LA CRIPTA DI SANT’ADAMO

A cura di Marco Bussoli

 

Nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Guglionesi, in provincia di Campobasso, è possibile visitare un ambiente in cui numerosi secoli di storia si sono sedimentati. La storia della Cripta di Sant’Adamo inizia infatti in tempi molto remoti, ma continua a lungo ad essere viva. Secondo alcuni storici la fondazione di questo luogo può addirittura farsi risalire al VII secolo[1], ma gli interventi più significativi vennero compiuti qualche secolo più tardi, durante la dominazione normanna, quando venne costruita la soprastante chiesa di Santa Maria Maggiore. 

 

La Cripta di Sant’Adamo 

La morfologia stessa di questo ambiente lascia intendere come esso sia stato più volte modificato, anche in funzione della chiesa superiore. Ciò che può, infatti, disorientare è l’orientamento rispetto ad essa. Dalla navata destra della chiesa si può accedere alla cripta, il cui lato lungo è parallelo alla navata, imponendo però al visitatore di girarsi verso destra una volta raggiunta la campata centrale. Alla particolarità di un orientamento così complesso si aggiunge quella delle ultime due campate, molto più alte delle precedenti, che definiscono così uno spazio più arioso all’interno della stessa cripta. L’ambiente è ordinato da campate quadrate chiuse da volte a vela sorrette, a loro volta, da colonne in pietra. 

La veste medievale di questo luogo, oltre che essere caratterizzata dalla sua spazialità, è definita dagli apparati scultorei delle colonne che reggono le volte. È da subito evidente, da un’analisi stilistica, come queste non siano appartenenti alla stessa fase di costruzione, e di come sia estremamente plausibile l’ipotesi del reimpiego: se si guarda solo all’elemento colonna è facile notare come quella a destra dell’altare e quella ad essa diametralmente opposta siano diverse dalle altre; queste infatti non hanno una base ed un doppio collarino, ma presentano una decorazione geometrizzante a triangoli nella parte bassa e a semicerchi; un simile esempio, seppur isolato in Molise, è molto comune in altre zone d’Italia nello stesso periodo.

 

L’altra particolarità della colonna a destra dell’altare è il suo capitello, che pur presentando rilievi con motivi vegetali, come gli altri, è più elaborato: alla presenza di foglie nervate sugli spigoli si aggiungono dei caulicoli che dal centro formano delle volute verso l’alto. Un altro pseudo-capitello si differenzia dagli altri ed è quello dell’ultima colonna della prima fila, che oltre agli elementi vegetali presenta al centro di ogni faccia una protome umana, simile a quelle presenti a Santa Maria di Canneto. Il riferimento a quest’ultima chiesa sembra essere particolarmente calzante date le assonanze stilistiche degli elementi decorati, pur essendo quelli di Canneto di qualità inferiore. Questo può far supporre che siano state le stesse maestranze ad eseguire queste opere, proprio quando, dopo il 1125 il monastero acquisì alcune proprietà a Guglionesi. L’ipotesi di datazione alla prima metà del XII secolo trova generalmente d’accordo gli altri studiosi che si sono avvicendati nello studio della Cripta[2], soprattutto dopo i confronti con le sculture di altri edifici come la Cattedrale di Termoli ed altri edifici della Capitanata (Puglia). In generale è ravvisabile nei capitelli una certa ricerca formale nei motivi e nella resa scultorea, cercando di rendere le foglie scolpite sempre diverse, mantenendo un’alta qualità.

 

Gli affreschi delle volte 

Durante il XVI sec., quando le spoglie di Sant’Adamo vennero traslate a Guglionesi, si decise probabilmente di dipingere le volte con dei motivi monocromi, emersi durante i restauri degli anni ’80, che vennero poi coperti da un ciclo di affreschi più articolato. Fu proprio durante i restauri di fine ‘900 che si prese realmente coscienza del ciclo di affreschi e di quanto questo fosse gravemente danneggiato e lacunoso a causa delle mancate attenzioni. Sono ancora leggibili solo due delle voltine a vela e l’affresco che copre lo spazio più ampio, rendendone comunque comprensibile l’iconografia. 

 

Il ciclo d’affreschi procede con molta probabilità in ordine cronologico presentando episodi della Genesi, nella prima parte all’interno di grottesche in un finto cassettonato decorato a nastri e con motivi vegetali. La figura di Dio padre nel più grande riquadro della volta alta apre il ciclo, riprendendo chiaramente la Separazione della terra dalle acque della Cappella Sistina, ponendo al centro il gruppo di dio con due putti nell’atto di volare, su uno sfondo grigio. Attorno a questa prima scena sono collocati quattro episodi della Genesi che hanno per soggetto i primi uomini sulla terra: viene raccontata in tre riquadri ovali la storia di Adamo ed Eva, partendo dalla Creazione di Eva, e nell’ultimo ovale viene presentato l’Olocausto di Caino e Abele. In tutti questi episodi i riferimenti al ‘500 romano sono molto marcati a partire dalle figure michelangiolesche, tutte riferite al ciclo della Cappella Sistina; altri riferimenti sono però ben evidenti, come riporta Nadia Raimo, come quelli ai lavori di Perin del Vaga nella Cappella del Crocifisso in San Marcello al Corso. 

 

La decorazione delle volte a vela è ordinata dalla divisione in due porzioni dello spazio, tramite cornici simili a quelle del vicino cassettonato ma più esili. Le prime due scene visibili sono entrambe riferite al diluvio universale e sono L’arca di Noè e la raccolta degli animali ed il Diluvio universale, nella seconda volta affrescata, invece, sono presenti gli episodi dell’Ebbrezza di Noè e la Torre di Babele. Anche in questo caso il richiamo ai temi ed ai modi della pittura romana è lampante e rende molto semplici i confronti con i possibili riferimenti. Da un lacerto rimasto in una delle volte è possibile vedere alla base della vela la pittura di una grande foglia d’acanto che sembra richiamare quelle del Catello di Gambatesa.

 

L’autore degli affreschi

Sull’autore di questi affreschi si è molto speculato proprio perché la vicinanza con Gambatesa e le assonanze stilistiche con gli affreschi del Castello rendono quasi immediati i collegamenti. In realtà la data, il 1587, affrescata su un peduccio della Cripta sposta di quasi quarant’anni in avanti l’esecuzione rispetto a quelli di Donato Decumbertino, del 1550. Vengono quindi avanzate ipotesi simili anche per la cripta, come quella su Gianserio Strafella, pittore salentino, sebbene le uniche certezze siano sulla formazione del pittore di Guglionesi. L’artista che qui ha operato si è con tutta probabilità formato prima in patria e poi a Roma, come avevano fatto anche Decumbertino e Strafella, riuscendo così ad avere un simile patrimonio iconografico alle spalle. Si può quindi ipotizzare che l’artista si sia formato nell’ambiente di Perin del Vaga e dei suoi colleghi e si sia poi spostato in luoghi periferici portando con sè questo bagaglio ed aggiornandolo con i modelli più vicini.

 

 

 

Note

[1] R. Leone, I. Benoffi, Ipotesi per una lettura storica del territorio di Guglionesi, in “Archivio Storico Molisano”, II, Campobasso, come riportato da B. Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1991, p. 33.

[2] Ada Trombetta, che ci torna in più occasioni, e Corrado Carano.

 

 

 

Tutte le foto sono state scattate dal redattore.

 

 

 

 

Bibliografia

Berardino Incollingo, La scultura romanica nel Molise, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1991;

Nadia Raimo, Gli affreschi della cripta di Sant’Adamo nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Guglionesi, in E. Carrara (a cura di), Gli affreschi di Donato Decumbertino nel Castello di Gambatesa, 1550, Roma, Carocci, 2020


UN LUOGO SUGGESTIVO SUL LAGO MAGGIORE: L’EREMO DI SANTA CATERINA DEL SASSO

A cura di Beatrice Forlini

 


Origine dell'Eremo

L’eremo di Santa Caterina sorge in una posizione tanto particolare quanto suggestiva della sponda lombarda del lago Maggiore; situato nei pressi del piccolo paese di Leggiuno, è infatti costruito a strapiombo sul lago e sotto uno sperone denominato Sasso Ballaro. La scelta della posizione dell’eremo non fu certo casuale, si trova infatti in quello che doveva essere un punto strategico del lago, il quale già in pieno Medioevo rappresentava una fondamentale via di comunicazione tra nord e sud. Il lago Maggiore era infatti un importante centro per il commercio e l’artigianato, oltre che una risorsa per l’agricoltura e probabilmente luogo di ritrovo per mercanti, pellegrini e viaggiatori. 

La storia di questo eremo inizia molto tempo fa ed è legata alla leggendaria e mitica figura di un Beato, Alberto di Arolo, della facoltosa casa dei Besozzi; egli, secondo il racconto, era un ricco commerciante che conduceva una vita agiata. Un giorno però per scampare ad un naufragio invocò la Santa martire Caterina di Alessandria, facendo voto di cambiare completamente stile di vita e di dedicarsi unicamente a penitenza e preghiera. Riuscendo poi fortunatamente ad arenarsi proprio sotto al sasso o rupe Ballara, decise di dare fede al voto fatto e costrì una chiesa dedicata alla santa che lo aveva salvato, Caterina. L’iniziale nucleo costruttivo rimane adesso inglobato nella zona absidale della chiesa ed è solo una parte del complesso che possiamo ammirare oggi affacciandoci da questo “balcone di roccia” naturale. A fare da cornice alla costruzione possiamo ossevrare un panorama mozzafiato sulla natura e sul lago.[1] Sebbene costruito in un luogo non facilmente raggiungibile e nonostante la beatificazione di Alberto e la sua effettiva esistenza non siano mai state propriamente dimostrate, fin dal Medioevo il complesso divenne meta di numerosi pellegrinaggi.

Fin dall’inizio del Trecento altri uomini scelsero di seguire l’esempio dell’eremita, prima senza una regola e poi col passare del tempo unendosi e dandosi una struttura e delle regole. Si arrivò dunque alla formazione di una prima comunità monacense che faceva capo alla regola di Sant’Ambrogio ad Nemus, la quale diede viata al nucleo più antico dell’edificio che ancora oggi rimane alla base del complesso dell’eremo. Le prime struttre ad essere costruite furono: la cappella di Santa Maria Nova, la chiesa dedicata a San Nicolao, all’interno della quale sono state rinvenute le testimonianze più antiche del complesso, risalenti al 1301, il campanile, il conventino e il convento meridionale. La cappella e la chiesa di San Nicolao vennero poi inglobate nel volume della successiva chiesa dedicata a Santa Caterina. Nel 1379, dopo gravi difficoltà economiche, l’eremo venne aggregato alla domus milanese di S. Ambrogio ad Nemus. 

La storia del complesso dal Cinquecento ad oggi

Il complesso visse un periodo di grande fioritura e benessere a partire dal Cinquecento grazie all’alleanza tra la famiglia Besozzi, da sempre legata all’Eremo grazie alla figura dell’antico antenato Alberto, e la famiglia degli Sforza. Col tempo le piccole chiese che erano sorte accanto al famoso sacello di Santa Caterina divennero un unico grande ambiente; venne modificata quella che era la zona absidale trasformandola in cappelle laterali e a partire dalla metà del secolo vennero realizzati diversi cicli di affreschi e decorazioni di vario genere, . 

