 maggio del 1680 i lavori non erano del tutto terminati quando, con una Messa solenne officiata su un altare ligneo provvisorio, Guarini stesso (divenuto nel frattempo predicatore e teologo del Principe di Carignano) consacrava al culto divino la Cappella della Sacra Sindone, e da questo si evince che all'epoca fosse già agibile. Tre anni dopo, un 6 di marzo, il padre teatino si spegneva, lasciando incompiuti i pavimenti, una scalinata e, soprattutto, l'altare-reliquiario che avrebbe dovuto custodire il Santo Sudario. Come suo successore alla direzione dei cantieri fu nominato, nel 1685, il grande matematico livornese Donato Rossetti (che in passato si era platealmente scontrato con un fraterno amico di Guarini, Montanari, riservando critiche asperrime anche nei confronti dei progetti dell'architetto) giunto a Torino nel 1674 e prescelto, appena un anno dopo, come professore di Scienze Matematiche presso l'Accademia di Piemonte, nonché come precettore del futuro re di Sicilia Vittorio Amedeo II. L'esperienza di Rossetti all'interno del cantiere fu brevissima, passò infatti a miglior vita nel 1686. Lo sostituì un suo allievo degli anni piemontesi, il muzzanese Antonio Bertola (illustre predecessore di Filippo Juvarra e primo in assoluto ad essere fregiato con il titolo di "Primo Architetto di S. A. S."), che si occupò di portare a compimento le parti lacunose e di realizzare il disegno della scintillante custodia della Sindone.

La Cappella della Sacra Sindone. Copyright fotografico: Daniele Bottallo.

Tenendo conto della forma circolare dell'aula, Bertola realizzò al centro geometrico della stessa un altare bifronte a due mense - una rivolta verso la Cattedrale di San Giovanni Battista l'altra verso Palazzo Ducale - che risultava rialzato dal piano di calpestio per mezzo di sei scalini. La sua centralità era sottolineata dal complesso disegno del pavimento realizzato ad intarsio, composto da cerchi concentrici tempestati da una miriade di stelle in ottone dorato posizionate a loro volta entro croci greche in marmo bigio, che convergendo verso il centro, si restringevano sempre di più. Il corpo dell'altare fu realizzato in marmo nero ed arricchito da inserti, ornamenti e sculture in legno o metallo dorato, affinché questo, illuminato dalle quattro lanterne pendenti dal fastigio, risplendesse nella penombra del primo livello della cappella. Nella parte centrale, in una teca di cristallo, oltre una grata in ferro dorato, era custodito il prezioso scrigno cinquecentesco in argento e pietre dure contenente la Sindone. Sopra la balaustra erano posizionati otto putti lignei in atteggiamento orante o con espressione affranta, alcuni dei quali recanti i chiodi della crocifissione; ai lati della teca, invece, si trovavano quattro angeli con i simboli della Passione, tutti scolpiti tra 1692 e 1694 dai mastri intagliatori Cesare Neurone e Francesco Borello, cui vanno ascritti anche i simmetrici puttini reggi- lanterna e la splendida raggiera con cherubini e angeli adoranti sul fastigio. Nel 1694, finalmente, si poté mettere la parola fine sull'ormai centenario cantiere della Cappella della Sacra Sindone con la collocazione della reliquia all'interno del suo fulgido altare.

Altri interventi

Nel 1825 il re Carlo Felice, ultimo esponente del ramo principale dei Savoia, diede l'incarico al Regio Primo Architetto Carlo Randoni di realizzare in corrispondenza della monumentale balconata ad arco sghembo di affaccio sul duomo il Grande Chiassilone, un finestrone vetrato in legno di noce e ferro d'Aosta alto circa 12 metri, avente la funzione di isolare la cappella dal freddo, dalle correnti d'aria e dai rumori provenienti dalla Cattedrale al piano inferiore. Il successore di Carlo Felice, Carlo Alberto, primo re appartenente al ramo collaterale dei Savoia-Carignano, volle trasformare la Cappella della sacra Sindone in una sorta di mausoleo della propria dinastia, commissionando quattro monumenti funebri marmorei in stile neoclassico dedicati ad alcuni dei più illustri esponenti della casata, i cui resti furono riesumati per essere tumulati all'interno delle nuove sepolture.

Il carrarese Benedetto Cacciatori eseguì il sepolcro di Amedeo VIII, primo duca di Savoia, promulgatore degli Statuta Sabaudiae (1430) e papa scismatico sotto il nome di Felice V; Innocenzo Fraccaroli scolpì invece il monumento a Carlo Emanuele II, colui che aveva riaperto i cantieri della cappella affidando l'incarico della direzione di questi prima a Bernardino Quadri e poi a Guarino Guarini; il genovese Giuseppe Gaggini si occupò del gruppo dedicato al Principe Tommaso, capostipite del ramo cadetto dei Savoia-Carignano; ed infine, il lombardo Pompeo Marchesi lavorò al monumento sepolcrale di Emanuele Filiberto il "Testa di Ferro", valoroso e caparbio condottiero che spostò la capitale del ducato sabaudo da Chambéry a Torino (1563), fece traslare la Sindone nella nuova capitale (1578) e fu il primo a volere l'edificazione di un luogo di culto adatto a custodire in maniera più che decorosa la sacra reliquia.

Sempre nel corso degli interventi ottocenteschi, alle estremità della balaustra dell'altare furono aggiunti a quelli barocchi altri due angeli oranti in marmo bianco.

L'incendio e il restauro

Cappella della Sacra Sindone, fotogramma del drammatico incendio del 1997. Fonte: mole24.it

Il 4 maggio del 1990, proprio nel giorno che il calendario liturgico dedica alla festa del Santissimo Sudario, delle infiltrazioni d'acqua portarono al distacco di un frammento marmoreo dal cornicione della cupola, che cadde rovinosamente sulla pavimentazione danneggiandola. Fortunatamente non ci furono vittime o feriti. L'accesso ai fedeli venne interdetto tempestivamente e tre anni dopo partirono i lavori di restauro. Proprio quando quegli interventi di conservazione si stavano avviando verso la conclusione, nella notte fra l'11 e il 12 aprile del 1997, a causa di un cortocircuito presero fuoco le tavole di legno dei ponteggi in fase di smontaggio e, in poco tempo, all'interno della struttura divampò un terribile incendio che creò cedimenti strutturali e crolli. Gli ingenti danni generati dalla furia devastatrice delle fiamme furono paradossalmente corroborati dalle operazioni di spegnimento: i potenti getti d'acqua gelida, riversandosi sui marmi incandescenti, diedero origine ad uno shock termico che fu cagione di alcune gravi alterazioni dei materiali lapidei. Si registrarono difatti fratturazioni, rigonfiamenti, esfoliazioni e distacchi. Alla sola leggera pressione della mano i marmi si disgregavano. Per scongiurare il collasso, l'edificio venne immediatamente messo in sicurezza con il posizionamento di cerchiature e catene metalliche provvisorie. Si aprì un lungo e complesso "cantiere della conoscenza" per approfondire le tecniche costruttive impiegate da Guarini (mai indagate prima di allora), indispensabile vista l'assenza dei disegni originali dell'architetto e la lacunosità dei documenti d'archivio.

Al termine dei dovuti studi preliminari, nei primi anni 2000, dopo la rimozione dei detriti, la constatazione dei danni (l'80% delle superfici in pietra era da ripristinare) e il monitoraggio della stabilità, si entrava nel vivo del ripristino architettonico, atto a restituire al monumento la stabilità e la propria immagine. Si è scelto di perseguire una linea di approccio al restauro rigidamente conservatrice, pertanto, al fine di mantenere quanta più materia lapidea originaria possibile, gli elementi marmorei sono stati sostituiti solo se irreversibilmente compromessi. Per reperire il marmo funzionale alle reintegrazioni, nel 2007 sono state riaperte le cave - quasi del tutto esaurite già nel Seicento - di marmo nero e bigio di Frabosa Soprana, nel cuneese. Le quantità materiche (27 blocchi in tutto) ricavate da queste si sono rivelate insufficienti per coprire l'intero fabbisogno del cantiere, perciò è stato necessario optare per l'utilizzo anche di altre varietà esteticamente simili a quelle impiegate in antico: un marmo nero proveniente dalle Alpi Orobie e uno grigio dalle Alpi Apuane. Dove non è stato possibile ricomporre ed assemblare i frammenti originali, con l'ausilio della modellazione 3D sono state ricostruite le porzioni mancanti. Per consolidarla strutturalmente e ridonare alla pietra di cui è costituita valore portante, la cupola è stata sottoposta ad una delicata operazione di smontaggio e rimontaggio integrale, sospendendo la struttura temporaneamente al di sopra di impalcati per sostituire gli elementi danneggiati. Sono stati inoltre rifatti i tetti e le coperture in piombo, cambiate le catene e le cerchiature metalliche, posizionati nuovi serramenti. Si è poi provveduto al risanamento della lesione formatasi all'altezza del tamburo. Gli interventi di pulitura del cupolino hanno restituito nuova luce alle pitture del Cortella, la cui lettura risultava negata da una scialbatura postuma color ocra. Infine, il Chiassilone e la raggiera con la colomba dello Spirito Santo, andati distrutti durante l'incendio, sono stati ricostruiti in maniera filologica.

Dopo 28 anni di chiusura al pubblico e a 21 anni dall'incendio, la Cappella della Sacra Sindone è stata restituita alla città di Torino e alla collettività il 28 settembre 2018. Persa la propria originaria funzione di custodire il Santissimo Sudario (ora conservato in condizioni particolari all'interno di una teca collocata sotto la Tribuna Reale del duomo, presso il transetto sinistro) è stata inserita all'interno del percorso dei Musei Reali. Con la musealizzazione l'accesso dalla cattedrale è stato interdetto.

Il restauro, uno dei più complicati che siano mai stati realizzati, è risultato tra i vincitori degli European Heritage Awards 2019 per la categoria Conservazione. Il suo costo, ammontato a circa 30 milioni di euro, è stato finanziato grazie al contributo di diversi enti:

- Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo: 28 milioni;

- Compagnia di San Paolo: 2,7 milioni;

- Fondazione Specchio dei Tempi di "La Stampa": 645.000 euro;

- Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali: 150.000 euro;

- Iren – Performance in Lighiting: 125.000 euro.

 

Bibliografia

Maurizio Momo, Il Duomo di Torino, trasformazioni e restauri, Ed. Celid, Torino 1997;

Giuseppe Dardanello, Guarino Guarini, Allemandi, Torino 2006;

Carlotta Venegoni, Il Duomo di Torino: Fede, arte e storia. La Santa Sindone, Effatà Editrice, Torino 2015;

Luca Caneparo, Fabbricazione digitale dell'architettura. Il divenire della cultura tecnologica

del progettare e del costruire, Francoangeli s.r.l., Milano 2012;

Gian Maria Zacconi, La Sindone, una storia nella storia, Effatà Editrice, Torino 2015;

 

Sitografia

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https://www.finestresullarte.info/flash-news/5095n_premiazione-parigi-restauro-cappellasindone.php


LE STELE IN ABRUZZO: ENIGMI E GUERRIERI

A cura di Simone Lelli

Dopo aver analizzato i siti archeologici più importanti d’Abruzzo, in questo terzo articolo si approfondirà il significato e l’uso delle stele in Abruzzo, soffermandosi particolarmente sulle enigmatiche stele di Penne Sant’Andrea e sull'emblematico simbolo dell’Abruzzo archeologico ovvero il guerriero di Capestrano.

Origine del termine

Il termine stele (dal greco στήλη, in latino stela o stele) indica generalmente una lastra di marmo o pietra, ornata con decorazioni in bassorilievo o incisioni, posta su un basamento o conficcata nel terreno. Solitamente la stele aveva una funzione di tipo funerario ovvero ricordare il defunto, ma poteva essere utilizzata anche in altre circostanza come lo scioglimento di un voto (stele votiva), raccontare un fatto memorabile accaduto in quel luogo o indicare una zona di confine. Qualsiasi sia stato il loro utilizzo, le stele comparvero per la prima volta già nel neolitico ed ebbero il massimo splendore durante il periodo classico, prima con i greci e successivamente con l’impero romano. Così come in tutta la penisola anche nel territorio abruzzese si sviluppò la cultura dell’utilizzo della stele.

