LA SCALA REGIA A PALAZZO FARNESE

A cura di Andrea Bardi

 

 

L’ultimo approfondimento all’interno della serie relativa agli ambienti della villa di Alessandro Farnese a Caprarola è dedicato alla monumentale Scala (detta Regia, per l’appunto) che funge da raccordo tra gli ambienti interrati del palazzo e il portico circolare sul Piano Nobile.

Storia

“vidi poi la bella scala, ampia e magna, parimente in quel luogo, e di quella forma necessaria per mostrar il disegno e l’arte, e come si possono girar le pietre con gratia e soavità; facendo così vedere quanto habbia bisogno l’architetto degli studi d’Euclide”[1]

Con queste parole Bartolomeo Ammannati, invitato a palazzo dal cardinal Alessandro nel 1576, esprime tutta la sua ammirazione per la lumaca del Vignola, all’epoca priva – anche se ancora per poco – del ricchissimo e a tratti misterioso apparato di pitture a fresco, datato agli anni 1580 – 1583 e visibile ancora oggi. La vicenda della scala, è bene ribadirlo, non fu sin da subito intimamente legata al Vignola. Il cardinal Farnese aveva infatti avviato i contatti con Francesco Paciotto, architetto di famiglia di stanza a Parma e Piacenza. Il progetto di Paciotto, che prevedeva la realizzazione di ben due scale a chiocciola, una per ogni angolo in facciata, venne fortemente contestato dal Vignola, il cui giudizio secco (“una scala maestra sia abastantia”[2]) coinvolgeva anche una terza chiocciola, che nei piani del Paciotto avrebbe trovato spazio nel torrione angolare e che venne anch’essa bollata come superchia. Una volta prese le redini del progetto dello scalone, Barozzi decise di abbandonare il progetto originario. In primo luogo, egli volle modificare l’accesso allo scalone, che nei piani originari era “un andito streto”, ampliandolo fino a dargli le dimensioni di una “gran stantia, che serve per la guardia del padrone”[3] (l’attuale Sala delle Guardie) e affiancando a questo ambiente un’armeria. Proprio dal piccolo vano dell’armeria, oggi punto di biglietteria, doveva partire la seconda scala del Paciotto (abbandonata definitivamente dal Barozzi) per arrivare al Piano Nobile in corrispondenza della cappella privata del cardinale.

La fortuna del modello: la scala elicoidale

Come notato correttamente da Paolo Portoghesi[4], il modello a cui Vignola può aver fatto riferimento è la lumaca che Donato Bramante ideò, a partire dal 1507 fino alla sua morte (1514), per il Belvedere Vaticano [Fig. 1].

Fig. 1 – La scala a chiocciola di Donato Bramante. Credits: By J.M.P.R - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=95671730.

La risonanza del modello bramantesco si fece sentire specialmente nel secondo Cinquecento romano (la scala di Ottaviano Mascherino al Quirinale per Gregorio XIII, fig. 2) sancendo poi, nel Seicento, la sua definitiva fortuna nello scalone Barberini di Francesco Borromini (fig. 3).

Descrizione

Lo Scalone

Accessibile dall’ingresso in corrispondenza della Sala delle Guardie, sull’angolo nord-est del palazzo, la Scala Regia [Fig. 4] – il cui percorso si snoda in realtà già dagli ambienti sotterranei – trova collocazione in un ambiente dal diametro di circa dieci metri (“quaranta palmi”[5]) e sviluppando il suo percorso su“tre giri”[6] arriva a “metere capo ne la logia del cortile”[7]. Il percorso a spirale dello scalone, realizzato mediante l’impiego del peperino locale, è reso possibile, staticamente, dalla presenza di trenta colonne binate, a capitelli dorici e ionici in alternanza, che poggiano su un fregio decorato con metope a gigli farnesiani e alle quali corrispondono, sulle pareti, lesene che spezzano la continuità figurativa delle pitture murali.

Fig. 4 – Lo scalone.

Gli affreschi

Perfettamente inscrivibile all’interno della temperie tardomanierista, la scala, così come tutti gli ambienti pubblici del palazzo, è decorata nella sua totalità da un ricchissimo apparato di affreschi di carattere prevalentemente allegorico - emblematico, completato da pochi inserti paesistici in riquadri parietali e avvolto da un fantasioso manto di grottesche, all’interno del quale sono tra l’altro visibili due date, 1580 e 1583, che segnano verosimilmente gli estremi cronologici del cantiere pittorico della scala.