Il complesso comprende principalmente ancora oggi tre edifici: il convento meridionale, il cosiddetto conventino e la chiesa di Santa Caterina, collegati tra loro da due cortili terrazzati affacciati sul lago. L'ingresso all'eremo era ubicato nel convento meridionale e dall'atrio un terrazzo conduceva al conventino che ospitava la cucina, il refettorio e le celle dei monaci. A est della facciata della Chiesa dedicata a Santa Caterina vi è l’imponente campanile in pietra.

Il Seicento fu invece un secolo segnato da guerre, carestie e peste, che colpirono duramente anche questa zona fino a causare la soppressione dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus. Alcuni anni più tardi l’Eremo venne affidato ai Carmelitani di Mantova, che rimasero qui fino alla soppressione del convento nel 1769. la maggior parte della proprietà passo quindi sotto le parrocchie dei vicini comuni di Arolo, Cerro, e Laveno, mentre la chiesa venne rilevata dalla Curia di Milano e unita alla Parrocchia Leggiunese. 

L’eremo rimase pressochè abbandonato, senza una comunità religiosa residente, per quasi 150 anni nonostante i numerosi sforsi da parte della parrocchia di Leggiuno nel tentativo di trovare qualche ordine interessato a rilevare l’Eremo. Il complesso, già a partire dal 1914 era stato riconosciuto come Monumento Nazionale, avendo così l’opportunità di essere restaurato varie volte. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Eremo tornò a vivere un momento di attività, la prima sala del convento superiore venne infatti trasformata in ristorante e al fine di rendere il complesso più facilmente rggiungibile venne ricostruito  l’attracco per il battello in cemento. Nel 1970 la Provincia di Varese acquistò la struttura avviando uno dei primi interventi di restauro d'urgenza sull'edificio del conventino per evitare in maniera concreta che l’edificio continuasse a subire danni. Venne fatto un intervento di consolidamento e successivamente restaurato l'intero complesso. L’ingresso, che avveniva tradizionalmente via lago (prima dell’attracco del battello), oppure attraverso una scalinata, è stato reso ancora più agibile grazie anche alla costruzione di un ascensore in tempi recenti. Un episodio curioso da ricordare è che l’accesso via terra dalla porta sud che ancora oggi è utilizzato da tutti i visitatori, durante il periodo del Concilio Tridentino (1545-63) era vietato perché era inconcepibile il passaggio attraverso i locali della clausura monacale. 

Per concludere, questo luogo, ancora considerato un singolare esempio di struttura conventuale, grazie alla sua ricchezza spirituale, agli spettacolari scenari che regala sulla natura circostante e alle sue meravigliose opere d’arte, continua ad attirare numerosi visitatori e pellegrini, curiosi di rivivere un’atmosfera quasi millenaria.

 

 

 

 

 

Note

[1] Sito web Eremo di Santa Caterina del Sasso, sezione Storia: https://www.eremosantacaterina.it/it/l-eremo/storia [consultato in data 26/04/2022]

 

 

 

Sitografia

Sito Eremo: https://www.eremosantacaterina.it/it/ [consultato in data 26/04/2022]

Scheda Sirbec: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00095/  [consultato in data 26/04/2022]


LA CHIESA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE

A cura di Letizia Cerrati

 

Un prezioso tesoro nel centro storico di Maglie

 

La popolarità di Maglie è sostanzialmente recente, in tempi moderni si è infatti andata consolidando la sua immagine di cittadina tra le più importanti di tutta la realtà salentina, ricca di floride attività commerciali, vivace centro culturale, depositaria di tradizioni ed importanti espressioni artistiche.

Il celebre studioso salentino Cosimo De Giorgi  sul finire del XIX secolo descriveva la città come un piccolo paese di contadini, artigiani e commercianti, interessato successivamente da una straordinaria espansione urbana che l’aveva trasformata in una graziosa cittadina, il cui incalzante sviluppo “non trova forse riscontro con nessun altro paese o città di Terra d’Otranto”. 

Maglie diventa quindi prestigioso centro, snodo chiave dell’area sud, del territorio del Capo di Leuca, sito influente anche per la presenza delle cave situate tra Cursi e Melpignano da cui si estraeva la rinomata pietra leccese.

La chiesa di S. Maria delle Grazie, commissionata dalla confraternita della Natività, in passato nota col nome di chiesa della Congregazione, fu edificata dal 1602 e completata nel 1618.

Quando la decorazione fu portata a termine la chiesa divenne l’edificio cittadino maggiormente affine alla cifra stilistica delle architetture dell’epoca.

Situata sull’antica via S. Basilio, l’odierna via Roma, in prossimità della Colonna della Madonna delle Grazie, sembra quasi segnare l’estremità del centro storico della città. 

Due lesene incorniciano una facciata piuttosto lineare, il cui stile essenziale, lontano dalla fastosità barocca, è interrotto dal portale seicentesco che, frutto della sfrenata fantasia di Giovanni Donato Chiarello, si schiude al centro. 

Datato 1648 (come indica la data alla base del cartiglio sottostante la statua della Madonna sul portale centrale) fu scolpito dal magister statuarius che più si discosta dagli altri architetti del Barocco leccese; di questi ultimi egli fece tesoro di alcune lezioni di stile, facendo suoi specifici elementi decorativi che disseminò sapientemente nelle sue opere, caratterizzate da una composizione solenne che pure si lascia andare a forme fiabesche ed a tratti stravaganti.

Il portale, sormontato da una flessuosa statua della Madonna col Bambino verso cui si rivolgono due piccoli putti alati, è inquadrato da due colonne tortili, sulle quali si avvolgono spirali e volute che ne scandiscono il volume, queste poggiano su alti basamenti caratterizzati da profili di due volti dalle fattezze umane, che riecheggiano la maniera di Cesare Penna. 

Una semplice finestra rettangolare centinata corona il portale.

Nel 1658 furono portati a termine, dal concittadino di Chiarello Ambrogio Martinelli, i lavori di costruzione del timpano triangolare che chiude l’architettura religiosa e sovrasta il fregio continuo che corre sulle maestose lesene, al centro del quale è la testina di un angelo.

Il timpano, su cui si erge una croce, è ornato dalla testa di un putto di grandi dimensioni a cui si collegano, mediante drappi, due particolareggiati festoni vegetali; all’apice è posto invece un cartiglio che reca la data della fine dei lavori.

L’ambiente interno è a navata unica quadrangolare in cui spicca un unico grandioso altare, che riempie interamente la parete di fondo. 

 

Anche l’altare è opera del Chiarello: i suoi motivi decorativi sono spalmati su tutta la struttura, l’horror vacui trionfa e la decorazione si spinge sino a diventare parossistica.

L’elemento è svelato da due drappi laterali da cui si affacciano le coppie di colonne tortili, le cui spirali sembrano svilupparsi dai balconi miniaturizzati posti al di sopra dell’entasi, sormontate poi da timpani spezzati.

 

Puttini nudi di cui si è conservata la policromia sono abbarbicati alle decorazioni dorate che si arrampicano sulle colonne ed alleggeriscono la gravità dell’opera.

In posizione centrale, al di sopra delle colonne, un baldacchino che accoglie un’Incoronazione della Vergine, anch’esso stratificato di minuziose decorazioni, è sorretto da due angeli.

 

Una pala ad olio di grandi dimensioni, ascrivibile al XVII secolo, raffigurante la Madonna col Bambino, accompagnata da Sant’Antonio Abate, Sant’Antonio da Padova, San Basilio e dal committente Salvatore Droso, si staglia al centro della macchina d’altare.

Una veduta della città di Maglie, probabilmente risalente all’Ottocento, era sistemata in passato proprio sotto la figura della Madonna; i recenti restauri hanno optato per la sua rimozione.

De Giorgi definì l’opera del Chiarello “di un’architettura barocca molto trita”.

Successive sono le dodici tele con gli Apostoli appese sulle pareti laterali, risalenti al XVII secolo.

La volta è totalmente ricoperta da affreschi, opera di artista ignoto, caratterizzati da una luminosa armonia di colori che ben si accorda col bianco dell’intonaco circostante, al centro un cordone delimita i medaglioni con le figure dei quattro Evangelisti, che a loro volta sono collegati ad un ottagono dentro cui si agita un festoso corteo di putti.

 

Al di sopra dell’altare maggiore la decorazione murale ritrae l’Invocazione delle genti per la venuta del Messia con angeli musicanti, uno tra i primi splendidi esempi di iconografia musicale al tempo del Barocco.

I temi degli affreschi paiono sviluppare la contrapposizione peccato/virtù, infatti, nelle vele della controfacciata ad essere raffigurata è la Cacciata dei Progenitori dall’Eden, simbolo per eccellenza di punizione divina scaturita dalla colpa dell’uomo, mentre nell’abside la scena di Gloria in Paradiso può facilmente essere interpretata in chiave di salvezza dell’anima concessa dalla Vergine.

Un percorso di redenzione che culmina nell’abside ma che può essere letto anche procedendo in direzione inversa, ovvero uscendo dalla chiesa ed alzando lo sguardo sulla controfacciata.

Il fedele che agisce secondo virtù ed obbedisce alle leggi divine sarà accolto da uno stuolo di angeli musicanti in uno spazio celestiale scevro di rumori assordanti, attraversato soltanto dalla musica paradisiaca.

Ancora una volta ritorna il motivo del drappo, un panneggio ricco pende sul concerto degli angeli, dà l’idea di essere pesante da sostenere, di un tessuto spesso che i piccoli putti fanno fatica a sostenere, tanto che due tra quelli recanti tra le mani i girali gialli e verdi li aiutano a tenerlo sollevato con espressione concentrata. La resa finale è splendida: un sipario che si apre sulla scena sacra.

 

Nell’abside il trionfo del Paradiso, nella controfacciata Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, ricordano al fedele che si appropinqua verso l’uscita a cosa si va incontro disobbedendo a Dio. La scena cattura il momento in cui i progenitori sono fatalmente espulsi dal giardino dell’Eden.

Il messaggero divino è l’arcangelo Michele che, secondo i vangeli apocrifi della Vita Adae et Evae, sostituiva il Creatore durante la Cacciata.

Una figura imponente, con sguardo severo, il cui gesto della mano perentorio condanna per sempre l’umanità attraverso i progenitori.

Varie specie animali circondano i protagonisti della scena, immersi in una natura lussureggiante, simbolo dell’abbondanza e del benessere imperturbabile che l’uomo si accinge a lasciare per sempre.

Anche quest’affresco è svelato dagli angioletti affaccendati ritrovati nella scena dell’abside.

 

L’organo, situato sulla cantoria dell’ingresso è opera di Nicola Mancini, un organaro di origine napoletana.

L’armadio in legno a destra della navata ospita al suo interno una regale statua della Madonna col Bambino che indossa un abito riccamente decorato in oro, tessuto dalle suore clarisse di Soleto.

 

Di impressionante realismo è il Cristo morto, opera dello Studio Stuflesser, racchiuso in una teca lignea posta sulla parete sinistra.

 

 

 

Tutte le foto presenti all'interno dell'articolo sono a cura della redattrice.