La Stele di Guardiagrele

Nel 1965 fu ritrovata una stele in Abruzzo, nei pressi di Guardiagrele (CH) (fig.1), databile alla seconda metà del VII secolo a.C., considerata la più antica stele dell’area abruzzese. Raffigurante probabilmente un guerriero italico, la stele in calcare è di forma rettangolare appiattita e presenta delle decorazioni in basso rilievo di una corazza e degli armamenti; infatti sul petto troviamo una disco-corazza con due cinghie, inoltre è incisa una lancia con un grande puntale e una collana con dei pendagli. Attualmente la stele è conservata presso il Museo archeologico “Filippo Ferrari” a Guardiagrele (CH).

Fig. 1 - Stele di Guardiagrele (CH).

Il Guerriero di Capestrano

Una delle stele in Abruzzo, e in generale italiche, più famosa è sicuramente quella del “Guerriero di Capestrano” (fig.2) divenuto oramai uno dei simboli dell’Abruzzo: venne alla luce nella piana di Capestrano nel settembre del 1934, quando un contadino di nome Michele Castagna, intento a piantare la vigna, colpì inavvertitamente una statua funeraria di un principe guerriero risalente al IV secolo a.C. Il reperto fu portato immediatamente al Museo Nazionale di Roma; successivamente nel luogo del ritrovamento furono avviate campagne di scavo guidate dall'archeologo Roberto Moretti, il quale portò alla luce una necropoli con alcune tombe e corredi funerari datati al VII-VI secolo a.C. Il Guerriero assume importanza in considerazione del fatto che le testimonianze di scultura etrusco-italica sono abbastanza rare per la qualità modesta della pietra allora disponibile, prima della scoperta del marmo, e per l’utilizzo della terracotta, materiale facilmente deperibile. Il reperto, una statua funeraria alta due metri e mezzo e ampia (nella spalle ampiezza massima) centotrentacinque centimetri, fu ricavata da un blocco unico di pietra calcare locale e raffigura una figura maschile con le braccia piegate sul corpo, la destra posta sul torace e la sinistra sul ventre. L’anatomia risulta semplificata e geometrica, inoltre i fianchi sono molto sviluppati e il torace triangolare. La statua originariamente doveva essere posta sopra un tumulo di terra, posto sulla la tomba del defunto, poggia su un plinto[1] di pietra ed è sostenuta da due colonnine, inoltre presenta tracce di policromia. La testa è coperta da copricapo discoidale completato da una calotta semisferica con una cresta innestata che genera una sorta di coda: il copricapo fu realizzato in un blocco di fango carbonato e inserito sul capo del guerriero con un sistema ad incastro, mentre i lineamenti del volto sono stilizzati a tal punto di far ipotizzare che in realtà sia una maschera o un elmo. Molto curato è l’armamentario della stele (fig.3); una lunga spada con impugnatura decorata da figure umane disposte in duplice ordine, con l’elsa a crociera[2] e una guaina con la figura di una coppia di quadrupedi; un pugnale sovrapposto alla spada; due lunghe lance e un’ascia, ben tenuta dalla mano destra, l’oggetto più importante, che, a causa del suo manico assai lungo, fa pensare ad uno scettro, simbolo del comando. La corazza, presenta all'altezza del cuore, dei kardiophylakes, (dischi proteggicuore); l’addome è difeso da una lastra sagomata retta da cinque fasce e cinghie incrociate; le tibie coperte da schinieri[3] e i piedi da calzari e corregge[4] poste al di sotto dei malleoli. Su entrambi gli avambracci il guerriero presenta due armille[5]; ben visibile intorno al collo un collare con pendagli nella parte anteriore. La ricca panoplia[6] e i raffinati ornamenti a corredo del guerriero hanno fatto da subito pensare ad un personaggio importante e di rango elevato, sicuramente un principe o un re italico. La statua come detto precedentemente è sorretta da due piccoli pilastri che recano delle iscrizioni in lingua italica arcaica probabilmente in osca sud-picena: MA KUPRI KORAM OPSUT ANI..S  RAKI  NEVI  PO...M. II” la cui traduzione diventa “ME BELLA IMMAGINE FECE/ FECE FARE ANINIS PER IL RE NEVIO POMPULEDIO”, con questa iscrizione possiamo risalire all'autore o committente dell’opera e all'identità del defunto, un caso rarissimo per l’arte in questo periodo cronologico. Sempre secondo l’iscrizione ci troviamo davanti ad un re italico e ciò potrebbe spiegare la qualità e la cura della realizzazione della stele. Attualmente “Il guerriero di Capestrano” è situato all'interno del Museo Archeologico di Chieti.

Stele in Abruzzo: stele di Penna Sant’Andrea

Nel 1974 durante gli scavi della necropoli italica di Monte Giove, presso Penna Sant’Andrea (TE) vennero alla luce tre stele in pietra con iscrizioni in lingua arcaica, detta sud-picena. Le lettere sono incise seguendo un particolare ordine lineare detto bustrofedico, nel quale le righe di testo vengono scritte alternativamente da destra verso sinistra e viceversa, seguendo lo stesso percorso dell’aratro impiegato nei campi. Queste stele risalgono al VI/V secolo a.C. ed erano utilizzate come monumenti funerari ed erano poste sopra le tombe di personaggi illustri. Le tre stele sono di forma stretta e allungata con la faccia coperta da iscrizioni, due di esse hanno conservato la sommità del capo ed entrambe nella parte terminale in alto formano un dente ad angolo retto, probabilmente utilizzato per sorreggere un elemento separato, magari un copricapo come nel caso del Guerriero di Capestrano. La serie fonetica che compare nelle tre stele è un'evoluzione rispetto a quella che troviamo sul Guerriero di Capestrano. Nella prima stele (fig.4), su quattro righe a partire dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra con un andamento continuo su tutta la stele, troviamo questa iscrizione:

Fig. 4 - Stele di Penna Sant'Andrea I.

hidom safinùs estùf ehelsi't tiom po/vaisis pidaitùpas fitiasom mùfqlùm men/tistrùi nemù-
nef praistaft panivù meitims saf/inas tùtas trebelies titùi praistaklasa posmùi
”.

La seconda stele (fig.5) aveva un testo più corto lungo il bordo della parete frontale di cui si è conservata la parte centrale:

...]nis safinùm nerf persukant p[...”.

Fig. 5 - Stele di Penna Sant'Andrea II.

Nella terza stele (fig.6) invece si è conservata la parte incisa sulla porzione inferiore, qui il testo è inciso su sei righe continue che iniziavano dall'angolo superiore destro della pietra; anche qui più della metà del testo è andato perduto, questo è ciò che ci rimane:

rtùr brimeqlùi alfntiom okrei safina[... enips toùta tefei posmùi praistaint a[... psùq qoras qdufeniùi brimeidinais epe[...”.

Fig. 6 - Stele di Penna Sant'Andrea III.

Anche se tuttora non ci è totalmente chiaro il significato di queste scritture, possiamo comunque dedurre che sono documenti di pertinenza etnica, inoltre possiamo comprendere sempre da queste iscrizioni importanti informazioni sull'ordinamento sociale di quelle genti, ad esempio nelle incisioni troviamo la parola touta usata con il significato di “cosa pubblica”, quindi ciò testimonia il passaggio dal governo del re-guerriero ad una società di tipo repubblicano. Queste tre stele attualmente sono conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Chieti.

 

Concludendo questo articolo, vorrei fare una breve riflessione su come questi reperti da noi analizzati ci facciano comprendere come già in quel periodo, nel territorio abruzzese, esistesse una fonetica ben sviluppata e di come queste genti fossero in realtà delle comunità sociali e politiche ben più complesse di come si credeva, quasi alla pari con i loro vicini Etruschi. Grazie a questi ritrovamenti, possiamo oggi avere un’idea più chiara e lineare del processo di sviluppo culturale e linguistico che è avvenuto nel corso dei secoli in questi popoli, considerati in origine come semplici gruppi di pastori nomadi.

 

Note

[1] Plinto: Nella architettura classica il plinto era una struttura con funzione di basamento a forma di basso parallelepipedo su cui veniva fatta poggiare una colonna o una lastra.

[2] Elsa a crociera: E’ un tipo di impugnatura di arma bianca, solitamente era la parte più decorata.

[3] Schiniere: In antichità era un elemento dell’armatura che proteggeva la parte anteriore della gamba.

[4] Correggia: Una striscia solitamente in cuoio che serviva a mantenere accostati due pezzi di uno stesso oggetto.

[5] Armilla: Braccialetto d’oro o di altro materiale utilizzato come ornamento.

[6] Panoplia: Complesso delle varie parti di un armatura o un insieme di armi assortite.

 

Sitografia

abruzzocamping.it

abruzzovacanze.altervista.org

archeologiaabruzzo.jimdofree.com

capestranodascoprire.it

culturaitalia.it

mnamon.sns.it

museidiguardiagrele.it

portalecultura.egov.regione.abruzzo.it

treccani.it

 

Bibliografia

Mazzitti, ABRUZZO una storia da scoprire – a history to be told, Pescara, 2000


LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DI ANAGNI

A cura di Vanessa Viti

La Cattedrale di Santa Maria si trova ad Anagni, comune della regione Lazio denominato "Città dei Papi" poiché diede i natali a quattro pontefici: Innocenzo III, Alessandro IV, Gregorio IX, Bonifacio VIII, inoltre per lungo tempo è stata sede papale. La cittadina di Anagni è altresì famosa per il celebre "schiaffo di Anagni", episodio avvenuto l'8 settembre del 1303 ai danni del papa Bonifacio VIII, un oltraggio morale più che un vero e proprio schiaffo

La Cattedrale di Anagni: esterno

I lavori di costruzione iniziarono intorno al 1072 e terminarono nel 1104 circa, la chiese venne eretta per volere del Vescovo Pietro da Salerno. La mole dell'edificio domina con la sua presenza la cittadina dall'alto del colle su cui è stata costruita. Esternamente possiede le caratteristiche dello stile romanico emiliano-lombardo. La possente facciata in pietra tartara si erge maestosamente sul sagrato insieme al poderoso campanile con aperture a monofore, bifore e trifore che svetta arrivando 30 metri di altezza. A sud-ovest la cattedrale è di grande impatto visivo e troneggia piazza Innocenzo III con la Loggia delle Benedizioni, l’esterno della Cappella Caetani e la scenografica scalinata che curva dietro le absidi. Un numero molto limitato di aperture ed una serie di archetti in pietra bianca sono gli unici elementi architettonici che ne alleggeriscono la struttura. Più movimentati sono i cilindri absidali scanditi da lesene unite tra loro da coppie di archetti. L'abside maggiore è coronato da una loggetta la cui decorazione marmorea risalta sul colore ocra del paramento murario. Una serie di colonne eterogenee sorreggono gli archetti pensili che in maniera alternata si appoggiano su delle mensole figurate. Il cilindro dell'abside maggiore è aperto da un'unica monofora con archivolto a doppio rincasso e con colonnine laterali. Dal fianco destro della chiesa si intravede un'alta cappella laterale ed una terrazza sostenuta da una loggia su arcate, al di sopra della terrazza sporge un'edicola contenente la statua di Bonifacio VIII. Le volte inferiori della loggia si intersecano con una sequenza di archetti pensili risalenti a costruzioni precedenti, i cui peducci appaiono rozzamente scolpiti. Queste teste di lupo, leone, montone rappresentano uno dei pochi esempi di scultura figurata che si può trovare nell'edificio. La facciata ha una struttura tripartita con tre portali di tipo campano. Le navate laterali sono illuminate da due semplici monofore, altre finestre uguali sono allineate nella parte superiore. Le semi-colonne addossate sono la testimonianza dell'esistenza di un portico probabilmente mai costruito. Il portale ha un archivolto con la ghiera esterna sporgente, due stretti capitelli poggiano su un'architrave costituita da elementi di spoglio. Interessante è l'espressione volutamente caricaturale degli animali che costituiscono l'ornamentazione del portale. Di fronte alla facciata sorge isolato il bellissimo campanile, risalente al XII secolo, di stile lombardo la cui base è aperta sui quattro lati da alte arcate a tutto sesto.