Le pareti

Inseriti in cornici a trama geometrica, i riquadri paesaggistici [Figg. 5-7] che accompagnano il visitatore nel percorso dello scalone vengono tradizionalmente attribuiti al pittore Antonio Tempesta[8] (una voce contraria è quella di Gerard Labrot, che ne Le palais Farnese de Caprarola, del 1970, ha proposto il nome di Paul Bril). Giovanni Baglione, nelle Vite, racconta di come il pittore avesse anche dipinto “per il cardinale Alessandro Farnese in Caprarola i pilastretti della lumaca”[9] (le lesene dipinte). La figurazione parietale include, oltre al paesaggio, anche allegorie, per le quali, pur mancando tuttora un’attribuzione condivisa, si sono fatti i nomi del Pomarancio[10] (due i pittori che condividono questo nome, Niccolò Circignani e Cristoforo Roncalli) e di Pietro Bernini, anche lui menzionato dal Baglione come allievo del Tempesta (“Dilettossi anche di dipingere, e nel Pontificato di Gregorio XIII andò con Antonio Tempesta e con altri Pittori di que’ tempi al servitio d’Alessandro Cardinal Farnese in Caprarola; e in una estate dimorando, varie cose per quel Principe dipinse”[11]).

Le pitture emblematiche

Anche nello scalone, così come nel resto del palazzo, l’ampio corredo emblematico in cui i letterati di corte (Paolo Giovio, Annibal Caro, Fulvio Orsini, Francesco Maria Molza) condensavano le virtù del cardinale trova ampio spazio in piccoli riquadri attorniati da divinità fluviali e giochi di grottesche. All’interno del corpus emblematico di Alessandro vanno ricordati almeno: la Vergine con l’Unicorno, associata al motto “VIRTUS SECURITATEM PARIT” (“la virtù genera la sicurezza”); l’Unicorno che purificando le acque, ribadisce in chiave antiluterana la rilevanza del Battesimo; Pegaso [Fig. 8], creatore del Parnaso, che associato al motto greco HMERAS DWRON (“emeras doron”, dono del giorno) diviene emblema della munificenza farnesiana; la Navicella con le Simplegadi (PARAPLWSOMEN, “navigammo oltre”, fig. 9) ricorda la capacità della nave della Chiesa di superare ogni ostacolo; il fulmine di Paolo III, col motto “HOC UNO IUPPITER ULTOR” [Fig. 10] che, creato per Paolo III, viene fatto proprio dal cardinale in chiave antiprotestante.

Fig. 8 - Pegaso.
Fig. 9 – Navicella con le Simplegadi.
Fig. 10 – HOC UNO IUPPITER ULTOR.

La volta

Fig. 11 - La volta.

La celebrazione del cardinale e del casato farnesiano trova la sua espressione più potente al centro della volta dello scalone [Fig. 10], dove il tradizionale blasone familiare (sei gigli azzurri su fondo oro) si staglia al di sopra di un reticolo di grottesche all’interno del quale, alla presenza di putti, trovano spazio anche delle figure allegoriche non identificate. Lo stemma Farnese sulla volta, diverso dall’antico arme a dodici gigli presente nella sala dei Fasti, si pone come tappa ultima di un percorso di glorificazione familiare iniziato già in prossimità dell’ingresso allo scalone, dove campeggiava in presenza della Virtù come Atena e della Fama [Fig. 12].

Fig. 12 – Il blasone Farnese con la Virtù e la Fama.

 

 

 

L'immagine 4 è stata realizzata da Giulia Pacini.

Le immagini dalla 5 alla 12 sono state realizzate da Andrea Bardi.

 

Note

[1] Le parole di Ammannati sono riportate in Paolo Portoghesi, Caprarola, p. 120.

[2] Ivi, p. 98.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 80.

[5] C. Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, p. 15.

[6] Ibidem

[7] P. Portoghesi, Caprarola, p. 98.

[8] Italo Faldi nota come Giovanni Baglione non viene menzionato da Ameto Orti nel poemetto celebrativo La Caprarola (I. Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, p. 39, nota 80).

[9] G. Baglione, Le vite, p. 314.

[10] I. Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, p. 28; cfr. P. Portoghesi, Caprarola, p. 80.

[11] G. Baglione, Le vite, p. 304.

 

Bibliografia

Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma, Andrea Fei, 1642.