 

 

 

Bibliografia

Emilio Panarese, Mario Cazzato, Guida di Maglie, Storia Arte Centro Antico, Galatina, Congedo Editore, 2002

Vincenzo Cazzato, Simonetta Politano L’altare barocco nel Salento; da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Raffaele Casciaro, Antonio Cassiano (a cura di), Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, Roma, De Luca Editori Arte, 2008

Elsa Martinelli, Un documento di iconografia musicale barocca. Gli angeli musicanti negli affreschi di Santa Maria delle Grazie a Maglie, in AA. VV., Itinerari di ricerca storica VI-1992, Galatina, Congedo Editore, 1993

 

Sitografia

https://cartapulia.it/dettaglio?id=133460


GLI AFFRESCHI DI DOMENICO GHIRLANDAIO NELLA CAPPELLA TORNABUONI PT II

A cura di Silvia Faranna

Un percorso tra storia sacra e storia fiorentina. Le Storie della Vergine

Parete sinistra: le storie della Vergine 

Esattamente difronte le storie di Giovanni Battista, nella parete sinistra della Cappella Maggiore in Santa Maria Novella, furono affrescate le storie della Vergine. Se per il ciclo precedente la fonte principale fu il Vangelo di Luca, per queste scene Ghirlandaio trasse le sue informazioni dai cosiddetti “vangeli apocrifi”. Spopolati nel Medioevo, i vangeli apocrifi sono stati scritti tra il II e III secolo con lo scopo di colmare alcune lacune riscontrate nei vangeli canonici, o per trasmettere una rivelazione segreta (come suggerisce lo stesso nome, “apocrifo” vuol dire chiuso, segreto). Le fonti a cui si affidò il Ghirlandaio possono essere riconosciute nei Protovangelo di Giacomo e Vangelo dello Pseudo-Matteo. Essendo il ciclo dedicato alle storie di Maria, molte delle informazioni riguardanti la sua famiglia – i genitori (di cui vengono svelati i nomi), la sua presentazione al tempio o la sua assunzione, ad esempio – sono state riportate all’interno di questi testi. 

Differentemente dai sette affreschi dedicati al Battista, per queste scene Giovanni Tornabuoni non volle contaminare eccessivamente il racconto sacro con personaggi della propria famiglia, ma dispose una rispettosa narrazione della vita di Maria, concedendo una maggiore attenzione alla sua giovinezza e alla famiglia.  

Le storie della Vergine incominciano con un evento di cui fu protagonista il padre: la Cacciata di Gioacchino dal tempio. La scena fu impostata dal Ghirlandaio in un’ambientazione che rimanda, nella fisionomia del tempio, alla triplice ripartizione di Santa Maria Novella, dove si svolge la scena centrale; sullo sfondo, invece, si trova il portico, dal colore rosaceo, dell’Ospedale di San Paolo a Firenze (fig. 1).

 

Ghirlandaio rappresentò l’evento con forte dinamicità ed energia; per farlo dispose per gruppi e su più livelli i personaggi della scena. Se in secondo piano è rappresentato al centro il sacerdote che riceve i sacrifici, in primo piano Gioacchino, che tiene in braccio un capretto, viene cacciato dal tempio, mentre ai lati due gruppi di personaggi assistono all’evento. Il loro ruolo non è secondario, in primis perché con i loro sguardi rivolti allo spettatore ne attirano l’attenzione; secondariamente, perché ognuno di loro può essere ben identificato. Le quattro figure a sinistra corrispondono a Lorenzo Tornabuoni, Cosimo di Leonardo Bartolini Salimbeni e Alessandro di Francesco di Lutozzo; a destra, secondo il Vasari, David Ghirlandaio, Alessio Baldovinetti, Domenico Ghirlandaio e Sebastiano Mainardi (fig. 2).

 

Ritratti estremamente dettagliati e realistici, come lo stesso Vasari ricordava: ‹‹sempre al disegno attendendo, venne sì pronto e presto e facile che…ritraendo ogni persona che da bottega passava, il faceva subito somigliare: come ne fanno fede ancora nell’opere sue infiniti ritratti, che sono di similitudini vivissime››[1].

La nascita di Maria è forse una delle scene più celebri dell’intero ciclo di affreschi. Sebbene l’evento principale rappresentato sia la nascita della madre di Cristo, in realtà Ghirlandaio unì due episodi diversi: alla sinistra, sulla rampa di scale del vestibolo si riconoscono Gioacchino ed Anna che si abbracciano (Incontro di Gioacchino e Anna) che, secondo il Protovangelo di Giacomo si rincontrarono all’uscio della loro abitazione; per separare questo evento da quello seguente, il Ghirlandaio distribuì in due ambienti lo spazio grazie a dei pilastri riccamente decorati (fig. 3).

 

Dall’altra parte, infatti, Anna è nuovamente raffigurata sul letto, dopo aver dato alla luce Maria, che nel frattempo viene affidata alle cure delle balie, tra le quali spicca l’ancella che versa l’acqua da una brocca, figura ipnotica grazie al movimento della morbida veste spinta dal vento, che colpì anche il Vasari (fig. 4).

 

A dimostrazione dei molti studi e disegni dedicati all’antico, il Ghirlandaio rappresentò il cornicione superiore con una sfilza di putti danzanti e musicanti, tra i quali ben riconoscibile è il modello del piccolo Ercole che uccide i due serpenti. Protagonista della scena è certamente la luce che, proveniente da una finestra sulla parete laterale, inonda gli ambienti creando un gioco di chiarori e di ombre a cui partecipano i putti sul fregio e i personaggi che vivono la scena. Naturalmente, in uno degli eventi più importanti della cristianità non possono mancare, su richiesta di Giovanni Tornabuoni, i componenti della propria famiglia. Di superba bellezza è la figura di Ludovica Tornabuoni, unica figlia del committente venuta a mancare a soli 15 anni per complicanze dovute al parto, commemorata eternamente nell’affresco per desiderio del padre: indossa un abito broccato aranciato, con i capelli fulvi che ricadono lungo la schiena; le mani congiunte si poggiano sul grembo, mentre guarda la nuova creatura, accompagnata da un corteo di dame (fig. 5, 6).

 

 

La Presentazione di Maria al tempio si svolge all’interno di un’imponente architettura dalle fattezze anticheggianti ed una perfetta costruzione prospettica che si conclude con una piazza fiorentina sullo sfondo (fig. 7).

 

Il punto di fuga del reticolato prospettico corrisponde alla figura della giovane Maria che sta salendo le scale, senza remore, salutando affettuosamente i genitori e portandosi avanti verso i sacerdoti, pronti a riceverla insieme alle vergini che dal tempio accorrono felici ad accoglierla. L’idea di gioia e sicurezza trasmessa da Maria viene contrapposta all’insolito atteggiamento meditativo dell’uomo seminudo, poveramente vestito, accovacciato sui gradini sulla destra (fig. 8).

 

Per lo Sposalizio della Vergine Ghirlandaio costruì la scena all’interno di un grandioso tempio, dove un ruolo imponente possiedono gli ornamenti sui pilastri ed i mosaici, che lo rendono ancora più sontuoso (fig. 9).

 

Al centro i due sposi sono raffigurati nel momento preciso della loro unione, posti al di sotto dell’arco centrale per darne maggiore evidenza. Contrari agli sposi sono i pretendenti rifiutati da Maria, che ridono di Giuseppe alle sue spalle e che con atteggiamento malevolo manifestano il disappunto per il matrimonio: addirittura c’è chi spezza con il piede un ramoscello (fig. 10).

 

Quello successivo è purtroppo l’affresco più rovinato del ciclo. L’Adorazione dei Magi è un tema che, come per altri artisti quattrocenteschi quali Benozzo Gozzoli (nella Cappella dei Magi, 1459) e Gentile da Fabriano (nella Pala Strozzi, 1423), fungeva da espediente per esercitarsi nella rappresentazione di volti, costumi, ornamenti orientali ed animali esotici (fig. 11).

 

La ricchezza e l’eleganza pullula, nonostante le condizioni dell’affresco malridotte, dai tre re rappresentanti di una terra lontana e quasi fantastica ‹‹con gran numero di uomini, cavalli e dromedarii et altre cose varie››[2].

La penultima scena del ciclo dedicato alla Vergine fu definita dal Vasari come il miglior affresco realizzato dal Ghirlandaio per Santa Maria Novella ‹‹condotta con giudizio, con ingegno et arte grande››[3]. Risulta interessante vedere come il pittore abbia reso attraverso la composizione di colori e posizioni un’idea di movimento: ‹‹dove si vede una baruffa bellissima di femmine e di soldati e cavalli, che le percuotono et urtano››[4] (fig. 12).

 

L’episodio tragico della Strage degli innocenti non può che colpire il visitatore. Per la scena raffigurata in seguito alla scelta di Erode di uccidere tutti i bambini di Betlemme da due anni in giù, secondo il Vasari, Ghirlandaio riuscì a esprimere tre differenti sentimenti: ‹‹uno è la morte del putto, che si vede crepare; l’altro, l’impietà del soldato che, per sentirsi tirare sì stranamente, mostra l’affetto di vendicarsi in esso putto; il terzo è che la madre, nel veder la morte del figliuolo, con furia e dolore e sdegno cerca che quel traditore non parta senza pena››[5].

Le parole scritte dal Vasari si dispiegano scenograficamente sul primo piano dell’affresco: a sinistra una madre cerca di scappare dal soldato mentre tiene il braccio il proprio pargolo, ormai colpito a morte dall’arma fatale; a destra, una madre dalla veste porpora tira i capelli a un soldato, pronto già con il bambino in braccio per togliergli la vita. La drammaticità della scena è sottolineata dalla furia dei personaggi, nei volti dei soldati accecati dal comando di Erode, e dalle vesti che enfatizzano il senso di movimento e di fuga a cui tutte le madri volevano abbandonarsi pur di salvare i propri figli. Inoltre, l’affresco lascia nuovamente intendere quanto il Ghirlandaio avesse studiato i modelli delle architetture antiche raccolte durante il suo soggiorno romano: fa da sfondo un imponente arco di trionfo, simile al noto arco di Costantino. 

L’ultima scena che conclude le storie della Vergine si dispiega lungo tutta la lunetta superiore, all’interno della quale Ghirlandaio ha in realtà raffigurato due momenti distinti, ma correlati tra loro: la Dormizione di Maria e la sua Assunzione.

 

Per distinguere le due fasi, il pittore, che probabilmente non ha eseguito personalmente la scena, ma per cui ha fornito il cartone, ha diviso l’affresco in due parti. Nella parte inferiore si svolge la dormitio Virginis, in cui la Vergine giace “addormentata” sulla bara, circondata dagli apostoli e plurimi personaggi, forse i Giudei che avrebbero tentato di rovinare il corpo di Maria. La scena, come si legge nelle scritture, si volge all’aperto, nella Valle di Giosafat, ma sembra che il Ghirlandaio abbia interpretato più liberamente l’aspetto paesaggistico. Alzando gli occhi, infine, si riconosce l’assumptio corporis della Vergine che si erge su una nuvola leggera, accompagnata da un corteo di angeli che la trasportano in alto per ricongiungersi col figlio, pronto ad accoglierla a braccia aperte.

 

 

 

Note

[1] G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997, p. 945.

[2] G. VASARI, Le Vite…cit., p. 954.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 955.

 

 

 

Bibliografia

C. DANTI, G. RUFFA, Note sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella chiesa di Santa Maria Novella in Firenze, in “OPD restauro”, 2, 1990, pp. 29-28, 87-89. 

R. G. KECKS, Ghirlandaio: catalogo completo, Firenze 1995. 

Domenico Ghirlandaio (1449-1494), atti del convegno internazionale a cura di W. Prinz, M. Seidel, (Firenze, 16-18 ottobre 1994), Firenze 1996. 

G. VASARI, Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri, Firenze 1568, Grandi Tascabili Economici Newton7, collana "I mammut", 47, Newton Compton Editori, 1997. 

A. SALUCCI, Il Ghirlandaio a Santa Maria Novella. La Cappella Tornabuoni: un percorso tra storia e teologia, Firenze 2012. 