La Cattedrale di Anagni: interno

All'interno i caratteri romanici, come l’alternanza di pilastri e colonne di separazione tra le navate, incontrano elementi architettonici tipicamente gotici frutto dei restauri commissionati dai vescovi Alberto e Pandolfo che si conclusero nel 1250: costoro fecero sostituire le capriate in legno della navata centrale con archi a sesto acuto a sostegno del nuovo tetto e fecero realizzare la nuova copertura a volte ogivali costolonate su pilastri a fascio nel transetto. Gli archi della navata centrale furono decorati con immagini di pavoni e draghi. Le navate conservano il pavimento eseguito da Cosma tra il 1224 ed il 1227. Nella navata il percorso verso l'altare è definito da una serie continua di figure circolari unite da nastri. La zona presbiteriale, rialzata su un basso gradino, è decorata da due serie di tre dischi allineati separati da una composizione in cui il cerchio centrale è racchiuso da un quadrato. Ai lati del percorso centrale si allineano elementi di forma rettangolare, i "tappeti di preghiera", che nelle navate laterali sono intercalati dagli elementi circolari. Nel presbiterio si conservano gli arredi che furono eseguiti intorno al 1250. Lo spazio sacro è isolato da transenne marmoree con intarsi cosmateschi. All'interno di una struttura marmorea trovano spazio riquadri in marmi pregiati bordati con tarsie eseguite con paste vitree, pietre e lamine d'oro. Sull'altare si trova il ciborio, di tipo romano con multiple loggette su colonnine sovrapposte, alla bottega del Vassalletto possono essere attribuite il candelabro pasquale e la sede vescovile. Il candelabro consta di una colonna tortile ricoperta con tarsie, che poggia su una base sorretta da sfingi e da un telamone che sorregge il basamento del cero. Sulla sinistra della navata si apre la cappella Cajetani, costruita alla fine del XIII secolo per ospitare i resti di autorevoli membri della famiglia cui apparteneva Bonifacio VIII. Si tratta di una struttura cuspidata su colonnine e pinnacoli che ricopre due sarcofaghi decorati con lo stemma dei Cajetani e con altri disegni cosmateschi.

Pochi sono i resti di pittura medievale superstiti nella basilica: una Vergine con il Bambino affiancata da san Magno e santa Secondina nella lunetta sopra il portale maggiore appartenente al XIV secolo, una Vergine con il Bambino e la testa di san Pietro sul pilastro sinistro vicino al presbiterio risalente a circa metà del XIII secolo e una Madonna in trono col Bambino tra santa Caterina d’Alessandria e sant'Antonio abate all'esterno, dietro una grata sul muro sinistro dei primi anni del XV secolo. Di epoca moderna sono invece le pitture presenti nelle tre absidi: nelle due laterali,  a sinistra troviamo la Cena in Emmaus, a destra la Morte di San Giuseppe.  Nel XIX secolo i pittori Pietro e Giovanni Gagliardi realizzarono le opere pittoriche presenti all'interno della chiesa, sempre a loro sono attribuiti i lavori pittorici che si trovano  nella calotta dell’abside maggiore: l’Annunciazione e i Santi venerati dalla Chiesa anagnina. I Santi Apostoli con san Giovanni Battista su fondo scuro nell’emiciclo absidale è stato invece realizzato nel 1837 (tecnica dell’olio su muro).

 

Sitografia

https://www.cattedraledianagni.it/cattedrale

 

Bibliografia

La Cattedrale di Anagni-I Edizione-Orvieto.


LA CRIPTA DELLA BASILICA DI SAN NICOLA A BARI

A cura di Rossana Vitale

Una seconda chiesa: la cripta di san Nicola

Nella grande fabbrica basilicale di San Nicola a Bari, sotto l’intero transetto e in corrispondenza del largo presbiterio, si estende la cripta, una vera e propria seconda chiesa sotterranea, che vide i lavori per la sua edificazione concentrarsi tra il 1087 e il 1089. Tutto il progetto della basilica fu attuato per volontà dell’abate Elia, che aveva preso in consegna le reliquie del Santo all’arrivo, nel pomeriggio del 9 Maggio 1087, della spedizione di marinai che le trafugò in una chiesa a Myra.

Due anni dopo, nel 1089, lo stesso abate Elia accolse il papa Urbano II che durante il Concilio consacrò la cripta e le reliquie, che furono riposte sotto l’altare appena costruito.

Nella cripta si accede tramite due scalinate collocate nelle navate laterali della Basilica, protette da antichi plutei traforati che un tempo chiudevano l’iconostasi. Queste scalinate rappresentano un vero e proprio rito di passaggio per il visitatore: dal grande spazio austero e maestoso dell’impianto superiore si passa infatti ad una ricchezza fatta di ex voto in argento e oro, dipinti e una selva di colonne, tutta racchiusa in uno spazio alquanto serrato.

Fig. 1

La pianta a base rettangolare - 30 mt per 14,81 mt - racchiude il ritmo di nove navate scandito da ventisei tozze e pesanti colonne che sostengono trentasei campate coperte da altrettante volte a crociera, delimitate da robusti sottarchi: due di marmo numidico, due di breccia corallina, una di marmo caristio e ventuno di marmo greco. Sulle colonne è presente una svariata serie di capitelli - di riporto, bizantini o tardo medievali, ma comunque per la maggior parte eseguiti appositamente per la cripta - che rappresentano al meglio quello che era il primo cantiere nicolaiano: un’unione di esperienze dove maestranze bizantine si fondevano con esperienze nuove, provenienti dal nord, che portavano con sé modelli nuovi o la presenza occasionale di scultori forestieri di passaggio da Bari.

Fig. 2 - credits: Mariantonietta Luongo.

I modelli e le forme tutte diverse per ogni capitello danno l’idea che vi fossero presenti due gruppi di scultori: gli uni “educati” dai bizantini e quindi abituati a lavorare secondo modelli orientali e a trattare temi paleocristiani come pavoni e cornucopie, gli altri erano anonimi portatori di esperienze diverse, meno raffinati, ma sapienti nel dare alle forme scultoree un’impronta espressiva per quel tempo senza eguali.

Si riconoscono leoni con un’unica testa in comune che occupano lo spigolo, le maschere di leonessa inquadrate tra sottili sagome di uccelli, antichi pavoni, tra pigne e grappoli, alternati a volpi che azzannano lepri, e grifi che artigliano pantere.

Alcuni dei temi, come il tralcio con fogliame a forma di ventaglio che nasce da un piccolo vaso rotondo, accomunano questi capitelli a quelli degli stipiti del portale Sud della Basilica - il famoso Portale dei Leoni -, confermando la tesi di una esecuzione contemporanea nello stesso cantiere.

Meritano attenzione i quattro capitelli nella zona centrale della cripta di fronte alla tomba del Santo, poiché presentano caratteristiche romaniche con forme riscontrabili anche in altre sculture ed elementi presenti nella Basilica, come ad esempio nella famosa Cattedra dell’abate Elia. Questi tre capitelli li potremmo descrivere e denominare:

  • Capitello dei Leoni e degli Arieti: due leoni con una testa - che fa da angolo al capitello - e tra i due corpi, su tutte le facce, spunta la testa di un ariete. Trasmettono un sentimento di aggressività. Il chiaroscuro viene utilizzato in maniera sapiente, riuscendo a conferire una maggiore forza agli animali rappresentati.
Fig. 3 - credits: Mariantonietta Luongo.
  • Capitello dei Leoni e dei Pavoni: è in linea con il precedente. Anche qui i pavoni vengono rappresentati ad ogni angolo con i due becchi che convergono. Fra i loro corpi ci sono le teste di leoni: contrariamente al precedente, trasmettono un senso di serenità.
Fig. 4 - credits: Mariantonietta Luongo.
  • Capitello dei Pavoni e del Grifo: si trova in diagonale rispetto agli altri due e quindi un po' più lontano dalla tomba del Santo. E’ il più vario della cripta poiché le scene degli animali variano su ciascuna delle quattro facce: due pavoni che bevono alla medesima coppa - simbolo dell’universale mezzo di salvezza che è l’acqua battesimale e Dio -, due pavoni non più in armonia - uno becca l’altro e l’altro reagisce beccandolo a sua volta -, un grifo alato che azzanna un leprotto dall'espressione dolorante e infine un levriero che azzanna un coniglio.
Fig. 5 - credits: Mariantonietta Luongo.

Prevalgono strutture piene e plastiche, modelli che diverranno dominanti a partire dalla metà del XII secolo. A chiudere il quadrilatero non c’è un capitello figurato, ma uno raffigurante tutt'intorno delle pigne, con quattro rettangoli sovrastanti che incorniciano dei disegni ornamentali.

Il problema dei pavimenti

In questa chiesa sotterranea il problema delle maree ha avuto un ruolo dominante nella scelta del pavimento e delle colonne: trovandosi quasi 50 centimetri sotto il livello del mare, il pavimento venne, dopo molti anni, sollevato con l’ovvia conseguenza di nascondere la base delle colonne. Gli allagamenti del 1599 fecero scomparire il mosaico e tutto fu sostituito da lastre di pietra. Un altro intervento pose un nuovo pavimento per volere di Nicola II di Russia, che visitò la cripta nel 1892.

Solo i recenti restauri di Schettini (1953-1957) hanno riportato la cripta al primitivo splendore: l’ultimo pavimento aggiunto è stato rimosso, le basi sono tornate nuovamente visibili, il tutto protetto da iniezioni di cemento. L’antico pavimento era, molto probabilmente, a mosaico con caratteri geometrici, come dimostra l’area che circonda la tomba di San Nicola e i frammenti alla base della “colonna miracolosa” in marmo rossiccio - secondo la leggenda sarebbe stata collocata alla vigilia della consacrazione della cripta da San Nicola stesso, per supplire alla mancanza di una colonna (e quindi di un sostegno) -.

Fig. 6

Caratteristiche uguali anche a quelle del mosaico presente nel presbiterio delle chiesa superiore, sotto l’altare e il ciborio voluti da Eustazio, successore di Elia.

Dietro la cancellata che chiude il presbiterio campeggia la grande icona donata da Uroš di Serbia, in cui su un fondo totalmente dorato spicca San Nicola a figura intera che risalta da questo fondo grazie alla sua carnagione e ai lati della sua testa, in piccolo, ci sono rappresentati Gesù e la Madonna.

Fig. 7

Il Santo con tre dita della mano sinistra regge il Vangelo mentre la destra è in segno benedicente (unico elemento “movimentato” della rappresentazione che esce dalla staticità complessiva della figura). I paramenti episcopali - dorati anch'essi - presentano delle croci verdi che danno punti di fuga dal dorato predominante, e ai piedi del Santo le figure del re Uros III e della regina Maria sono ben visibili, ma sono la seconda e la terza versione dell’icona: infatti questa opera è stata più volte trasformata, rimaneggiata, per rispondere alle esigenze dei sovrani slavi che di generazione in generazione si avvicendavano.

La cornice che corre lungo tutto il perimetro è in argento.

Sotto questa ricchissima icona, l’altare in pietra che custodisce le reliquie del Santo stride di contro per la sua semplicità. La tomba, sobria e austera, fu rivestita d’argento e nel 1319 assunse la sua conformazione definitiva con la copertura donata, per l’appunto, dallo zar di Serbia Uroš II Milutin.