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/ghirlandaio_%28Enciclopedia-Italiana%29/


16 LUGLIO LA ‘BRUNA’ E IL CARMINE DI NAPOLI

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione

Piazza Mercato si trova di fronte al porto commerciale della città di Napoli, in un’area urbana fuori dai circuiti turistici tradizionali, sebbene si tratti di una piazza nella quale si sono svolti molti dei momenti più significativi della storia partenopea.

 

Cenni Storici 

L’area era inizialmente un semplice slargo, chiamato Campo del Morcino e si trovava fuori dalle mura cittadine.

La situazione cambiò con l’arrivo degli angioini: Carlo d’Angiò ne ordinò che, in quello slargo, venisse eseguita la condanna a morte di Corradino di Svevia.[1]

Successivamente fu inglobata nell’area urbanistica e divenne una zona commerciale prendendo il nome di Foro Magno spostandovi, al suo interno, tutto il commercio che prima si svolgeva nell’area in cui si trovava l’agorà di età classica.[2]

Intorno al nuovo foro, fu costruito il primo borgo degli orefici,[3] nelle cui botteghe lavoravano gli orafi francesi giunti in città per volontà degli stessi regnanti.

 Nei secoli successivi, pur continuando ad essere il centro della vita commerciale della città, fu utilizzata per ospitare soprattutto i patiboli delle esecuzioni delle condanne a morte di diversi esponenti della storia partenopea: nel 1647 quella di Masaniello[4] e, negli anni della Rivoluzione napoletana del 1799, qui trovarono la morte per impiccagione i giovani repubblicani, tra loro Luisa Sanfelice ed Eleonora Pimentel Fonseca.

Oggi, Piazza Mercato continua ad ospitare una ricca area commerciale ed è nota anche come Piazza del Carmine poiché su di essa si innalza la Basilica dedicata alla Madonna del Carmine o del Carmelo, detta la Bruna, icona estremamente venerata dai napoletani.

 

La Basilica dedicata alla Madonna del Carmine, detta la Bruna

 

La chiesa si presenta a croce latina, navata unica e dodici cappelle laterali, sei per ciascun lato.

Conta, inoltre, due pregiatissimi organi, di cui uno posto sulla controfacciata.

 

Il soffitto è cassettonato e caratterizzato al centro dalla presenza di una statua lignea della Vergine.

È una basilica barocca, sebbene abbia origini gotiche ed è considerata la chiesa degli Artisti, poiché ha visto la celebrazione di esequie di molte personalità artistiche napoletane come Antonio de Curtis, in arte Totò.

Una datazione precisa sull’edificazione della Chiesa non esiste, è certo che fu iniziata dopo il 1283 ed i lavori proseguirono per diversi decenni del XIV sec., fino ad arrivare poi all’età barocca, durante la quale è stata rivestita dei marmi policromi tutt’oggi esistenti.

La Sagrestia è espressione dell’arte settecentesca napoletana sia negli arredi che negli affreschi, è stata voluta dai Borbone ed è dedicata ai Santi Carlo e Amalia.

 

Il barocco trionfante lo si riscontra i in particolare sull’altare, alle cui spalle è collocato il quadro con l’icona della Madonna del Carmine, detta la Bruna o del Carmelo.

Il quadro della ‘Mamma r’o’ Carmene’[5] ovvero: La Vergine del Carmine, detta La Bruna 

 

Il quadro ligneo rettangolare raffigurante la Vergine del Carmine o del Carmelo, è posto alle spalle dell’altare maggiore dell’omonima basilica e rappresenta una Madonna con Bambino. 

La Vergine è rappresentata su uno sfondo dorato che ricorda i mosaici bizantini ed   indossa un manto blu acquamarina il cui colore vuol simboleggiarne la sua Maternità Divina, su di esso è dipinta una stella pendula che ne rappresenta la Verginità perpetua, ha bordi dorati e, sulla fronte, si vede il bordo rosso della tunica che indossa sotto il manto e, della quale si vedono anche i polsini, il cui colore è il simbolo dell’amore eterno.

Il Bambino in braccio alla madre è retto da entrambe le mani, ma la sinistra si presenta più grande dell’altra, è quasi aggrappato al bordo del manto materno e, con la mano destra le tiene teneramente il volto.

La Vergine, invece, si presenta dai tratti somatici allungati e con la pelle dal colorito bruno, da cui deriva l’appellativo di Madonna Bruna.

Il Suo viso di madre, si accosta e tocca teneramente quello del Bambino, poggiando su di Lui il suo sguardo amorevole.

Il Bambino, invece, non ha un viso fanciullesco, anzi, ha un’espressione quasi austera, con lo sguardo rivolto verso l’esterno della tavola pur rimanendo, coi gesti, legato alla madre.

L’origine della tavola è stata per lungo tempo legato ad una leggenda nella quale si raccontava fosse stata realizzata dell’Evangelista Luca.

Studi diversi, hanno smentito la leggenda e l’hanno attribuita ad un anonimo toscano duecentesco.

Diversi sono stati i restauri di cui è stata oggetto, il più importante è stato ad opera del pittore napoletano Francesco Solimena.

Dalla Palestina a Napoli: dalla fede al folcklore popolare

La storia racconta che l’effige giunse a Napoli portata dai Carmelitani direttamente dal Monte Carmelo in Palestina che, dopo la prima crociata, scapparono per il timore di essere catturati dai musulmani e dopo che fu eretta la nuova chiesa carmelitana in città, il culto si diffuse velocemente tra la popolazione.

Alla sacra effige della Bruna furono attribuiti diversi miracoli, in particolare si faceva riferimento a storie di conversione, ma non mancarono calamità e terremoti per la cui cessazione si chiedeva la Sua intercessione, catastrofi che – la storia di Napoli racconta - cessavano miracolosamente, a seguito delle preghiere o dell’esposizione della tavola.

 

L’incendio al Campanile del 15 Luglio

 

Il campanile risale al 1631, è alto 75m ed è considerato il più alto tra quelli presenti in città.

Alla Vergine del Carmelo è anche dedicato l’incendio al Campanile, uno spettacolo pirotecnico che si tiene ogni anno la sera del 15 luglio, vigilia della Solennità a Lei dedicata.

La storia racconta che durante gli anni di Masaniello si era soliti costruire un carro a cui dare fuoco per ricordare la vittoria dei cristiani durante la battaglia di Goletta contro gli infedeli.

Masaniello era uno dei capi addetti all’accensione del fuoco al fortino che innestava lo scoppio; secondo alcuni storici, era per lui l’occasione per dar vita alle sue rivolte.

Col passar degli anni, ed in particolare con l’avvento dei Barbone, il carro fu sostituito dal campanile: lungo i suoi 75m d’altezza, vengono ancora oggi posizionati fuochi pirotecnici che si accendono attraverso uno stoppino che accende il primo razzo che, a sua volta, innesca la miccia di tutti gli altri dando vita all’incendio ed illuminando a giorno la piazza. 

Alla fine dello spettacolo è tradizione che si aprano le porte della Basilica affinché i fedeli presenti possano entrare e ringraziare la Vergine.

 

Le celebrazioni del 16 Luglio

 Il 16 luglio – nel Giorno Solenne a Lei dedicato – stendardi e gonfaloni mariani vengono esposti e portati in processione lungo le vie cittadine, soprattutto quelle dei quartieri popolari.

Il culto mariano della Vergine del Carmine si intreccia col culto di Maria Santissima dell’Arco,[6] collegandosi quotidianamente con quello del popolo napoletano che invoca la Madre di Dio chiamandola semplicemente Mamm r’ ‘o Carmene. [7]

Mamm r’ ‘o Carmene è infatti una delle espressioni più utilizzate nel linguaggio partenopeo quando c’è un momento di timore, di difficoltà, quando Le si vuole chiedere aiuto; rivolgersi alla ‘Mamma del Carmine’ è come rivolgersi alla propria madre; è un vero e proprio intercalare del popolo napoletano.

Conclusioni

La devozione alla Madonna del Carmine, a Napoli, è fortemente sentita.

Le celebrazioni in Suo onore, sono seconde solo a quelle del Santo Patrono Gennaro del 19 settembre.

Carmine, Carmela, Bruno Carmine od anche Carmine Bruno, sono i nomi che – dopo Gennaro – più si riscontrano tra i napoletani.

Sono espressione di una devozione popolare che ha origini lontane, che trova nel passato remoto le sue radici, nel presente i motivi per portarle avanti, nel futuro la speranza per continuarle.

 

 

 

 

Note

[1] La storia racconta che la madre, Elisabetta di Wittelsbach tentò invano di salvare il figlio, attraverso il pagamento di un riscatto, ma fu inutile poiché al suo arrivo la condanna a morte era stata già eseguita. Era il 28 ottobre 1268. Per dargli degna sepoltura, la regina chiese ed ottenne che fosse sepolto nella Chiesa dei Carmelitani antistante la piazza. Tutt’oggi la Chiesa ne custodisce i resti. 

[2] Area in cui sorge la Basilica di San Lorenzo Maggiore voluta proprio dal casato angioino.

[3] Tutt’oggi esistente nella sua collocazione originaria.

[4] Secondo le cronache del tempo, il capo popolo Tommaso Aniello detto Masaniello, viveva alle spalle della Piazza; oggi – in quel luogo – c’è una targa in sua memoria.

[5] Mamma del Carmelo.

[6] Entrambi i culti – sebbene riferiti alla Vergine Maria e riconosciuti dalla Chiesa di Roma, sono tradizionalmente associati a culti popolari.

[7] ‘Mamma del Carmine ‘ovvero rivolgersi alla Vergine del Carmine per chiederLe aiuto come lo si chiede ad una mamma.

 

 

 

Sitografia

www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/18972 consultato in data 29/05/2022

www.santuariocarminemaggiore.it/icona-madonna-bruna-2/ consultato in data 29/05/2022

www.touringclub.it/evento/napoli-da-piazza-mercato-alla-chiesa-del-carmine-0 consultato in data 01/06/2022


LA “MAGIONE”: STORIA DI UNA COMMENDA FAENTINA

A cura di Francesca Strada

 

 

La "Magione"

Nella città di Faenza, più precisamente nell’area di Borgo Durbecco, sulla via che porta verso Forlì, è possibile ammirare una chiesa molto antica, si tratta della Commenda, intitolata a Santa Maria Maddalena a nota anche come “la Magione”.

Seppur danneggiata dai bombardamenti, sopravvisse alla Seconda guerra mondiale e ancora oggi è capace di narrare al visitatore attraverso le sue splendide vestigia la sua storia secolare fatta di cavalieri e pellegrini di passaggio.

 

Storia

Sebbene non si conosca la data esatta della sua fondazione, è noto che fosse già presente dal 1137, anno in cui viene citata per la prima volta in un documento scritto. E’ quindi possibile che un primo nucleo della chiesa fosse stato edificato già a partire dagli inizi del XII secolo, benché i resti più antichi dell’attuale edificio risalgano soltanto al secolo successivo. Appartengono al Duecento svariate attestazioni della Commenda come ospedale per i pellegrini diretti in Terra Santa, essa fu infatti eretta assieme all’ospizio. Già a partire da questo periodo la chiesa potrebbe essere entrata nell’orbita dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, ma solo successivamente, grazie alla figura del cavaliere Fra Sabba da Castiglione il complesso ne farà parte a pieno titolo raggiungendo il suo periodo di massimo splendore.

 

 

Fra Sabba da Castiglione

Una delle figure più importanti legate alla vita della Commenda è sicuramente quella di Fra Sabba da Castiglione, nobile di origine milanese, che quivi spese gli ultimi anni della sua vita per poi morirvi il 16 marzo del 1554, come riportato nell’epitaffio all’interno della chiesa stessa. Il Castiglione fu in contatto con alcune delle personalità più influenti del suo tempo, come la marchesa di Mantova, Isabella D’Este, dalla quale ricevette anche la commissione di reperire a Rodi oggetti antichi per arricchire la sua personale collezione.

 

Il Castiglione entrò a fare parte dell’ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme nel 1505, mentre 10 anni più tardi, nel 1515, divenne commendatore della chiesa di Santa Maria Maddalena. Tuttavia è soltanto a partire dal 1519 che vi si ritirò a vita privata per trascorrere lì il resto dei suoi giorni. Le uscite divennero sempre più sporadiche fino a ridursi solamente ad occasioni di grande importanza come l’incontro con Papa Clemente VII, diretto a Bologna. È del tutto plausibile che l’esperienza vissuta nei suoi anni di soggiorno romano, gli abbia fatto maturare un astio nei confronti della mondanità, da cui sembra voler fuggire barricandosi tra le mura di questo complesso. Fra Sabba si occupò attivamente dei rifacimenti della “Magione” faentina, che ancora oggi conserva evidenti tracce dell’impegno del più illuminato tra i suoi commendatori.

 

Descrizione della chiesa

La chiesa si presenta come un piccolo edificio a pianta basilicale e volta a botte, terminante in una splendida abside decorata da Girolamo da Treviso su richiesta del Castiglione. Una maestosa architettura incornicia le due scene dell’opera; nella parte inferiore si può ammirare la Vergine in Trono con il bambino e San Giovannino, a destra compare Santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata, simbolo del suo supplizio, mentre a sinistra Santa Maria Maddalena, accompagnata dal ritratto del Castiglione inginocchiato e vestito in abiti cavallereschi. Nel registro superiore è presente la rappresentazione del Padre Eterno tra gli angeli.

 

Tutt’intorno la cornice architettonica, ormai erosa dal tempo, mostra due figure, entrambe mancanti della testa, una delle quali è certamente l’Arcangelo Michele, rappresentato nell’atto di sconfiggere il Maligno. All’interno della chiesa è riconoscibile un altro ritratto monocromo del commendatore, ubicato sulla sua tomba, dove San Giuseppe lo presenta al divin fanciullo sorretto dalla Vergine. L’epitaffio è incorniciato da due figure, presumibilmente le personificazioni del Silenzio e della Preghiera (o Pietà).

 

Sulla parete destra è visibile un affresco raffigurante quattro santi, databile verso la fine del Trecento; sul lato sinistro si riscontra una scena coeva, raffigurante una Madonna in Trono con San Giovanni Battista e un committente, il cui abito ricalca elegantemente il gusto di fine secolo e inizio Quattrocento. Si noti il goticismo bolognese della rappresentazione, che dimostra un incontro con la cultura pittorica emiliana.

 

Esterno

Esternamente è presente un portico costruito per l’accoglienza dei pellegrini e databile al XIV secolo, nel tempo era stato però chiusoi ed è solo durante i restauri del XX secolo che venne riportato al suo stato originario. L’abside, vista dall’esterno, mostra due modeste monofore e una bifora, murate durante i rifacimenti cinquecenteschi. Il complesso presenta inoltre uno splendido chiostro con una scritta in cotto, sempre voluta dal commendatario milanese, e un pozzo in mattoni e spungone, ossia una pietra calcarea riscontrabile solo nel territorio romagnolo.

 

Il museo rionale

La Commenda non è solo un luogo di culto, ma anche la sede del Rione Bianco, partecipante del Palio del Niballo, che si svolge nella città manfreda, presso lo stadio Bruno Neri, ogni quarta domenica di giugno. Alcuni spazi dell’antico complesso religioso sono stati adibiti a museo, dove si trovano in esposizione gli abiti storici dei figuranti rionali, i premi vinti dal rione, bandiere delle varie edizioni e tutti i gotti prodotti artigianalmente dai ceramisti di Faenza per uno dei passaggi più significativi del Palio: la Nott de Bisò. L’evento, svolto ogni 5 gennaio, segna la fine ufficiale di un ciclo e l’inizio del nuovo ed è caratterizzato dal falò del fantoccio e dalla degustazione del Bisò, ossia il tradizionale Vin Brulè a base di Sangiovese di Romagna. Una delle particolarità dei gotti del palio è la variabilità annuale e quindi la loro unicità. Tra i cimeli esposti è di interesse il mantello con l’elefante di Annibale, utilizzato per l’edizione del 1959.

 

 

 

 

Bibliografia

Ennio Golfieri, La chiesa e il chiostro de la Commenda in Borgo Durbecco a Faenza, Stabilimento Grafico Lega, 1934

 

Sitografia

https://www.paliodifaenza.it/2018/06/borgo-durbecco-museo-rionale/

https://www.treccani.it/enciclopedia/sabba-castiglione_%28Dizionario-Biografico%29/


IL COMPLESSO MONASTICO DI SAN PIETRO MARTIRE

A cura di Ornella Amato

 

 

*Un sentito ringraziamento all’associazione Respiriamo Arte per la preziosa collaborazione

 

Introduzione

In piazza Ruggero Bonghi, a ridosso del corso Umberto I di Napoli, strada nota come “rettifilo”, incastrato tra i palazzi cittadini e poco distante dall’Università degli Studi di Napoli, si trova il Complesso Monumentale di San Pietro Martire.

La struttura conta la chiesa ed il chiostro, dove all’interno è ubicata la facoltà di Lettere e Filosofia. In tempi recenti il complesso è stato oggetto di un imponente restauro che ne ha permesso la completa restituzione alla città. IL progetto di restauro è stato realizzato nell’ambito del “Grande Progetto” UNESCO per la riqualificazione del centro storico di Napoli[1]. La chiesa appartiene al FEC (Fondo Edifici Culto) del Ministero dei Beni culturali ed è affidata all’associazione Respiriamo Arte per le visite guidate e alla Comunità di Sant’Egidio per le attività espositive e di accoglienza.

 

Brevi cenni storici: il passaggio dalla dinastia sveva agli angioini.

Nel 1220 papa Onorio III incoronava imperatore Federico II di Svevia. Il 5 giugno 1224 l’imperatore svevo emanava l’editto istitutivo dell’Università degli Studi di Napoli, un’università laica che aveva come scopo la formazione di una classe dirigente che partecipasse al governo del regno. Nel 1250 Federico II moriva e gli succedeva il figlio Manfredi, che si proponeva come continuatore della politica del padre.

Intanto ad Onorio III era succeduto Innocenzo IV che, preoccupato dagli eventi che si stavano svolgendo nel meridione della penisola, decideva di chiedere aiuto a Carlo d’Angiò, promettendogli il regno di Sicilia se lo avesse liberato dagli svevi.

Lo scontro tra gli svevi e gli angioini avvenne a Benevento dove, nel 1266, Manfredi veniva sconfitto e ucciso. Il Papa – come promesso – incoronava Carlo I d’Angiò re di Napoli e della Sicilia.

Nel 1268, Corradino di Svevia, figlio di Manfredi ed ultimo discendente di Federico II, con un piccolo esercito tentava un ultimo assalto al regno: a Tagliacozzo, in provincia de L’Aquila, veniva catturato, portato a Napoli e, in città, decapitato pubblicamente. Carlo d’Angiò aveva conquistato definitivamente il regno svevo nell’Italia meridionale, inaugurando l’età angioina.

 

Il complesso di San Pietro Martire

La dedicazione

La chiesa non è dedicata a San Pietro l’apostolo del Cristo, per il quale diverse fonti ne attestano il suo passaggio in città, ma a San Pietro da Verona, martire domenicano, morto assassinato nel 1254 per mano di due sicari che lo avrebbero ucciso con un colpo di accetta alla testa ed una pugnalata al cuore. Da qui ne deriva anche l’iconografia stessa del santo, rappresentato con l’accetta incastrata in testa e il pugnale nel petto.

 

 

La Chiesa

Il 29 aprile 1294 per volere del re di Napoli Carlo I d’Angiò furono avviati i lavori della chiesa di San Pietro Martire e, per indicazione dello stesso sovrano, il complesso intero venne destinato ai domenicani, ordine non solo particolarmente caro alla dinastia francese, ma che si era distinto negli scontri tra Stato e Chiesa, ai tempi della dinastia sveva, favorendo il papato.

La sede della nuova chiesa fu realizzata su un'area non molto distante dal mare, direttamente sotto la regia giurisdizione angioina. La struttura ecclesiastica fu ultimata circa cinquant’anni dopo, nel 1347, ma ben presto furono necessari interventi di restauro a causa di incendi e terremoti che la colpirono. Ne derivò un complesso restaurato più volte, secondo i tempi e le correnti artistiche del momento.

Nel corso del primo decennio del XVII sec., un nuovo restauro interessò la chiesa e fu realizzato dall’architetto (e frate domenicano) Giuseppe Nuvolo che realizzò anche la cupola e il chiostro.

La struttura subì ingenti danni anche durante la Seconda guerra mondiale, in particolare il 1° marzo del 1943 fu coinvolta in un bombardamento aereo: le conseguenze dell’attacco si riscontrarono soprattutto all’interno e lungo la navata centrale.

 

Struttura interna attuale dello spazio celebrativo

Della struttura trecentesca della chiesa resta ben poco. L’interno è a croce latina, navata unica e quattordici cappelle, sette per ogni lato. A seguito dell’ultimo restauro è stato ripristinato il bianco, suo colore originale.

 

L’altare maggiore è realizzato con marmi policromi ed è databile all’età barocca, mentre nel retro risalta il coro ligneo settecentesco.

 

Nei transetti laterali ci sono le tele dedicate ai domenicani: a destra il Martirio di San Pietro da Verona di Girolamo Imparato e una parte marmorea del sepolcro di Antonio De Gennaro[2]; a sinistra San Domenico che dispensa i rosari di Bernardo Azzolino.

 

La testimonianza di tutti gli interventi che si sono avuti nel corso dei secoli si riscontra in quasi tutte le cappelle, dove risaltano non solo i blocchi di piperno originali, ma anche le opere che sono state realizzate nel corso del tempo, come il bassorilievo trecentesco e la tela della Morte e Assunzione della Vergine nella prima cappella a destra.

 

Molte cappelle conservano al loro interno opere e sepolcri di personaggi legati alla casa d’Aragona, che aveva conquistato il regno di Napoli e di Sicilia nel 1442 e che aveva particolarmente a cuore l’ordine domenicano.

La settima cappella a destra, infatti, ospita i sepolcri di Pietro d’Aragona e di Isabella da Chiaromonte[3], regina di Napoli e moglie di Ferrante I.

Molti sepolcri, anche a seguito dei bombardamenti del ‘43, sono stati smembrati e le opere scultoree che li componevano sono state esposte in più cappelle, come nel caso del monumento funebre ad Antonio De Gennaro [fig.da 9 a 14], del quale risalta in particolare il dettaglio con Partenope, rappresentata qui nella più antica iconografia della sirena quale donna-uccello [fig.13].

 

A sinistra della navata centrale, risalta la cappella dedicata a San Vincenzo Ferreri, nella quale si conserva una stampa del polittico[4] dedicato al santo realizzato dal Colantonio.