Durante l’epoca barocca questo altare fu considerato “antiquato” e quindi venne fuso con altri argenti, rinascendo dalle mani di due artisti napoletani: Marinelli e Avitabile. La porticina antistante, vegliata da due angeli con due bottiglie di manna, era concepita per potersi introdurre, venerare le reliquie ed estrarre la manna. Per fortuna, con l’epoca dei Grandi Restauri di metà Novecento, il nuovo altare argenteo fu spostato nel transetto destro della Basilica superiore, ridando all’“antiquato” altare e alla tomba l’originale aspetto severo in pietra: rialzato su due scalini, dove ci si inginocchia per pregare e, attraverso una piccola grata nera, si può ammirare una raffigurazione del Santo giacente che riceve l’ultima benedizione alla presenza delle tre fanciulle salvate con la sua donazione e dei bambini risorti per mano sua - di cui si parlerà in seguito - e un tappeto preziosissimo di raso rosso con decorazioni dorate che copre e protegge le ossa del Santo.

E’ attraverso questa grata che ogni anno si apre e si raccoglie la manna dalle ossa.

Le reliquie del Santo

Ossa conservate che rappresentano il 65% dell’intero scheletro e si trovano all'altezza del piano di calpestio, racchiuse in blocchi di cemento: le ossa mancanti sono sparse nel mondo (tra cui anche a Venezia) e quindi, al loro arrivo a Myra, nella famosa domenica di maggio, i marinai trafugatori baresi si accontentarono delle ossa più grandi e del liquido sacro in cui erano immerse. La famosa manna di San Nicola è appunto un liquido che veniva e viene tuttora raccolto e distribuito ai fedeli in fiale, bottiglie, ampolle o medagliette.

Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1953 fu eseguita, con la presenza della Commissione Pontificia, la ricognizione Canonica di questi resti scheletrici, avvenimento eccezionale, visto che per 866 anni nessuno aveva potuto né vedere né toccare le ossa del Santo Taumaturgo: di queste analisi ne rimane menzione nella relazione del Prof. Martino, docente di Anatomia Umana dell’Università di Bari e del suo collega Dott. Ruggeri, facenti parte della commissione scientifica e medica.

Molto interessante è leggere qualche passaggio di quello che è stato il risultato dell’analisi:

“Il loculo mostrò nel suo fondo rettangolare ossa sparse senza alcun particolare ordine sistematico (il che dimostrava che non era stato di certo un conoscitore di anatomia ad averle precedentemente deposte), con il cranio situato al centro di una estremità del loculo, e con i pezzi, in parte frammentari, di ossa lunghe e di ossa brevi accumulate irregolarmente di torno; il cranio era ben collocato con la base poggiata in basso. Insieme ai minuti frammenti ossei, presenti in gran numero, abbiamo trovato anche del piccolo pietrisco, che presumibilmente dovette essere stato trasportato nel momento del frettoloso trafugamento delle ossa effettuato dai coraggiosi marinai baresi.

Tutti i pezzi ossei si trovavano immersi in un liquido limpido, simile ad acqua di roccia, occupante il fondo del loculo per l’altezza di circa 2 cm; le parti delle ossa che sovrastavano al pelo dell’acqua risultavano tutte umide.

[…] Lo scheletro è risultato appartenente ad un solo e ad uno stesso individuo ed è costituito da ossa molto fragili e molto frammentate. Il cranio é di esso la parte meglio conservata, il che fa credere che sia stata anche oggetto di maggiore attenzione e pertanto la parte maggiormente protetta durante le operazioni di trafugamento. Il cranio è completo nei suoi segmenti e manca soltanto della metà posteriore della emimandibola sinistra; i denti sono presenti in gran numero ed alcuni si trovano ancora infissi nei loro alveoli[1].

Tutto lo spazio chiuso dell’altare e della tomba è pavimentato da un sontuoso tappeto in sectile di chiara impronta bizantina, dove fasce marmoree annodate seguono un complesso disegno geometrico e gli spazi sono stati realizzati con preziosi marmi antichi molto colorati; molto simile il sectile che pavimenta la piccola cappella che corrisponde alla torre di sud-est.

Questa cappella orientale rappresenta a livello visivo la vocazione ecumenica esistente tra la città di Bari e San Nicola e la conciliazione tra le due chiese cattolica e ortodossa. La Basilica di San Nicola a Bari diviene la prima chiesa latina con una cappella al suo interno in cui celebrare anche il rito ortodosso: ogni giorno, anche contemporaneamente, si svolgono le liturgie cattolico-cristiane nella chiesa superiore e la liturgia ortodossa nella cripta. Una coesistenza che rende la Basilica incantevole anche sotto questo aspetto: i canti e le preghiere, continue litanie in slavo ecclesiastico, riempiono l’intero spazio della cripta e affascinano il visitatore.

L’iconostasi della cappella è stata eseguita da un artista croato, Zlatko Latkovic, e attira l’attenzione e la curiosità dei fedeli per la scritta INBI, anziché INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudeorum): una scritta che trae in inganno ad una prima visione, ma che in realtà è assolutamente corretta visto che in greco la parola “re” -Rex - è Basileus.

Sulla parete di fronte, opposta all'altare, è posizionata un’altra grande icona del Santo, anche questa dono dello zar, che, protetta da una griglia e da una parete in plexiglass, accoglie le offerte dei devoti che ogni giorno ne fanno visita.

Le pareti laterali tutt'intorno sono occupate da sei lunette dipinte con scene della vita del Santo, realizzate durante la stagione delle trasformazioni barocche; le figure rappresentate hanno tratti in comune con quelle rappresentate sul soffitto della Basilica superiore.

A partire dalla parete di destra in corrispondenza della colonna miracolosa troviamo:

  1. la “Nascita di San Nicola”: il bambino è rappresentato in preghiera mentre la sua nutrice tenta di lavarlo in una bacinella e la madre, dal suo letto, spazialmente racchiuso nella lunetta, lo osserva assorta nei pensieri;
  2. San Nicola e la dote alle tre fanciulle”: la scena più caratteristica e tipica dell’iconografia nicolaiana poichè corrispondente alle tre palle d’oro e al numero tre ricorrente. La scena rappresenta il momento della carità del Santo verso tre fanciulle molto povere, destinate alla prostituzione per volere del diavolo;
  3. Resurrezione dei tre bambini”: il Santo è colto nell'atto di resuscitare tre bambini uccisi da un oste. Le creature gli rendono grazie mentre l’oste guarda sbalordito la scena; una figura dietro di lui, immersa nell’ombra e del quale non si scorge fisionomia, rimanda il giudizio dell’uomo a Dio (la mano, chiara e perfettamente visibile, punta verso l’alto);
  4. I tre innocenti condannati a morte”: anche loro immersi nella penombra, piegati su loro stessi e con il torace nudo, tre uomini attendono il colpo che li decapiterà. Al centro della scena, con il corpo incurvato a seguire l’andamento curvo della lunetta, San Nicola ferma la mano del carnefice;
  5. La colonna miracolosa”: la scena descrive la leggenda raccontata prima circa la posa della colonna miracolosa da parte del Santo, per sopperirne la mancanza, facendosi aiutare da quattro angeli. Il gesto di spingerla con il piede rimanderebbe alla scena della colonna gettata nel Tevere durante un suo viaggio a Roma;
  6. La morte del Santo”: l’ultima lunetta rappresenta San Nicola spogliato e morente nel suo letto, sorretto alle spalle da un angelo, sul quale il Santo abbandona la testa. Tre uomini a sinistra assistono pregando alla scena, mentre i paramenti episcopali giacciono ordinati ai piedi del letto.

Infine, a vegliare sul Santissimo Sacramento, c’è la lampada uniflamma, bellissima a forma di caravella, segno inconfutabile dell’arrivo del Santo a Bari e segno dell’unica fede, cattolica e ortodossa, alimentata dalle due tradizioni occidentale ed orientale - i cui simboli sono riportati ai lati del Santo.

Unite nel nome e nella figura di San Nicola, intercessore Taumaturgo, patrono e simbolo della città di Bari.

Fig. 9

 

Note

[1] Il passo riportato dalla relazione del prof. Martino è stato pubblicato nel Bollettino di San Nicola, numero speciale, aprile-dicembre 1957.

 

Sitografia:
www.basilicasannicola.it
www.caminvattin.it

 

Bibliografia:
G. Cioffari, La cripta di San Nicola, Bari, 1989.
P. Belli D'Elia, La Basilica di San Nicola a Bari, Galatina, 1985.
G. Dotoli-F. Fiorino, Storia e leggenda della Basilica di San Nicola a Bari, Bari, 1987.


L'ICONOGRAFIA DI SANT'ANTONIO NEI SECOLI

A cura di Mattia Tridello

Introduzione: nella Padova del Santo

Venerdì 13 Giugno 1231. Fernando da Lisbona, colto da un malore e prossimo alla morte, viene trasportato su di un carro trainato da buoi dal piccolo paesino di Camposanpiero fino alle porte di Padova, città in cui chiede di emettere l’ultimo respiro. Giunto però alla periferia nord di quest’ultima, (all’Arcella), mormorate le parole “Vedo il mio Signore”, spirò. Moriva così all'età di 36 anni il francescano che, da lì a un anno, sarebbe salito agli altari con il nome di Sant'Antonio di Padova, uno dei Santi più amati della Cristianità. Con solenni funerali il frate viene sepolto presso la chiesetta di Santa Maria Mater Domini, luogo ove amava ritirarsi spiritualmente nei periodi di intensa attività apostolica. Quella chiesa, al tempo anonima per molti, relativamente periferica in confronto al centro cittadino, sarebbe stata destinata a diventare una grandiosa basilica che ancora oggi accoglie folle di devoti e pellegrini in visita al luogo che ospita “l’Arca del Santo”, il sarcofago che contiene le spoglie mortali di Antonio. La morte e la celere canonizzazione di quest’ultimo non lasciò indifferente la città padovana che, fin dagli albori della predicazione antoniana, accolse con entusiasmo la novità comunicativa introdotta dal frate, dall'uomo capace di attirare e convertire persone con l’uso esclusivo della parola. La vicinanza del popolo dell’urbe al francescano crebbe irrefrenabilmente culminando in un’aperta devozione. Ben presto, infatti, furono registrati molti fenomeni miracolosi sulla sua tomba ed iniziarono ad arrivare pellegrini, prima dalle contrade vicine e poi anche da oltralpe. Il progressivo aumento delle persone che quotidianamente sostavano nei pressi della piccola chiesetta di S. Maria Mater Domini portò alla posa della prima pietra (1240) di un tempio più vasto e capiente, appositamente progettato per contenere l’afflusso continuo di fedeli e pellegrini.

La basilica, terminata nel 1310, rimase perlopiù immutata nella composizione spaziale originaria, mentre, per quanto riguarda quella artistica, venne notevolmente decorata, attraverso i secoli, da numerose e diverse testimonianze pittoriche, scultoree e architettoniche. Queste, seppur di stili e caratteri differenti, furono e sono tuttora unanimi nel glorificare, attraverso l’arte, la figura del Santo. Nel corso del tempo si è andata sviluppando una rappresentazione visiva mutevole che, partendo dalla morte del Santo nel XIII secolo, è sempre cambiata, si è evoluta e aggiornata in base agli stilemi artistici di ogni epoca, arricchendosi di precisi riferimenti iconografici e simbolici che ne hanno determinato il volto, il corpo e le gesta fino alla creazione dell’immaginario collettivo dei giorni nostri. Per questo è mia premura oggi cercare di ripercorrere, tramite l’agiografia antoniana, alcune tra le più importanti e preziose testimonianze artistiche riguardanti il modo di rappresentazione del frate nel corso del tempo, contenute e ospitate nel territorio dove egli soggiornò fino alla nascita celeste, più precisamente nella città che, più di tutte, gli è legata indissolubilmente.

La Pontificia Basilica minore di Sant'Antonio

Vorrei dunque iniziare questo itinerario artistico partendo dal luogo che, solitamente, viene visitato per primo da fedeli, devoti e turisti all'arrivo a Padova, non solo perché vi riposano le spoglie di Antonio ma soprattutto poiché, proprio qui, è presente la più antica immagine esistente del Santo. Molti potrebbero ritenere scontata la presenza di quest’ultima nel luogo della sepoltura, tuttavia, dal punto di vista dell’iconografia antoniana, si osserva un fenomeno veramente singolare: nel tempio che più degli altri risulta legato all'ultimo periodo di vita del Santo e dove si è sviluppata una vasta e ininterrotta venerazione popolare nei confronti di quest’ultimo, si nota l’ assenza di immagini puramente duecentesche che lo raffigurino. Mancano del tutto rappresentazioni che potremmo definire “originarie”, “antiche” che, come in altri casi, la tradizione abbia reso “esemplari”,  oggetto esse stesse di venerazione. La più accreditata ipotesi di tale avvenimento e processo storiografico potrebbe spiegarsi con l’indiscussa centralità assunta dalla tomba di Sant'Antonio nella venerazione popolare.

La tomba del Santo: la necessità di un rapporto diretto tra fedele e sarcofago

Fin dalla prima testimonianza della vita antoniana a noi pervenuta, l’Assidua (testo agiografico composto nel 1232 da un anonimo frate francescano), ciò che appare muovere la devozione pubblica è il rapporto diretto che si instaura tra il devoto e la tomba. Proprio nei pressi di quest’ultima vengono attestati miracoli e grazie concesse dal Signore per intercessione del Santo, proprio in quel luogo i fedeli sostano costantemente, giorno e notte (come si evince da una frase dell’Assidua). Di fatto, dunque, è il sarcofago a imporsi come segno visibile e letteralmente palpabile di Antonio, l’arca diventa una sorta di rappresentazione di quest’ultimo che il pellegrino cerca fin dal suo primo ingresso in basilica, diviene quindi una vera e propria immagine che si lascia toccare, in un rapporto devozionale nel quale la fisicità è una componente essenziale. Può risultare utile, per chiarire maggiormente questo aspetto, confrontare la realtà antoniana di Padova con la situazione, ben diversa, presente invece nel santuario umbro dedicato al fondatore dei minori, San Francesco. Ad Assisi, infatti, la tomba del “Santo poverello” (Fig. 1) viene sistemata sotto l’altare della basilica inferiore e fino agli inizi dell’800 (dal 1820 si procederà alla ricognizione del Corpo e alla creazione di una cripta sotterranea ove poterlo venerare) rimase nascosta, celata agli occhi dei pellegrini. La fioritura di immagini, dipinti e affreschi di Francesco, fin dai primissimi anni dalla morte, appare dunque una necessaria risposta alla richiesta di maggior contatto tra fedele e Santo. Si può dunque dedurre, sia pur con la necessaria prudenza, che a Padova, nella basilica, la necessità di un’immagine di Antonio, almeno per i primi tempi, risultasse meno impellente, meno immediatamente necessaria visto la presenza fisica e visibile della tomba (Fig. 2).

L'iconografia di Sant'Antonio

La voluta citazione di San Francesco ci permette, inoltre, di addentrarci nel pieno della rappresentazione iconografica antoniana, poiché le prime rappresentazioni che iniziarono a comparire tennero presente e vivo questo legame tra fondatore e predicatore, tra maestro e discepolo. Non a caso la più antica immagine che ritrae Antonio, citata in precedenza, presenta anche la figura di Francesco. Si tratta della lunetta che sovrasta la porta, ora murata, dell’antica sagrestia (Fig. 3). L’immagine, seppur risalente agli ultimi anni del ‘200 e quindi collocabile alla fine del lungo cantiere basilicale e conventuale, ci tramanda uno dei primi tentativi a noi conosciuti di immortalare in pittura il Santo. Al centro della raffigurazione compare e spicca, sia per dimensioni che per monumentalità, la figura a mezzo busto della Mater Domini (titolare della primitiva chiesetta sulla quale sorge la basilica) in una variante del tipo dell’eleousa affiancata da santi a figura intera di più piccole dimensioni. L’impianto compositivo semplice e immediato, probabilmente di impronta bizantina-veneziana, dà vita ad uno schema speculare nel quale Francesco, a destra dell’osservatore e Antonio, a sinistra, sono presentati in pose simili, entrambi inginocchiati devotamente, con il volto a tre quarti e le mani alzate a palme aperte (Fig. 4). Il riconoscimento dei due personaggi diviene possibile grazie alla presenza delle iscrizioni con i rispettivi nomi, tracciate a pennello sulla cornice arcuata del riquadro sovrastante.

Fig. 4 – Lunetta del portale murato della sagrestia. A - Sant’Antonio; B – San Francesco.

Il senso di lettura di questa rappresentazione cela e racchiude numerosi significati che, a primo sguardo, potrebbero passare inosservati. Sant'Antonio, ad esempio, viene collocato alla destra della Vergine e del Bambino, nella posizione d’onore riservata solitamente al fondatore dei Minori nelle immagini più antiche legate alla devozione francescana. Anche la figura mariana, a sua volta, nel contesto padovano assume risonanze specifiche poiché non solo riflette una devozione molto sentita in ambito monastico, ma è anche, come accennato, trasposizione figurativa del titolo del locus francescano della città. L’iconografia della lunetta dunque, a dispetto dell’apparente ovvietà, compendia efficacemente la sostanza identitaria della comunità antoniana dell’urbe, marca l’accesso di un luogo chiave del santuario, la sagrestia appunto, indispensabile per la preparazione dei sacerdoti alle celebrazioni liturgiche e infine introduce efficacemente un connubio che, fino al XV secolo sarà una costante sempre presente del repertorio figurativo antoniano.

Potrebbe sembrare, anzi, risulta veramente unico e singolare il fatto che, come si è già illustrato, manchino completamente ritratti contemporanei al Santo o eseguiti a pochi anni dalla morte e canonizzazione di quest’ultimo. Non stupisce quindi che, dal ‘300, iniziarono a proliferare  raffigurazioni antoniane, per forza di cose non sempre concordanti tra loro per quanto riguarda lo stile figurativo e l’apparato simbolico. La necessità di dare un volto al santo si concretizzò con la raffigurazione di elementi simbolici che riassumevano sia gli episodi salienti della sua vita che le caratteristiche che lo resero tanto amato tra la popolazione. Per tale motivo, spostandoci nell'analisi al XIV secolo, l’iconografia si arricchisce di oggetti volti a rimarcare le doti predicatorie del giovane frate. Non a caso in mano a quest’ultimo iniziarono a comparire attributi materiali come il libro (simbolo dotto e aulico di predicazione e conoscenza teologica) e fisici come le vesti francescane e la giovinezza del volto. Un esempio significativo di questa evoluzione iconografica, dal Duecento al Trecento, lo si può ritrovare in una di quelle immagini che divenne oggetto di devozione popolare all'interno della basilica.

Si tratta di uno dei primi ritratti di Antonio a figura intera con la presenza del libro (Fig. 5). L’autore ignoto, probabilmente di scuola giottesca, raffigurò il Santo con il tipico abito francescano mentre con una mano impartisce una benedizione. La resa dell’incarnato, la stesura dei colori e la somiglianza iconografica con le fonti scritte riguardanti l’aspetto di Sant'Antonio conferiscono armonia alla composizione, tanto da farla ritenere come una delle più fedeli e verosimili rappresentazioni del volto reale di quest’ultimo. L’opera venne dipinta su uno strato di intonaco nel fianco est del colossale pilastro sinistro che, insieme ad altri tre, sorregge il peso di una delle cupole del santuario. Quest’ultima, prima della risistemazione quattrocentesca del coro, non faceva parte dello spazio presbiteriale e perciò poteva essere ammirata e venerata  non solo dai sacerdoti ma anche dai laici. A testimonianza di ciò si può notare che la parte bassa risulta notevolmente danneggiata, consunta e molto più scolorita rispetto a quella superiore, probabilmente perché l’immagine era oggetto di carezze devozionali e votive. Dopo la collocazione tra i pilastri dell’abside di un apparato marmoreo ospitante il coro dei frati la visione dell’affresco, ormai inglobato, risulta molto più difficile, tanto da essere parzialmente celato al visitatore (Fig. 6a,b).

Fig. 5 – Affresco raffigurante Sant’Antonio.
Ricostruzione ipotetica della posizione dell’affresco, come appare oggi e come doveva risultare nel ‘300.

 

Tuttavia la carica di novità nella rappresentazione portata da questa raffigurazione di certo non passò inosservata ai geni assoluti del primo Rinascimento che, proprio a Padova, soggiornarono per arricchire, con le loro opere, la basilica. Tra questi vorrei ricordare in primis Donatello e Andrea Mantegna

Il Sant'Antonio di Donatello

La commissione allo scultore fiorentino di realizzare il nuovo altare maggiore della basilica venne probabilmente decisa dopo aver visto il risultato del Crocifisso bronzeo (1443-1447), oggi collocato sopra l'altare ma originariamente realizzato e ideato forse per il coro. Grazie alla generosa donazione del cittadino padovano Francesco del Tegola, datata 3 aprile 1446, poté essere progettato un complesso architettonico scultoreo innovativo, in gran parte di bronzo(Fig.7). Originariamente l’altare, una volta terminato, doveva offrire una visione imponente grazie alla policromia e all'effetto abbagliante delle dorature e argentature. Gli elementi decorativi erano impostati in ricche varianti, che andavano dalle figurette dei rilievi alla pienezza plastica delle opere a tutto tondo, dalle pose più composte a quelle più freneticamente concitate. Con la ristrutturazione del presbiterio nel 1591, l'altare venne smembrato e le varie opere divise in più punti della basilica. Una nuova fase della mensa venne toccata quando, in pieno periodo barocco, vennero reimpiegate e sistemate nella complessa struttura architettonica solo alcune statue donatelliane (Fig. 8). L’ultima travagliata fase di ricostituzione spettò a Camillo Boito nel 1851. Sebbene vennero ricollocate tutte le statue realizzate dallo scultore fiorentino, la composizione quattrocentesca venne del tutto infranta optando invece per una sistemazione più lineare e molto diversa rispetto a quella delle intenzioni donatelliane (Fig. 9). Delle sette statue che creò Donatello, tre risultano particolarmente legate al discorso iconografico che si sta trattando. Se notiamo, infatti, quest’ultime sono collocate nella parte più alta dell’altare, sotto il Crocifisso. Si tratta delle figure bronzee a tutto tondo della Vergine con Bambino, in posizione centrale, di San Francesco, a destra dell’osservatore, e di Sant’Antonio a sinistra (Fig. 10).

Fig. 10 – Dettaglio della Sacra Conversazione tra la Madonna, San Francesco a sinistra e Sant’Antonio a destra.

Nella progettazione e realizzazione dei personaggi scultorei senz'altro Donatello aveva ben presenti i modelli iconografici ritraenti il Santo presenti in Basilica. Perciò risulta molto chiaro il riferimento nella disposizione del gruppo centrale (l’unica parte della risistemazione ottocentesca fedele al progetto quattrocentesco) alla medesima “Sacra conversazione” presente nella lunetta della sagrestia precedentemente illustrata. Come in quest’ultima anche qui i due santi dell’Ordine compaiono ai lati della Madonna, anche qui Maria viene raffigurata nelle vesti di Mater Domini, anche qui è presente il parallelismo tra “Santo fondatore” e “Santo predicatore”. L’artista, mirabilmente, coglie l’insegnamento dell’affresco trecentesco presente a poca distanza dall'altare: come in quello Antonio, in piedi e vestito con il saio francescano, è intento nel contemplare la scena sacra mentre regge con il braccio sinistro l’attributo simbolico del libro, che anche qui ritroviamo insieme però a un altro elemento che, da quel momento in poi, caratterizzerà la sua figura; il giglio. Quest’ultimo, nella cultura iconografica, è simbolo di purezza e lotta contro il male. Tale immagine del Santo è indubbiamente il frutto di un anelito popolare che Donatello percepisce, perfeziona e sublima conferendo vitalità e vigore al taumaturgo poiché comprende che la giovinezza è il primo attributo del suo apostolato, la garanzia della sua azione (Fig. 11).