 

Del polittico, oltre al santo, risalta nella predella il riquadro raffigurante Isabella da Chiaromonte in preghiera nella cappella Palatina di Castelnuovo. Nei laterali sono inoltre presenti tre lapidi marmoree dedicate alla nobile famiglia napoletana dei Pagano

 

A sinistra, invece, la quinta cappella ospita La Visitazione e L’Annunciazione di Francesco Solimena.

Dalla sagrestia, che conserva la parte superiore del monumento funebre del De Gennaro, si accede al chiostro piccolo, dal quale si può ammirare la cupola maiolicata.

 

La facciata esterna

La facciata esterna, anch’essa più volte oggetto di rimaneggiamenti e restauri, si presenta in due ordini: quello inferiore col portale marmoreo seicentesco, inscritto tra due lesene composite, e quello dell’ordine superiore, nel quale risalta il finestrone centrale.

 

Il Monastero ed il Chiostro grande: la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università

Il monastero ed il chiostro del complesso monumentale di San Pietro Martire, sebbene parte del complesso, hanno avuto una vita estremamente separata da quella della chiesa, come se si trattasse di strutture separate, sebbene inglobate in un'unica fabbrica.

 

Si trovano nell’area destra a ridosso della chiesa, in via Porta di Massa, e ad oggi ospitano la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli.

I lavori per la realizzazione risalgono alla seconda metà del XVI sec. e la struttura si presenta oggi con una forma quadrangolare, in piperno, con sette archi per ciascun lato.

 

All’inizio era un luogo nel quale convergevano accademici, nobili e filosofi. Fu soppresso nel 1808 per volere di Giuseppe Bonaparte ed in seguito divenne una fabbrica di manifatture tabacchi che restò operativa fino al 1943. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale lo danneggiarono gravemente, tanto da rischiare la demolizione. Dall’interno del chiostro risalta la cupola maiolicata che completa la chiesa.

 

Per iniziativa del Rettore dell’Università, Giuseppe Tesauro, il 13 luglio 1961 l’ormai ex- convento entrava a far parte del patrimonio architettonico dell’Università e diventava la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia. Migliaia di studenti ancora oggi attraversano quei corridoi, sfogliano libri e testi all’interno del chiostro “di Porta di Massa”- come molti ancora convenzionalmente lo chiamano - e frequentano una facoltà all’interno di un complesso, quello di San Pietro Martire, che racconta secoli della storia partenopea.

 

 

 

Dove non espressamente indicato in didascalia, le immagini fotografiche sono state realizzate dall’autrice, previa autorizzazione dell’Associazione Respiriamo Arte.

 

 

 

 

Note

[1] L’intero Centro Storico di Napoli è patrimonio Unesco.

[2] Personalità di spicco, vicino alla casa d’Aragona

[3] Le arche contenenti i resti mortali del casato d’Aragona si trovano all’interno della Sagrestia della Chiesa di San Domenico Maggiore, considerato il ‘Pantheon’ del casato spagnolo.

[4] Il polittico è conservato al Museo di Capodimonte

 

 

 

Bibliografia

Chitarrini, V. Porta A., Tancredi S., I nodi del Tempo – versione plus –, Vol. I, pp. 285-292, Ed. Lattes 2015

 

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/papa-innocenzo-iv_%28Dizionario-Biografico%29/  consultato il 13 maggio 2022

https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-i-d-angio-re-di-sicilia_%28Dizionario-Biografico%29/ consultato il 13 maggio 2022

www.respiriamoarte.it consultato il 14 maggio 2022

https://www.respiriamoarte.it/luoghi/san-pietro-martire/

www.unina.it consultato il 14 maggio 2022

www.unina.it/chi-siamo/convento-sanpietro-martire consultato il 16 maggio 2022

http://www.unina.it/chi-siamo/cenni-storici consultato il 16 maggio 2022

https://sabap.na.it/terminato-il-restauro-della-facciata-della-chiesa-di-san-pietro-martire/ consultato il 16 maggio 2022

https://www.interno.gov.it/it/notizie/restaurata-napoli-chiesa-fec-san-pietro-martire  consultato il 17 maggio 2022


SAN VIGILIO E L’URNA PROCESSIONALE DEL SANTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

Questo nuovo contributo è dedicato al patrono di Trento, San Vigilio, che è stato vescovo della città dal IV-V secolo e che ogni anno viene festeggiato il 26 giugno, giorno della sua morte. In occasione della sua commemorazione è portata in processione la celebre urna processionale delle reliquie del Santo, di cui sono note le peculiarità e vicende storiche.

 

Premessa

Le vicende storiche della vita di San Vigilio risalgono a più di milleseicento anni fa, a quando la cultura scritta non era ancora diffusa e le testimonianze orali faticavano a conservare intatti i fatti storici. In particolare, le testimonianze giunte fino a noi sulla vita di Vigilio sono scarse e al limite della leggenda: due lettere di Vigilio inviate ai vescovi Simpliciano e Giovanni Crisostomo ritenute autentiche e contemporanee ai fatti, ma di difficile lettura, e la Passio Sancti Vigilii che presenta invece qualche problema critico. La Passio è una breve biografia di Vigilio che dedica particolare attenzione alla sua morte e al suo martirio, da qui il titolo di Passio (Passione). Il testo è stato scritto in epoca longobarda, tra il VI secolo e VIII secolo, a quasi due secoli dalle vicende intercorse, non è di tipo storico, ma agiografico, cioè descrive la santità e la devozione del personaggio. Dettagli questi da tenere in considerazione nel resoconto della vita del Santo che intreccia le informazioni storiche delle lettere a quelle agiografiche della Passio[1].

 

La vita di San Vigilio

Vigilio è stato vescovo della chiesa di Trento tra il IV e il V secolo; il suo episcopato è durato circa 12 anni ed iniziò tra il 388 e il 393 per poi concludersi tra il 400 o il 405, in corrispondenza della data presunta di morte. È soprattutto attraverso la Passio che conosciamo le origini del Santo, nella quale è identificato come cittadino di Trento e di stirpe romana, figlio di Santa Massenza[2], di origini romane e fratello di Claudiano e Magoriano; ebbe una formazione umanistica a Roma e forse anche ad Atene, comunque in un ambiente legato alla tradizione classica mediterranea[3].

La decisione di passare alla carriera religiosa deve essere avvenuta molto presto, in quanto il Santo, come riferisce la Passio, dimostrò grande precocità di santità, una forte dimensione caritativa e assistenziale, virtù taumaturgiche e un grande interesse per la parola e la divulgazione del Vangelo. Fu così che venne eletto vescovo a soli vent’anni dal popolo cristiano e venne consacrato dal vescovo di Aquileia nella chiesa fuori le mura della città di Trento[4].

Negli anni del suo episcopato mostrò un forte slancio missionario, evangelizzando la terra trentina, ma anche i territori adiacenti delle diocesi di Verona e Brescia. Qui egli portò la parola del Vangelo e convertì la popolazione alla fede cristiana, fondando più di trenta chiese nelle diocesi di Brescia e Verona[5]. L’evangelizzazione del Trentino pare sia avvenuta in tempi rapidi e costanti, nell’arco dei dodici anni del suo episcopato, ma in realtà deve essere avvenuta molto più lentamente e con molte più difficoltà. Tra il IV e il V secolo la popolazione delle valli trentine era ancora legata agli idoli pagani e quindi i risultati furono molto lenti e problematici, come è stato per la missione cristiana della Valle di Non. La missione nella valle avvenne per opera di tre collaboratori di Vigilio provenienti dalla Cappadocia, Sisinio, Martirio e Alessandro: la loro missione ebbe un epilogo drammatico perché vennero uccisi la mattina del 29 maggio del 397 dai contadini della zona su un rogo allestito con le travi della chiesetta costruita dai tre martiri. Il martirio dei tre missionari è comprovato dai dati storici, grazie alle lettere inviate da Vigilio al vescovo di Milano, Ambrogio, tra IV e V secolo[6].

 

Come anticipato, il testo agiografico del Santo vuole soprattutto dimostrare il martirio, la santità, la data della morte e la sepoltura di Vigilio. Il testo racconta che dopo il martirio dei tre cappadoci, Vigilio sentì ancora di più lo slancio missionario, decidendo di portare la sua opera evangelizzatrice in un’altra zona del Trentino, la val Rendena. La leggenda racconta che Vigilio si recò nella valle per predicare la parola del Signore e distruggere una statua di bronzo dedicata al dio Saturno che un ricco signore aveva posto su un suo podere. Alla notizia dell’accaduto, una folla di contadini corse contro di lui con spade e pietre che scagliò contro Vigilio portandolo alla morte. I diaconi del santo che sopravvissero raccolsero il suo corpo, lo misero su un cavallo e lo portarono in città. Nel terzo giorno dopo il martirio, una volta giunto in città, il suo corpo fu portato nella basilica che Vigilio aveva edificato presso la Porta Veronese, fuori città, e qui fu seppellito con i Santi della Cappadocia. Ad oggi vi sono molti dubbi sulla validità storica dell’accaduto, prima di tutto perché non compaiono testimonianze scritte contemporanee all’evento e, grazie agli studi effettuati da monsignor Iginio Rogger (studioso della storia del cristianesimo in Trentino), si ritiene che la morte di Vigilio sia avvenuta per motivi naturali tra il 400 o il 405 d.C. e il 26 giugno, giorno che coincide con la festa patronale di Trento. Una data che viene data per certa, in quanto pervenuta dalle fonti liturgiche e dall’uso comune; infatti, già in epoca altomedievale il 26 giungo era festa di San Vigilio[7].

La storia del Santo patrono di Trento è stata tramandata nei secoli e ha ispirato la comunità cristiana trentina e il mondo dell’arte nelle rappresentazioni di Vigilio, i cui attributi iconografici sono il sasso, gli zoccoli dei contadini, l’idolo distrutto, il Duomo di Trento, la palma del martirio, gli abiti vescovili, il libro - perché ha commentato e diffuso la Parola del Signore - e l’immagine di un giovane santo in atto benedicente (glabro o con una barba piuttosto corta), in quanto fu fatto vescovo a soli vent’anni.

 

L’urna processionale delle reliquie di Vigilio

Nel giorno della commemorazione di San Vigilio è protagonista l’urna processionale del Santo che ogni anno viene portata in processione lungo le strade del centro storico della città. Si tratta di un oggetto estremamente prezioso del Tesoro del Duomo di Trento, conservato ed esposto al pubblico presso il Museo Diocesano Tridentino.

La grande urna processionale è un fine lavoro di oreficeria del XVII secolo (1632): si tratta di un classico reliquiario a cassa in argento fuso, sbalzato, inciso, punzonato, cesellato e in parte dorato con una profusione di smalti e pietre preziose - perle, zaffiri, ametiste, quarzi, topazi e altre pietre semipreziose -.

La cassa è stata progettata per l’esposizione al pubblico delle reliquie del Santo nel giorno della sua festa, mentre la decorazione è stata pensata in funzione del suo ruolo, ovvero sull’idea che le forze taumaturgiche dei resti del Santo debbano trasmettersi all’involucro e poi ai fedeli. Oltre a ciò, la scelta di utilizzare pietre e metalli preziosi è simbolo per i fedeli della potenza divina che è trasmessa attraverso la preziosa urna[8].