Fig. 11 – Dettaglio della statua di Sant’Antonio.

L’iconografia antoniana che si sviluppò nel corso del ‘400 rimase fedele agli attributi simbolici e al modo di rappresentazione inaugurato da Donatello con l’altare della basilica: ne è un esempio la lunetta del portale centrale del tempio padovano commissionata al Mantegna nel 1452 (Fig. 12). Anche in quest’ultima la rappresentazione del Santo non subisce sostanziali trasformazioni ma anticipa, nella sua fierezza, i caratteri di un nuovo impulso figurativo che avverrà con la pittura del Vecellio. Tiziano, infatti, proprio a Padova realizzò alcuni dei suoi primissimi e indipendenti capolavori.

Fig. 12 – Lunetta con Sant’Antonio a sinistra, il Trigramma di Cristo e San Bernardino da Siena.

Tiziano alla “Scoletta del Santo”

Se ci spostassimo al di fuori della basilica e sostassimo nel sagrato antistante, ci accorgeremo della presenza, sul lato destro, di alcune costruzioni che delimitano teatralmente la piazza. Si tratta dell’Oratorio di San Giorgio e della cosiddetta “Scoletta del Santo”, ovvero, la sede dell’antichissima Arciconfraternita del Santo. Quest’ultima sorse pochi anni dopo la morte di Antonio ed acquisì ben presto una viva floridezza. Nel corso del Quattrocento infatti i confratelli, vista l’assenza di un luogo definito e unico per lo svolgersi di incontri e adunanze, presero la decisione di erigere una nuova costruzione ai margini del sagrato della basilica. Così come si presenta oggi, la Scuola è formata da due ambienti sovrapposti: quello al pianterreno, ospitante la chiesa, e quello superiore, edificato nel 1504, contenente invece la sala priorale (Fig. 13).

Fig. 13 – Da sinistra a destra: Oratorio di San Giorgio, scala di collegamento, Scoletta del Santo.

Nella parte cinquecentesca, la Sala priorale contiene 18 pitture eseguite nei primi anni del Cinquecento con scene della vita e dei miracoli di S. Antonio. Grazie a questo meraviglioso ciclo pittorico si può constatare un’evoluzione nella rappresentazione iconografica antoniana. A partire dal XVI secolo, infatti, l’attenzione nella raffigurazione del Santo muta, si sposta, pone maggiormente l’attenzione non sulla rappresentazione singola del frate ma su quella collettiva, che lo vede presente in mezzo alla popolazione in occasione delle sue predicazioni o dei miracoli compiuti in vita. Perciò, in questo modo, Antonio inizia ad assumere un carattere figurativo meno distaccato e astratto, di fatto, in alcuni casi, gli elementi simbolici importati dalla tradizione scompaiono lasciando spazio alla sua figura che, come in una rappresentazione teatrale, assume il  ruolo di protagonista della vicenda. La concretizzazione la si trova narrata nei tre affreschi giovanili di Tiziano (1511): “Sant'Antonio fa parlare un neonato” (Fig. 14), “Il marito geloso che pugnala la moglie”, “Sant'Antonio riattacca il piede a un giovane”. Anche se raffiguranti scene e miracoli differenti tutti e tre sono unanimi nel mostrare Antonio in veste battagliera, instancabile, evangelizzatrice, sempre pronto ad intervenire con la sua intercessione.

Fig. 14 – Tiziano, "Sant'Antonio fa parlare un neonato”.

Sant’Antonio e il “pane”

Un altro dipinto che ci introduce a una delle più consuete e amate raffigurazioni  di Antonio è sempre custodito nella Sala Priorale. Entrando in quest’ultima, immediatamente a destra, ad altezza d'uomo, accoglie i visitatori l’affresco realizzato da Tiziano e Francesco Vecellio rappresentante il “Guardiano” della Confraternita, Nicola da Strà, che fu il committente del ciclo di affreschi all'inizio del '500. (Fig. 15).

Fig. 15 – Pianta della Sala Priorale, accanto all'entrata, a destra, è presente l’affresco.

Il Guardiano (oggi detto Priore), rivestito dell'allora abito confraternale molto simile al saio dei frati, è effigiato nel gesto della distribuzione delle focacce benedette al portone dell'Oratorio della Scoletta del Santo, sul quale fa mostra di se una statua argentea di Antonio recante, anche in questo caso, gli attributi del libro e del giglio. (Fig. 15) La tradizione di raffigurare il Santo mentre porge le pagnotte ai bisognosi o, come in questo affresco, accanto a coloro che distribuiscono il pane deriva direttamente da un miracolo che suscitò enorme clamore nella Padova del Duecento tanto da essere riportato dettagliatamente nell'agiografia del Santo:

“Un bimbo di venti mesi, di nome Tomasino, i cui genitori avevano l’abitazione vicino alla chiesa del beato Antonio, in Padova, fu lasciato incautamente da sua madre accanto ad un recipiente pieno d’acqua. Si mise a fare nell’acqua giochi infantili e forse, vedendoci riflessa la sua immagine e volendo inseguirla, precipitò nel recipiente testa all’ingiù e piedi in alto. Siccome era piccino e non poteva sbrogliarsi, ben presto vi rimase affogato.

Trascorso breve tempo, la madre ebbe sbrigate le sue faccende, e vedendo la lontano i piedi del bimbo emergere da quel recipiente, si precipitò urlando forte con voce di pianto e trasse fuori il piccino. Lo trovò tutto rigido e freddo, perché era morto annegato. A tale spettacolo gemendo di angoscia, mise sossopra tutto il vicinato con i suoi lamenti ad alta voce.

Molte persone accorsero sul posto, e tra queste alcuni frati minori insieme con operai, che a quel tempo lavoravano a certe riparazioni nella chiesa del beato Antonio. Quando ebbero veduto che il bambino era sicuramente morto, partecipando alla sofferenza e alle lacrime della madre, essi si ritirarono come feriti dalla spada del dispiacere. La madre tuttavia sebbene l’angoscia le straziasse il cuore, prese a riflettere sugli stupendi miracoli del beato Antonio, e ne invocò l’aiuto onde facesse rivivere il figlio morto. Aggiunse anche un voto: che darebbe ai poveri la quantità di grano corrispondente al peso del bimbo, se il beato Antonio lo avesse risuscitato. Dal tramonto fino alla mezzanotte il piccolo giacque morto, la madre continuando senza sosta ad invocare il soccorso del beato Antonio e replicando assiduamente il voto, allorché, - cosa mirabile a dirsi! – il bimbo morto riebbe vita e piena salute.” Dalla Rigaldina (11, 69-79);

Nei confronti di questa testimonianza non stupisce che proprio il pane sia diventato un simbolo frequente nell'iconografia antoniana, sia per il fenomeno miracoloso avvenuto a seguito del voto, sia per il valore simbolico che esso ha assunto. Il pane, infatti, elemento più immediato e fruibile per saziarsi e sfamarsi, assurge a rappresentazione fisica della carità, non solo quella che ha avuto il Santo in vita ma più in generale quella di tutta la Chiesa.

Fig. 16 – Affresco della distribuzione del pane benedetto.

Sant'Antonio con il Bambino

Accingendomi a terminare questo itinerario nella storia artistico-devozionale di Sant'Antonio risulta più che opportuno, anzi, necessario, analizzare la rappresentazione che forse, più di tutte, si è diffusa nell'arte dal XVII secolo fino ai giorni nostri e ha progressivamente forgiato un preciso canone iconografico che ci permette di riconoscere il Santo in qualsivoglia raffigurazione sacra. Quest’ultima, infatti, come per le altre, trova origine a seguito degli episodi agiografici di Antonio. Per poterla comprendere al meglio è necessario dunque ripercorrere uno degli ultimi episodi della vita del frate. Sembra quasi paradossale pensare che l’ultimo toccante frangente della sua permanenza terrena sia poi diventato, nel corso del tempo, una costante figurativa che comunica tenerezza e amore, che la sua visione più famosa e tarda si sia inserita nell'iconografia antoniana in un periodo cronologicamente più recente. Con il diffondersi dei nuovi canoni artistici propri del tardo Barocco e ancor di più del Rococò, infatti, anche la figura di Antonio muta, si apre alla rappresentazione con il Bambino Gesù, si uniforma a una devozione di carattere poetico e affettuoso che trova riscontro nella vastissima produzione italiana e europea settecentesca, basti pensare alle numerose versioni del medesimo tema a opera del Murillo (Fig. 17a,b). Per conoscere l’origine di tale attributo rappresentativo occorre, come detto in precedenza, ricercare le origini nell'agiografia antoniana. Era, infatti, il 1231 quando il frate, poco prima di morire, ottenne di ritirarsi in preghiera a Camposampiero, un piccolo paesino della campagna padovana, nella dimora che il signore del luogo, il conte Tiso, aveva affidato ai francescani nei pressi del suo castello.

Una sera, il conte decise di recarsi nella cella del convento nella quale soggiornava l’amico francescano. Tuttavia, giunto in prossimità della porta, notò che, dall'uscio socchiuso, si sprigionava un intenso splendore. Temendo un incendio, spinse la porta e una volta entrato rimase immobile davanti alla scena prodigiosa: Antonio stringeva fra le braccia Gesù Bambino. Terminata la visione incantevole e vista la commozione di Tiso, Antonio lo pregò di non rivelare a nessuno l’apparizione celeste. Solo dopo la morte del Santo il conte racconterà quello che, per grazia, aveva potuto vedere.

Il Santuario della Visione

Nel corso degli anni la primitiva chiesa di S. Giovanni Battista e il vicino convento ebbero vari rifacimenti e ampliamenti, ma verso il luogo della Cella ci fu sempre grande venerazione e attenzione. La costruzione, pur con qualche ritocco, mantenne sempre quelle dimensioni di stile francescano, umile, povero ed essenziale. Costruendo l’attuale chiesa (1906) (Fig. 18), la Cella fu incorporata e trasformata in cappellina su due livelli. In quello superiore i fedeli possono visitare personalmente lo stretto vano coperto con volta a schifo per raccogliersi in preghiera nel luogo della visione prodigiosa (Fig. 19a,b).

Fig. 18 – Veduta della navata centrale del Santuario.

A destra una finestrella e al centro della parete di fondo si trova la tavola di Andrea Vivarini da Murano (1486) che ritrae la figura intera di S. Antonio con i simboli consueti del giglio e del libro (Fig. 20a,b). Secondo la tradizione si tratterebbe della rozza tavola di pioppo che serviva da giaciglio al Santo durante la sua permanenza nel convento di Camposampiero. Quest’ultima è difesa da una cornice con cristallo per impedire l’indiscreta devozione dei fedeli che, in passato, asportarono molti frammenti lignei da questa “reliquia antoniana”. E’ costante tradizione che il Santo, riposando sopra di essa, vi abbia lasciata impressa la propria effigie, ripresa dal pittore Andrea da Murano al principio del XVI secolo.

Proprio nella “cella della Visione”, il 13 Giugno 1231, verso mezzogiorno, Antonio venne colto da un malore che perdurò fino alle sue ultime ore quando venne trasportato, al calar della sera, all’Arcella, alla periferia nord di Padova. Ecco dunque che siamo ritornati al punto dal quale abbiamo iniziato questo viaggio iconografico e artistico alla scoperta di tutte quelle raffigurazioni contenute a Padova e legate, per un motivo o per un altro, alla figura antoniana. Rappresentazioni a volte simili, a volte diverse e mutevoli ma che, a ben vedere, non sono mai discordanti poiché la personalità di Antonio è stata -e continua a essere -universale, eccezionalmente ricca di storia e devozione, e quindi in grado di inserirsi in dimensioni diverse ma unite dalla profonda umiltà francescana, dal rigore e dalla coerenza di una vocazione estremamente semplice e fattiva. Forse fu proprio questo l’aspetto che più fece presa tra le folle accorse, durante le sue predicazioni, per vederlo, toccarlo, perché percepivano la presenza della sua santità e scorgevano, nella sua persona, un modello umano. Una figura presente e santa dalla quale l’arte e la devozione non hanno mai smesso di attingere per l’ideazione e la creazione di assoluti capolavori che, oggi come ieri, testimoniano assiduamente la vita, le opere e i miracoli di uno dei santi più amati della cristianità.

 

Bibliografia essenziale:

Andergassen, L’iconografia di Sant’Antonio di Padova, dal XII al XVI secolo, Padova, Centro studi antoniani;

Padova e il suo territorio, rivista di storia arte e cultura, 1995;

Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca, La Sapienza, 2017;

Baggio, Iconografia di Sant’Antonio al santo a Padova nel XIII e XIV secolo. Scuola di dottorato, UniPd;

Libreria del Santo, La Basilica di Sant’Antonio in Padova, 2009;

Il Messaggero di Sant’Antonio, numero di approfondimento del Giugno Antoniano, 2019;

 

Sitografia:

Sito web ufficiale della Basilica di Sant’Antonio;

Sito web dell’Arciconfraternita del Santo;

Sito web dei Santuari di Camposampiero;

 

Immagini:

Immagini di dominio pubblico tratte da Goggle immagini, Google maps e dal sito web della Basilica di Sant’Antonio.

La ricostruzione della pianta dell’assetto duecentesco del presbiterio è stata realizzata da Mattia Tridello con l’ausilio del programma Autocad;


LA SALA DEI GIGANTI A PALAZZO TE A MANTOVA

A cura di Silvia Piffaretti

Introduzione: la città di Mantova e Giulio Romano

Mantua me genuit, ovvero, “Mantova mi generò” è ciò che recita la tomba del poeta latino Virgilio che, nel XX canto dellInferno dantesco, descrisse brevemente le origini della città.

Nella presentazione dei dannati si soffermò sulla figura di Manto, una donna dalle lunghe trecce cadenti sul petto, che dopo lunghe peregrinazioni si stabilì in una terra disabitata in mezzo alla palude per praticare le sue arti magiche. E fu proprio nel luogo dove visse che, sulla sua tomba, fu edificata la città di Mantova che da lei prese il nome [1]. La città, di probabile origine etrusca, fu un piccolo centro fortificato che divenne nei secoli a venire dominio di grandi famiglie come i Canossa, i Bonacolsi ed i Gonzaga. In particolare sotto il dominio di quest’ultimi, durato dal 1328 al 1707, la città divenne uno dei massimi centri d'arte d’Italia dove accorsero artisti di grande talento come Giulio Romano.

Fig. 1 - Mantova.

Quest’ultimo, nato nel 1492 a Roma e morto a Mantova nel 1546, si affermò nella città eterna come uno dei principali collaboratori di Raffaello, infatti come attestò Giorgio Vasari nel suo capolavoro Le vite de più eccellenti pittori, scultori ed architetti: "seppe benissimo tirare in prospettiva, misurare gl'edifizii e lavorar piante e si poté chiamare erede del graziosissimo Raffaello sí ne costumi, quanto nella bellezza delle figure nell'arte della pittura. Ma il suo genio non si alimentò solo del maestro, egli risentì della lezione di Michelangelo nella possanza e nel dinamismo delle figure. Per Vasari la sua abilità tecnica fu tale da essere “sempre anticamente moderna, e modernamente antica.

L’artista ebbe anche un forte legame con il pittore Tiziano, questi eseguì perfino un suo ritratto [2] di tre quarti dall'espressione bonaria e arguta, cogliendone l’essenza signorile tratteggiata da Vasari che descrisse “Giulio di statura nè grande nè piccolo, più presto compresso che leggieri di carne, di pel nero, di bella faccia, con occhio nero et allegro, amorevolissimo, costumato in tutte le sue azioni, parco nel mangiare e vago di vestire e vivere onoratamente.

Fig. 2 - “Ritratto di Giulio Romano”, Tiziano.

Nell'ottobre del 1524 giunse, per mezzo dell’ambasciatore gonzaghesco Baldassarre Castiglione, a Mantova da Federico II Gonzaga [3]. Questi, figlio di Francesco II e Isabella d’Este, fu un condottiero di non grande abilità che si ritirò dalle armi per dedicarsi al governo cittadino e agli interessi personali, tra i quali figuravano le arti e la collezione di opere antiche. Egli trasmise il suo ambizioso progetto all'artista che creò, a detta di Vasari, “non abitazioni di uomini, ma case degli Dei” intervenendo nel campo dell’urbanistica, dell’edilizia privata e religiosa.

Fig. 3 - “Ritratto di Federico II Gonzaga”, Tiziano.

Fu così che Federico II lo condusse all'isola del Teieto, termine che potrebbe derivare da tiglieto, ovvero località di tigli, oppure essere collegato a tegia, dal latino attegia, che significa capanna.

Il capolavoro di Giulio Romano: Palazzo Te e la "Sala dei Giganti"

Il marchese lo incaricò di ristrutturare le scuderie esistenti per "accomodare un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso. Ma, come riferì Vasari, alla vista del bellissimo progetto presentato diede incarico di iniziare la costruzione di Palazzo Te [4], eretto tra il 1525-1535, adibito a luogo d’accoglienza d’ospiti illustri.

Fig. 4 - Palazzo Te

Lungo il percorso all'interno del palazzo s’incontrano maestose ed eleganti sale, ma quella che più incanta il visitatore è la Sala dei Giganti [5] eseguita tra il 1532-35, su disegno di Giulio Romano, dai collaboratori Rinaldo Mantovano, Fermo da Caravaggio e Luca da Faenza.

Nella stanza è dipinta la Gigantomachia, ultima fase della Cosmogonia, ovvero del processo di costruzione di un cosmo armonico nato dagli scontri tra le intelligenze divine dell’Olimpo e la forza bruta dei Giganti che vengono sconfitti. Nella versione del mito proposta nell'opera Le Metamorfosi del poeta latino Ovidio, fonte privilegiata di cui si servì Romano, “si narra che i Giganti, aspirando al regno celeste, ammassassero i monti gli uni sugli altri fino alle stelle per costruire una scala con cui giungere all'Olimpo, ma Giove ne interruppe la corsa scagliando i suoi fulmini sulle montagne che crollarono su di essi.

La sala è famosa per la sua ideazione pittorica volta a negare i limiti architettonici dell’ambiente, infatti gli stacchi tra i piani orizzontale e verticale furono celati smussando gli angoli tra le pareti e la volta. Si realizzò inoltre un pavimento, oggi perduto, costituito da un mosaico di ciottoli di fiume che proseguiva dipinto alla base delle pareti. In questo modo, ma anche servendosi di persone nascoste che simulavano l’effetto sonoro con dei sassi e di un caminetto il cui bagliore amplificava la drammaticità, l’artista intendeva catapultare lo spettatore nell'opera suscitando in lui stupore e straniamento. Effetto che lasciò impressionato anche Giorgio Vasari che disse: “Né si pensi mai uomo vedere di pennello cosa alcuna piú orribile o spaventosa, né piú naturale. Perché chi vi si trova dentro, veggendo le finestre torcere, i monti e gli edifici cadere insieme coi Giganti, dubita che essi e gli edifizi non gli ruinino addosso”.

Fig. 5 - Sala dei Giganti.

Il protagonista incontrastato della scena è Giove [6] che, abbandonato il trono poco più in alto, scende dal cielo sulle nuvole sottostanti con i fulmini in pugno, chiamando a sé l’assemblea degli immortali, per punire i ribelli assistito dalla moglie Giunone. Tra gli dei si riconoscono: Apollo sul carro solare, Nettuno con il tridente [7], Marte che impugna la spada, Amore armato di arco e frecce e Venere che fugge [8]. Mentre ai quattro angoli si vedono delle figure che soffiano nelle tube, essi sono i venti che stanno scatenando il finimondo sulla terra.

Più in basso invece alcuni Giganti vengono travolti dal precipitare della montagna, altri da impetuosi corsi d’acqua o alcuni sono addirittura abbattuti dal crollo di un edificio [9.1][9.2][9.3]. Tra le ampie portefinestre si distinguono: Plutone con il bidente, le Furie dal capo ricoperto di serpenti e il gigante Tifeo [10] che sputa fuoco. Poco più sotto tra le rocce emergono delle scimmie [11], la cui presenza deriverebbe però da un errore di traduzione del testo di Ovidio: i traduttori al posto di tradurre che i giganti sono nati dal sangue lessero simiae, ovvero le scimmie sono nate dal sangue dei giganti. Fu così che questo dettaglio insolito rimase destinato a catturare l’attenzione dell’osservatore in eterno.

Per quanto concerne l’interpretazione della rappresentazione, si potrebbe scorgere in Giove l’incontrastabile imperatore Carlo V, che si recò in visita a Mantova qualche tempo prima, e nei Giganti vinti i principi italiani ribellatisi al suo Impero. Ma alcuni elementi hanno un significato ambivalente: l'Olimpo, il fulmine e l'aquila oltre ad essere attributi di Giove identificano anche imprese gonzaghesche, pertanto Giove vincitore potrebbe anche essere metafora del potere imperiale in cui i Gonzaga identificarono la propria fortuna.

In questo modo il capolavoro della Gigantomachia si presenta a noi come un’occasione per comprendere come la minaccia del caos e della distruzione, che turba l’armonia e l’ordine del mondo, sia sempre parte integrante della nostra esistenza. Ma cos'è che garantisce veramente all'essere umano l’armonia con sé stesso e di conseguenza col mondo che abita? La risposta a questo interrogativo potrebbe essere la bellezza, quest’ultima è in grado di appagare l’animo attraverso i sensi e distoglierlo da vie distruttive. Come disse Guido Piovene, giornalista ed autore di “Viaggio in Italia”, riferendosi alle meraviglie del nostro paese: Vi è chi distrugge il bello per sentirsi meglio e per mettere il mondo in armonia con se medesimo; ognuno ritrova la pace della coscienza come può.

 

 

Bibliografia:

  • “Giulio Romano”, Art Dossier, a cura di L. Frommel, S. Ferino Pagden, K. Oberhuber, Giunti 1989
  • “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” di Giorgio Vasari, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, Einaudi, Torino 1986
  • “Le Metamorfosi” Publio Ovidio Nasone, a cura di Mario Scaffidi Abbate, Newton Compton editori, 2011
  • “Viaggio in Italia”, Guido Piovene, Edizioni Bompiani, 2019

 

Sitografia:

 

Immagini:

http://www.arte.it/notizie/mantova/spaesamento-e-meraviglia-la-sala-dei-giganti-di-giulio-romano-17045

https://www.arteworld.it/analisi-iconografica-sala-dei-giganti-di-giulio-romano/


BERTINORO: “IL BALCONE DELLA ROMAGNA”

A cura di Jacopo Zamagni

Bertinoro: storia e origini

Fig. 1 - Panorama del borgo di Bertinoro.

Bertinoro è un borgo di origine medievale che sorge sulla cima del Monte Cesubeo, situato a metà tra le città di Cesena e Forlì. Grazie alla sua posizione panoramica, tra la pianura e le colline, Bertinoro è soprannominata “Il balcone della Romagna”.