 

L’urna di San Vigilio è composta da una grande cassa sostenuta da quattro piedi che ricordano le zampe d’anatra, con le pareti bombate e i lati sottolineati da festoni dorati di frutti e foglie. Nella fascia che corre sotto il coperchio si trovano due aperture chiuse da cristalli in vetro e gli scudi dorati con l’aquila della città di Trento in smalto nero. L’urna è chiusa da una copertura a modanature digradanti ed è decorata da quattro teste d’angelo alate, inoltre è sormontata da una monumentale mitra argentea. Quest’ultimo elemento decorativo è stato inserito nel XVIII secolo e presenta le forme della classica mitra indossata in occasione delle messe pontificali con le fasce che terminano con sette nappe e le estremità della mitra che culminano con grandi zaffiri. In occasione degli ultimi restauri effettuati sull’urna, una scoperta eccezionale ha cambiato la storia dell’oggetto: è emerso che la pietra inserita all’interno della ghirlanda di fiori, nella fronte principale della cassa, non è altro che un anello incastonato. L’anello porta le iniziali di papa Pio IV e lo stemma del suo casato, i Medici, risale al 1566-1572, è in oro fuso sbalzato, inciso, cesellato e reca al centro una pietra azzurra, la copia sintetica di uno zaffiro, che il papa utilizzava come oggetto ad uso personale[9].

Meritevoli di particolare attenzione sono le iscrizioni e le decorazioni della cassa. La decorazione a sbalzo è del XVII secolo ed emerge dal fondo opacizzato per mezzo di punzonature: sui lati maggiori è inciso un intreccio di volute, su cui si inseriscono delle grandi teste d’angelo sotto baldacchini, invece, sulle spalle della cassa, vi sono dei grandi medaglioni ovali lisci con le palme decussate del martirio e il monogramma di Cristo. Sulla fronte della cassa un’iscrizione a caratteri latini, dedicata a San Vigilio, ricorda il voto della città per essere stata risparmiata dalla peste del 1630[10].

La cassa venne probabilmente commissionata in seguito al voto della città e doveva essere terminata entro il settembre del 1632, ma fu presentata al pubblico solo il primo gennaio 1633, al suono delle campane di piazza. Fu realizzata dall’orafo Oswald Tischmacher[11] che incise l’urna con le proprie iniziali e si ispirò alla cultura figurativa degli orafi tedeschi, com’è dimostrato dal fatto che l’urna è priva di scene iconografiche relative al santo, una caratteristica propria dell’area culturale tedesco-meridionale. Gli interventi sulla cassa non si conclusero qui, anzi: nella seconda metà del XVIII secolo (1760-1770 ca.) venne commissionato, dal Capitolo del duomo di Trento, il più abile orafo di Trento, Giuseppe Ignazio Pruchmayer, di origini tirolesi, per rinnovare l’urna al gusto rococò dell’epoca con l’aggiunta delle decorazioni dorate, la grande mitra d’argento e l’anello di papa Pio IV[12].

 

 

 

 

 

Note

[1] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, pp. 28-31.

[2] Santa Massenza fu una martire della chiesa cristiana trentina, le cui spoglie furono conservate prima presso il Lago di Toblino e poi, nel 1145, trasferite nella Cattedrale di San Vigilio a Trento.

[3] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, pp. 32-34

[4] In realtà il metropolita che riconobbe e confermò Vigilio come vescovo di Trento fu Ambrogio della diocesi di Milano, al cui ambito apparteneva la chiesa di Trento nel IV secolo. Il consiglio del vescovo di Milano a Vigilio fu quello di svolgere un’ordinaria attività di governo; invece, Vigilio diede avvio ad un’importante e difficoltosa campagna missionaria della regione e non solo (S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, p. 37).

[5] S. Vareschi, S. Vigilio e l’evangelizzazione del Trentino, p. 38.

[6] Ivi, pp. 43-45

[7] Ivi, pp. 46-55.

[8] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 181

[9] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 29, Anello di Papa Pio IV, p. 148

[10] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 182.

[11] L’orafo Oswald Tischmacher sappiamo che era attivo a Bolzano, ma era originario di Innsbruck e che si trasferì a Trento dopo la commissione dell’urna di San Vigilio nel 1642 circa (D. Floris, Scheda 9, Urna processionale di San Vigilio, p. 198).

[12] W. Koeppe, M. Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, p. 182.

 

 

 

 

Bibliografia

Armando Costa, San Vigilio, vescovo e patrono di Trento, Trento, Artigianelli, 1975

Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991

Wolfram Koeppe, Michelangelo Lupo, Scheda 39, Urna processionale di S. Vigilio, in Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991, pp. 178-183

Wolfram Koeppe, Michelangelo Lupo, Scheda 29, Anello di Papa Pio IV, in Enrico Castelnuovo (a cura di), Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, Trento, Temi, 1991, pp. 148-149

Domenica Primerano (a cura di), L'immagine di San Vigilio, tra storia e leggenda, Trento, Temi, 2000

Daniela Floris, Scheda 9, Urna processionale di San Vigilio, in Domenica Primerano (a cura di), L'immagine di San Vigilio, tra storia e leggenda, Trento, Temi, 2000, pp. 198-199

Severino Vareschi, S. Vigilio e l'evangelizzazione del Trentino, Trento, Bertelli, 2001


LA CHIESA DI SAN FEDELE A MILANO IN UN DIALOGO TRA ARTE DEL PASSATO E DEL PRESENTE

A cura di Beatrice Forlini

 

 

San Fedele a Milano  

La chiesa di San Fedele è situata in una bellissima e tranquilla piazza (fig. 1) a pochi passi dal Duomo di Milano e da Palazzo Marino. Non lontano troviamo anche diversi altri importanti edifici esemplari delle grandi novità architettoniche della Milano di fine Cinquecento.
Questa piazza è anche celebre per la presenza della statua bronzea dedicata ad Alessandro Manzoni, opera di Francesco Barzaghi (1839-1892), eretta nel 1883; proprio qui, infatti, era solito recarsi il grande scrittore per la messa, e purtroppo nel gennaio 1873 sui gradini della chiesa cadde, ormai anziano, battendo la testa. Il colpo fu fatale per lo scrittore, che non si riprese e morì pochi mesi più tardi all’età di 88 anni.

 

La storia di questa chiesa iniziò proprio nella seconda metà del Cinquecento, quando per volere dei gesuiti e dell’arcivescovo Carlo Borromeo, venne affidata la prestigiosa commissione all’architetto e pittore lombardo Pellegrino Tibaldi (1527-1596), che a partire dal 1569 concepì un monumentale edificio a navata unica, ricco di soluzioni nuove (fig. 2-4). Egli, infatti, dopo lunghi anni passati a Roma per studio e lavoro, divenne l'architetto prediletto di Carlo Borromeo e venne nominato anche Architetto della Veneranda Fabbrica del Duomo, oltre ad essere impegnato in alcuni dei più importanti cantieri, civili e religiosi, della città meneghina.

 

La chiesa fu consacrata nel 1579, dieci anni dopo l’inizio dei lavori, ma la sua costruzione proseguì per più di un secolo dopo che Pellegrino Tibaldì lasciò il cantiere nel 1586 e partì per la Spagna; i suoi successori però non si scostarono mai troppo dai disegni originali e il cantiere passò prima sotto la direzione di Martino Bassi,  poi di Francesco Maria Richini nel 1629 che cominciò i lavori del coro, e ancora ad Antonio Biffi nel 1684 che iniziò ad erigere la cupola, ed infine a Pietro Pestagalli che nell’Ottocento terminò la facciata e realizzò l’altare maggiore. Il volto di S. Fedele, rimane però di impronta Cinquecentesca e Controriformista (fig. 3) nonostante gli interventi si siano protratti per così tanti anni; fa eccezione soltanto il pesante coronamento della facciata che risale infatti a metà Ottocento.
Dopo la soppressione dell’ordine dei gesuiti nel 1814 la Chiesa passò sotto il controllo della vicina chiesa di Santa Maria della Scala, successivamente abbattuta per far posto al Teatro alla Scala. Dopo la Seconda guerra mondiale San Fedele tornò invece ai gesuiti che avviarono una serie di attività sia sociali sia culturali e artistiche, dando vita alla Fondazione Culturale San Fedele.

 

La storia di questa Chiesa benché piena di memorie antiche non si ferma allo spirito Cinquecentesco, infatti, qui oggi convivono in stretto dialogo con le decorazioni, le strutture architettoniche e i dipinti, alcune opere di arte contemporanea di noti artisti; è infatti presente un piccolo itinerario museale all’interno della Chiesa (inaugurato il 31 dicembre 2014 dopo alcuni restauri) a cura di Andrea Dall’Asta SJ, direttore della Galleria San Fedele e dell’architetto Mario Broggi.

Questo progetto è legato alla storia della Galleria San Fedele, fondata negli anni Cinquanta dalla omonima Fondazione dei gesuiti. Il fondatore, Padre Arcangelo Favaro, si propose come interlocutore del dialogo tra arte e fede,  trasformando così la Chiesa di San Fedele in un vero e proprio laboratorio sperimentale ed espressivo in cui hanno collaborato artisti del calibro di Carlo Carrà, Lucio Fontana(fig. 6) e Mario Sironi; dimostrando così che la cosiddetta: «arte “sacra” non era morta ma necessita solo di una “conversione” di linguaggio, che non poteva essere separato da un messaggio, reinterpretato però secondo i linguaggi del tempo odierno».[1] E ancora artisti come David Simpson, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Sean Shanahan, Claudio Parmiggiani e Nicola De Maria sono stati interpellati negli anni più recenti per riflettere su temi fondamentali della fede con opere site specific pensate appositamente per gli spazi della chiesa.

 

Tutte queste opere sono esposte in alcuni punti strategici della chiesa, in un itinerario molto interessante che comprende anche le cosiddette “stanze di contemplazione” ovvero la cripta e il sacello, ma anche la sacrestia e la cappella delle ballerine (fig. 8) così chiamata perché fino agli anni Ottanta le danzatrici del vicino teatro alla Scala la sera prima del debutto erano solite portare dei fiori sull’altare della Madonna del latte, un affresco del XIV secolo.

 

Tra le opere esposte, nella prima cappella sulla sinistra, troviamo la grande pala della Deposizione di Cristo di Simone Peterzano (1533-1599) (fig. 5), che sarebbe diventato maestro del giovane Caravaggio alcuni anni più tardi, il dipinto è caratterizzato da una luce vibrante che definisce ogni figura, da un naturalismo rinascimentale ancora percepibile nello sfondo ma soprattutto da un manierismo coloristico pienamente cinquecentesco. La prima cappella che si incontra sulla destra presenta invece un altare dedicato ad Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dell’ordine dei gesuiti, raffigurato nella pala realizzata da Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano (1573-1632) tra i principali artisti del capoluogo lombardo del XVI secolo; la pittura del Cerano si distingue per un carattere intensamente espressivo e uno stile tardo manierista e mistico che rendono la composizione densa di colore e fortemente chiaroscurale come ben si percepisce in questa tela.

 

Un'altra menzione spetta alla realizzazione di altre due opere più tarde, raffiguranti dei momenti fondamentali per la storia della chiesa, a testimonianza degli stretti legami tra San Carlo e la Compagnia di Gesù, ovvero: La posa della prima pietraLa traslazione delle reliquie (fig. 7) destinate ai lati del presbiterio, commissionati nell’ultimo trentennio del Seicento ad Agostino Santagostino (1635-1706) insieme al fratello Giacinto.

 

Infine, è giusto menzionare la sacrestia lignea di San Fedele, intagliata in legno di noce nel XVII secolo dai fratelli Taurino. Si tratta infatti di uno degli esempi più pregevoli di intaglio ligneo presenti a Milano con sculture realizzate in circa trent’anni di lavoro e che mantengono inalterata la loro grandiosa e lucida robustezza.

 

 

 

 

Note

[1] Sito museo San Fedele, Sezione Sede: https://www.sanfedeleartefede.it/sede/

 

 

 

 

Sitografia

Scheda SIRbeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00026/

Sito museo San Fedele: https://www.sanfedeleartefede.it


LA CHIESA DELLA SS. ANNUNCIATA A PIANCOGNO

A cura di Francesca Richini

 

 La chiesa della Ss. Annunciata a Piancogno 

In Valcamonica in provincia di Brescia, nel comune di Piancogno, è possibile visitare una chiesa francescana dedicata alla Vergine Annunciata con opere del pittore Pietro da Cemmo. La costruzione religiosa è circondata a nord-est dai monti S. Fermo, Concarena e Pizzo Camino, ad ovest dal monte Pizzo Camino e dal Passo Croce Domini e, posizionata a 752 m sul livello del mare, ha una panoramica su tutta la media valle.

La Chiesa, fondata da Amedeo Mendes da Silva, deve la sua posizione a due terziari francescani: Orlando da Borno e Giovanni Bernardi, autorizzati nel 1465 da una Bolla del pontefice Paolo II a costruire una casa presso un dormitorio preesistente. La tradizione vuole che questi due frati avessero scritto al Beato Amedeo pregandolo di recarsi sul colle di San Cosma per fondare il convento. Esiste una Bolla del 1469 di papa Paolo II nella quale egli chiede ai due frati di cedere il terreno in favore del Mendes: “per abitazione sua e dei suoi compagni, e presso di questa poter costruire la chiesa con cimitero, i chiostri con umile campanella…”. Ma esiste altresì un documento che vede la presenza del Beato presso il convento di San Pietro a Bienno.

 

La chiesa al tempo si trovava nel territorio della Serenissima e, inizialmente, la costruzione di tale complesso non fu vista di buon occhio dalla Repubblica Veneta tanto che Amedeo, venendo dalla rivale Milano, venne accusato di essere un “explorator Mediolanensium” e dovette subire un processo che gli valse l’innocenza e lo autorizzò alla costruzione di conventi in tutto il territorio veneto.

 

Il complesso, sorto presso la precedente chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, non ebbe un unico progetto né venne costruito contemporaneamente, come testimonia un capitello datato 1483 nel cortile maggiore. Abitato fino al 1601 dai frati Osservanti Amadeisti, passò ai frati Minori Riformati che vi rimasero fino al 1808, soppresso da Napoleone. Fu poi riaperto nell’anno 1842 e venne affidato ai frati Cappuccini.

 

Esterno della chiesa della Ss. Annunciata a Piancogno

Scendendo la scalinata ricostruita recentemente, al termine si trova un piccolo santuario dedicato alla Madonna di Lourdes, qui in precedenza si trovava il cimitero, ora spostato, dove riposano i due frati: Orlando da Borno e Giovanni Bernardi. Opposto al piccolo santuario si trova una porta che conduce in uno dei due cortili. La chiesa dotata di entrata laterale, a causa della sua posizione a ridosso della montagna, ha un portico, ricostruito nel XV secolo. Al centro vi è l’entrata in arenaria rossa e con porta in legno massiccio e al di sopra dell’ingresso nel sottarco si ha un affresco eseguito da fra’ Damaso Bianchi nel 1952 con la raffigurazione dell’annunciazione da parte dell’arcangelo Gabriele alla Madonna.

 

 

Interno della chiesa

Entrati nella chiesa si ha una navata lunga 22 metri e larga 8 suddivisa in tre campate. Di fronte all’entrata, nella parete posta a nord, si trovano tre cappelle, chiuse con cancelli in ferro battuto.

Inoltre compare, nella sua maestosità, la parete divisoria fra la navata e il coro. Quest’ultima totalmente affrescata e dotata di tre archi raffigura i Profeti in alto e sui pennacchi del portico ed è suddivisa in 33 riquadri, di cui il centrale con la crocifissione di Cristo che spicca in grandezza.

L’affresco rappresenta alcuni eventi della vita di Gesù, riprodotti con un ordine non chiaro e dall’interpretazione controversa, partendo dall’alto si dovrebbero trovare: un Profeta, l’Annunciazione di Maria (mal conservata, in quanto una parte è andata perduta), un altro Profeta, la Visitazione di Maria ad Elisabetta, la Natività, la Circoncisione, l’Adorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti, il Battesimo o Gesù che parla ai dottori, le nozze di Cana, la Crocifissione, l’entrata in Gerusalemme, la cacciata dei mercanti dal Tempio, il battesimo di Giovanni il Battista, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Ultima Cena, la Lavanda dei Piedi, Gesù nell’Orto degli Ulivi, la Cattura di Gesù, Gesù al tribunale di Anna, Caifa si strappa le vesti, la Flagellazione, Gesù al tribunale di Pilato o Gesù al tribunale di Erode (o viceversa), Ecce Homo. Al di sotto dei riquadri nei pennacchi si collocano a sinistra la Carità, che con una mano sostiene la Storia di Gesù, e a destra la Pietà corrispettivamente indicate dai nomi scritti sopra; al centro, sempre nei pennacchi, i Profeti Geremia a sinistra e Isaia a destra accompagnati da lunghi cartigli. Al termine del cartiglio di Isaia si trova la data 1479.

 

L’autore dell’affresco non è certo, alcuni storici sostengono sia stato eseguito dalla scuola di Pietro da Cemmo o dal pittore in persona, altri da un pittore di cultura ferrarese. Nonostante la grande discussione, sembra essere fortemente accreditata l’opinione di Pietro da Cemmo come autore che firma, invece, gli affreschi del coro.

 

Sotto il portico al centro, invece, si ha l’apertura che conduce al coro. Sul lato a sinistra, verso nord, sono rappresentati i quattro protomartiri santi francescani, i quali sono raffigurati dentro dei medaglioni nella volta: san Francesco, sant’Antonio da Padova, san Bonaventura e san Ludovico Vescovo. Sulla parete di fondo si trova l’Assunzione in cielo della Madonna attorniata da angeli e dai quattro Evangelisti. Mentre di fianco alla finestra è stato dipinto il Beato Amedeo raffigurato con in mano l’Apocalypsis Nova accompagnato da due scritte: “Aperietur in tempore” e il suo detto: “Teneo fidem rietur in Jesum Christum

 

Nella volta in mezzo sono presenti i quattro Patriarchi: Abramo, Giacobbe, Melchisedek e Mosè; mentre nella volta a destra si collocano i quattro Evangelisti entro medaglioni. Invece nella lunetta sulla parete di fondo è presente la Crocifissione con la Madonna, san Giovanni Evangelista, sant’Antonio da Padova e san Francesco, mentre sulla parete sud si ha l’episodio di san Francesco che riceve le stimmate. Il coro, interamente affrescato da Pietro da Cemmo, è datato 1475 e firmato dall’autore. Quest’opera rappresenta l’unica opera firmata e datata dall’autore, utile, quindi, alla ricostruzione della carriera pittorica dell’artista.

 

Nel sottarco sono raffigurati san Luigi IX di Francia, santa Chiara, san Ludovico, sant’Antonio da Padova, san Francesco, san Bernardino da Siena ed altri santi non ancora identificati. Al centro della volta vi è il Padre Eterno e da sotto la sua figura dipartono cerchi concentrici raffiguranti schiere di ordini angelici, mentre nello spicchio centrale si ha la Madonna dell’Umiltà che copre con il suo manto i frati in preghiera del primo, secondo e terzo ordine. Il lato nord del coro invece è incentrato su Maria, si trovano la Natività della Vergine nella lunetta e nel riquadro sottostante lo Sposalizio, qui nell’ architrave è dipinta la scritta: “HOC PETRVS PINXIT OPVS DE CEMO JOHANNES 1475”. Nelle due lunette sono presenti l’Annunciazione con a sinistra l’Arcangelo Gabriele e a destra la Madonna in preghiera. Sulla parete sud è rappresentata la Presentazione di Maria al tempio che sull’architrave reca la scritta “A E H S X C V D   F  1475 PETRVS AD HBIF. S PKENX”, mentre al di sotto è raffigurata l’Assunzione della Vergine.

 

Amadeo Mendes da Silva

Il Beato Amadeo è stato l’iniziatore della Congregazione amadeita, scrittore dell’Apocalypsis Nova e fondatore di edifici religiosi nel ducato di Milano e nella Repubblica di Venezia, rispettivamente: la Chiesa di Santa Maria della Pace a Milano nel 1466, la Chiesa di S. Maria Bressanoro a Castelleone nel 1460, il Convento della Santissima Annunciata a Borno nel 1469 e Santa Maria delle Grazie a Quinzano nel 1468.

Amadeo Mendes nacque nel Nordafrica forse a Ceuta nel 1420 circa, di lui non si hanno notizie certe né della famiglia di provenienza né di ciò che fece sino al 1452, anno nel quale ottenne la licenza di passare all’Ordine dei francescani minori e di recarsi in Italia ad Assisi. Arrivò a Milano nel convento di S. Francesco ed in breve la sua fama di guaritore e visionario giunse fino al duca Francesco Sforza e alla moglie Bianca Maria Visconti, di cui diventò sia il confessore privato sia la persona fidata per risolvere missioni delicate. Proprio grazie alla protezione di Bianca Maria ottenne la possibilità di fondare i conventi prima elencati.

Il frate, noto come “frater Amedeus Hispanus”, animato da una volontà di riforma fondò, oltre ai conventi, una nuova “organizzazione”. Atto che venne malvisto dall’Ordine dei francescani minori e che fece nascere diverse tensioni: tanto da coinvolgere il papa. Nonostante la mancanza di appoggio degli Osservanti il frate riuscì ad ottenere nel 1471 la protezione del papa Sisto IV, Francesco della Rovere, utile affinché la Congregazione, appena fondata, avesse la possibilità di allargarsi. Amadeo Mendes morì in seguito ad un malore mentre stava andando a Roma il 10 agosto 1482, nel convento milanese di S. Maria della Pace.

 

Un Beato all’Annunciata

Persona di rilievo per il Convento, è stato il Beato Innocenzo da Berzo. Nato nel 1844 a Niardo in Valcamonica da subito dimostrò un’inclinazione alla vita religiosa. Entrò nel seminario di Brescia dove venne ordinato sacerdote. Divenne vicerettore del seminario, si dedicò al ministero delle confessioni presso Berzo, per poi approdare alla vita claustrale presso il convento dell’Annunciata, qui analizzato. Morì nel 1890 per malattia nell’infermeria di Bergamo, dove era stato trasferito. Venne beatificato da papa Giovanni XXIII nel 1961.

 

 

Beato Innocenzo da Berzo è solitamente illustrato con il saio francescano, con il capo inclinato e la schiena leggermente ricurva e le mani unite. Inoltre, è solitamente affiancato dall’Ostensorio del Santissimo Sacramento a cui era devoto. Tuttora se ci si reca in visita al Convento dell’Annunciata è possibile visitare la cella del Beato al piano superiore, dove si possono trovare appese alla parete di entrata le immagini di una grazia ricevuta.

 

Bibliografia

Bertolini A., Panazza G., Arte in Val Camonica: Monumenti e operePiancogno, V. I, Grafo Edizioni, Brescia, 1980, pp. 52-77.

Serafico Lorenzi, L’annunciata, Litonova, Gorle (BG), 1997.

 

Sitografia

https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1r050-00086/

https://www.treccani.it/enciclopedia/menes-silva-amadeo-de_%28Dizionario-Biografico%29/