Le origini di Bertinoro sono varie e discordi, a causa di errate ed arbitrarie interpretazioni basate su elementi insufficienti. Quello che si può definire con certezza è la presenza dell’uomo fin dall'età primitiva: ciò è stato dedotto da alcune serie di scavi effettuati nell'anno 1886, quando furono rinvenuti resti di uno scheletro insieme a vasi ridotti in frantumi, e negli anni 1902 e 1911. Grazie a queste scoperte si è potuto dedurre che Bertinoro fu abitata prima dai Liguri e poi dagli Etruschi, i quali furono poi cacciati via dai Romani nel 192 a.C. Giunti a Bertinoro, i Romani trovarono un terreno invivibile per l’uomo a causa della forte presenza di paludi, radure erbose e foreste, così bonificarono il terreno rendendolo il “giardino” che adesso tutti noi possiamo ammirare.

Poco dopo l’anno 1000 e con il cessare delle invasioni barbariche, Bertinoro divenne una contea, fu cinta da nuove mura e prese il nome di Castrum Britannorum (Castello dei Britanni), sembra come derivazione dai pellegrini della Britannia francese.

I conti bertinoresi appartenevano quasi tutti all'illustre famiglia degli Honesti di Ravenna. Successivamente l’imperatore Federico I di Svevia, dopo la sconfitta nella famosa battaglia di Legnano, scelse Bertinoro come sede e si fermò nella Rocca con la sua corte nell'anno 1177, per poi ripartire per la Germania.

Dopo essere stata contesa da varie Signorie, nel 1382 Bertinoro, per disposizione di papa Innocenzo VI, divenne Civitas e sede vescovile. Seguì un periodo turbolento, arrivarono i Malatesta, poi gli Ordelaffi, Cesare Borgia, e poi fu annessa definitivamente allo Stato della Chiesa alla caduta del Valentino.

Negli anni del XVIII secolo Bertinoro era abitata da circa tremila persone, era sede vescovile, di un seminario e di ben otto Ordini religiosi, oltre a numerose Confraternite. Seguì tutte le vicissitudini della Romagna durante il periodo napoleonico fino all'Unità d’Italia e poi fino ai giorni nostri.

Il centro storico è formato da uno borgo di origine medievale racchiuso all'interno di possenti mura, anche se purtroppo la maggior parte delle storiche porte di accesso sono state demolite nel secolo scorso per consentire un più facile accesso alle auto. Questa “sorte” è toccata a Bertinoro come purtroppo a tanti altri borghi italiani.

La Rocca

Fig. 2 - Rocca di Bertinoro.

La Rocca di Bertinoro sorge sulla cima del colle di Bertinoro. L’origine della Rocca si attesta intorno all'anno 1000 e fu considerata una delle opere difensive più temute, oltre che sicuro rifugio per i conti, da Federico Barbarossa, Novello Malatesta e Cesare Borgia.

Durante la Contea, la Rocca fu testimone della sua trasformazione dal suo umile inizio fino all'apogeo della potenza e della gloria, dopo di che la Rocca venne abbandonata dopo la caduta della Contea da parte dei Bulgari e dei Mainardi.

La fortezza contava quattro torri che sorgevano agli angoli. La torre maschia all'angolo nord-est, la torre all’angolo nord, munita di un ponte levatoio che dava accesso a un viadotto il quale portava alla sottostante porta del Soccorso. Particolare rilievo aveva la torre rivolta a sud, trasformata nell'ingresso principale alla Rocca, poiché qui si trovava un sistema difensivo di mura e di torrioni. Nel cortile interno della Rocca era collocato un vasto cisternone che raccoglieva le acque piovane, mentre le stanze intorno al cortile erano abitate dai soldati.

Nel 1496 un fulmine dimezzò la torre grande, che cadendo distrusse in parte il fabbricato interno e la cisterna. Dal 1584, anno del trasferimento della sede vescovile, la Rocca subì continue trasformazioni da parte dei vescovi che modellarono la fortezza secondo i loro gusti.

Dal 1985 la Rocca è centro per lo studio e la conservazione dell’arredo liturgico e del costume religioso, mentre dal 1994 il rivellino della Rocca e la sala nobile del castello ospitano il Centro Residenziale Universitario con servizi avanzati per attività formative, convegni, incontri di studio e ricerca per studiosi e professionisti di paesi di tutto il mondo.

La Cattedrale di Santa Caterina

La Cattedrale di Santa Caterina è situata nella piazza principale di Bertinoro. La sua costruzione fu voluta fortemente dal Vescovo di Bertinoro monsignor Gian Andrea Caligari, che finanziò i lavori di costruzione della Cattedrale con le proprie risorse finanziarie e con il sostegno della comunità bertinorese. La costruzione si concluse nel 1601 quando il vescovo pose una lapide a memoria dell’impresa. La cattedrale fu costruita accanto al Palazzo Comunale perché sembrava che dovesse crollare e quindi “la chiesa sarebbe apparsa in tutta la sua bellezza nella nuova e più ampia piazza”. Ancora oggi la facciata della Cattedrale risulta costruita a ridosso del Palazzo Comunale, dal quale la separa uno spazio di soli tre metri; in questo interstizio murario si trovano il portico e la scala ad unica rampa che dà accesso all'interno del tempio.

La pianta della Cattedrale è a pianta longitudinale, costituita da tre navate definite e ritmate da pilastri a sezione cruciforme alternati a colonne di ordine ionico. L’abside è illuminata da due grandi finestre rettangolari e una serie di dipinti ne decora il catino e le volte a crociera e a botte. Il pavimento della cattedrale è un mosaico alla veneziana, risalente all'Ottocento, disposto a formare delle stelle inscritte in circonferenza entro cornice quadrilatera.

Tra le opere d’arte collocate all'interno della Cattedrale si trova la spaziosa tela (550 X 300 cm.) in fondo all'abside raffigurante Le nozze mistiche di Santa Caterina del pittore forlivese Giuseppe Marchetti (1722-1801). Nell'altare del braccio sinistro del transetto si trova un grande Crocifisso ligneo a cui i devoti bertinoresi si affidano per ottenere grazia; si narra che un pellegrino giunto a Bertinoro recasse sottobraccio qualcosa di davvero prezioso. Fermatosi nei pressi di una casupola alla quale si appoggiava un albero di fico, il pellegrino avrebbe chiesto alla persona che viveva in quella casa di avere quell'albero di fico per intagliarlo, in cambio di una stanza vuota al piano terra della casa. Tre giorni dopo il proprietario della casa trovò, al posto dell’albero, il magnifico crocifisso che si può ammirare oggi.

Nella terza cappella di sinistra si trova il quadro di Francesco Longhi (1544-1618), la Madonna col Bambino e gli Apostoli Pietro e Paolo, mentre nella prima cappella di sinistra è presente un complesso d’altare con due statue in stucco e angeli dislocati alla sommità, ai lati del timpano.

Fig. 10 - Prima cappella di sinistra della Cattedrale.

Il Palazzo Comunale di Bertinoro

Fig. 11 - Veduta esterna del Palazzo Comunale.

Il Palazzo Comunale fu edificato nel 1306, fra l’Oratorio di Santa Caterina e la vecchia torre, su volere di Pino degli Ordelaffi in accordo con Alberguccio Mainardi. Le otto colonne del portico, di stile tra il bizantino e il romano, sembrano anteriori al 1300 e tutti i muri risultano interamente composti di materiale di residuo di altri fabbricati. L’edificio si alza di un solo piano su un fronte di 40 metri ed è poggiato su otto colonne dalle quali si staccano ampie arcate.

Fig. 12 - Colonnato del Palazzo Comunale.

Il lato rivolto a est costituiva l’abitazione del governatore ed era composto di quattro camere; questo lato fu quello che subì più modifiche a causa dei diversi usi a cui fu adibito. Il piano terra era occupato dal corpo di guardia e dal personale di servizio.

Fig. 13 - Interno del Colonnato del Palazzo Comunale.

Lo scalone d’ingresso conduce nella sala centrale denominata “del popolo”, dove i cittadini si riunivano per esprimere la loro volontà in occasione di grandi avvenimenti. Da qui si passa alla sala “dei quadri”, chiamata così perché qui si possono ammirare sei tele dipinte dal pittore forlivese Antonio Zambianchi nel XVIII secolo, che ritraggono avvenimenti di storia locale. Oltre a queste sale, si trovano la sala magna che era riservata al governatore e la sala “del fuoco” perché è l’unica che abbia conservato il vasto focolare.

Accanto al Palazzo Comunale si trova la torre del Comune, la quale serviva ai naviganti; si vuole preesistesse al palazzo e che sia stata dimezzata in altezza, inoltre sarebbe stata imposta una cella campanaria in stile barocco in stridente contrasto con lo stile artistico del complesso.

Fig. 14 - Torre del Comune

La Colonna dell’Ospitalità

Fig. 15 - Colonna dell’Ospitalità.

La Colonna dell’Ospitalità fu elevata il 5 Settembre 1926 sulle fondamenta antiche della Colonna degli anelli. La colonna sorse a metà del XIII secolo come simbolo di cortesia e di amore, per togliere motivi di dissensi e litigi tra le migliori famiglie bertinoresi.

Rimossa nel 1570 per far posto ad una fontana, nel 1922 si scoperse una nicchia dove era riposta la base di una colonna. Nel 1926 si identificò la base di quella colonna come le fondamenta della Colonna degli anelli e ciò accrebbe nella cittadinanza bertinorese il desiderio di veder risorgere l’antico monumento, il quale fu esaudito il 5 settembre 1926.

Sul lato nord-est della colonna è collocato il motto “omnibus una” che l’Accademia letteraria dei Benigni aveva scritto sulla sua insegna riproducente la Colonna. Sul lato nord-ovest si trova la scritta “Hic constitit viator” che significa “qui si fermò il viandante”, mentre nel lato sud è rievocata la data d’inaugurazione.

Colle di Monte Maggio (Ex Cappuccini)

Fig. 18 - Monte Maggio.

Monte Maggio dista poco più di un chilometro da Bertinoro e la sovrasta raggiungendo l’altezza di 328 metri s.l.m. Sul finire dell’anno 1000, sulla cima del monte, sorgeva un castello che fu poi fatto demolire dal Conte Ugo degli Honesti. Nel 1297 Galasso di Montefeltro, per vendicare l’affronto fatto ai ghibellini da Alberguccio Mainardi, assediò Bertinoro e, per facilitarne la resa, fece costruire la bastia di Monte Maggio che fu poi distrutta.

Nel 1393 la bastia fu ricostruita dagli Ordelaffi per tentare di riconquistare Bertinoro, tentativo che fallì per il tempestivo intervento di Galeotto Malatesta.

Nel 1539 i frati Francescani si trasferirono dal loro convento di Piazza Cavour al Monte Maggio e così prese il nome di Monte dei Cappuccini; sulle fondamenta della bastia, i frati edificarono un convento e lo recinsero di bellissime mura. Nel 1597 la chiesa fu consacrata dal Vescovo Caligari.

Il convento possedeva una ricca biblioteca, perciò il convento fu scelto dall’Accademia dei Benigni per le manifestazioni letterarie. I Cappuccini praticavano l’ospitalità e spesso i poveri salivano al convento per essere ristorati.

Nel 1867 il convento e il terreno furono incamerati dallo stato che ne fecero dono al Comune di Bertinoro. I frati se ne andarono e lasciarono gran parte dei loro libri pregiati alla biblioteca comunale.

Dopo essere stato utilizzato come luogo ricreativo, oggi quel che rimane dell’ex convento, ancora di proprietà del Comune, giace in stato di abbandono.

 

 

BIbliografia

LUIGI GATTI, Bertinoro, notizie storiche, a cura dell’Accademia dei Benigni, Bertinoro 1979.

STEFANIA MAZZOTTI, Storia di Bertinoro, testi di M. Graziella Bazzocchi, Laura Bezzi, Anna Fabbri, Anna Maria Leoni, Kira Zama, Elisabeth Zezza, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1998.

GIORDANO VIROLI, Chiese ville e palazzi forlivesi, Cassa dei Risparmi di Forlì S.p.A., Nuova Alfa Editoriale, Forlì 1999, pp. 39-46.

Viaggio attraverso le regioni italiane: Romagna, Le guide di 888.it, Fininternet S.p.A., 2002, pp. 134-135.