Italo Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, Torino, SEAT, 1981.

Gerard Labrot, Le Palais Farnese de Caprarola, Parigi, Klincksieck, 1970.

Salvatore Mascagna, Caprarola e il palazzo Farnese. Cinque secoli di storia, Viterbo, Quatrini, 1982.

Paolo Portoghesi (a cura di), Caprarola, Roma, Manfredi, 1996.

Camillo Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, Roma, coi tipi della civiltà cattolica, 1869.

Maurizio Vecchi, Paola Cimetta, Il palazzo Farnese di Caprarola, Caprarola, Il Pentagono, 2013.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568.

 

Sitografia

http://www.caprarola.com/monumenti-caprarola/610-la-scala-regia.html

http://www.bomarzo.net/palazzo_farnese_caprarola_03_scala_regia_it.html

https://www.canino.info/inserti/tuscia/luoghi/piazze/caprarola/index.htm

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-tempesta/

Riferimenti fotografici

Fig. 1 -

Fig. 2 - By Geobia - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20982216

Fig. 3 - By Jean-Pierre Dalbéra from Paris, France - La palais Barberini (Rome), CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=24668843

 


PIAZZETTA BETLEMME, IL GIOIELLO DIPINTO DI SAN GIOVANNI IN PERSICETO

A cura di Valentina Fantoni

 

Introduzione

Non lontano da Bologna, a circa 20 chilometri di distanza, si trova il comune di San Giovanni in Persiceto che ospita in una delle sue caratteristiche vie quella che è diventata uno dei simboli del paese: Piazzetta Betlemme, nome che deriva dalla via in cui è ospitata, via Betlemme. Questa pittorica piazza ospita dal 1982 le “scenografie ambientali” di Gino Pellegrini, noto scenografo che lavorò a numerosi film di successo nell’officina cinematografica hollywoodiana, come Gli Uccelli, 2001: Odissea nello spazio, Indovina chi viene a cena, Mary Poppins, La spada nella roccia, Un maggiolino tutto matto e molti altri ancora. Nato a Lugo di Vicenza, Gino Pellegrini frequentò gli studi di architettura della U.C.L.A., in California nel 1957, per proseguire poi con il master in Fine Arts a Los Angeles. Iniziò a lavorare come cartellonista pubblicitario, successivamente raggiunse il mondo del cinema e della televisione americana, svolgendo diversi compiti e mansioni come lo svolgere bozzetti, realizzare pitture per la scena, essere aiuto scenografo e scenografo. Torna in Italia nel 1972 per stabilirsi a Bologna e dedicarsi al proseguimento dei suoi studi e ricerche artistiche, come l’allestimento di Piazzetta Betlemme, ribattezzata “Piazzetta degli Inganni” nel 1982.

Le scenografie ambientali che Pellegrini realizzò per la piazza furono diverse: la visione di cui si gode oggi non è infatti quella originaria degli anni Ottanta, ma si tratta dell’ultimo intervento eseguito agli inizi degli anni 2000.

 

 

Scenografia ambientale del 1982

La realizzazione delle prime scenografie ambientali della piazzetta si deve alla decisione del comune di ospitare in questo spazio una manifestazione estiva nel 1980: si trattava di una particolare rassegna cinematografica, dedicata al cinema comico, che si proponeva l’obiettivo di riqualificare quella che era all’epoca una zona degradata del paese. In un primo momento si decise di allestire la piazzetta con quello che viene definito in gergo tecnico “un sistema di quinte e fondali” per rendere più attrattivo il luogo ed incuriosire il maggior numero di persone a recarsi alla rassegna. Dopo due anni, si decise di cambiare l’allestimento coinvolgendo direttamente gli abitanti della piazzetta e le facciate delle loro case, che vennero dipinte, previo loro consenso. Ad eseguire la decorazione dei muri degradati di queste case, venne chiamato Gino Pellegrini, da poco rientrato dagli Stati Uniti.

Lo scenografo decise di omaggiare il cinema con una commistione di mondo rurale e mondo western, arricchito da tromp l’œil, all’insegna dell’ironia e della contaminazione dei “generi” e dei tempi, con l’obiettivo di catturare lo spettatore in un’illusione cinematografica che in quel determinato spazio e in quel determinato tempo voleva essere la realtà del luogo.

Le rassegne estive del 1982 e 1983 si arricchirono ulteriormente grazie ad alcuni momenti che precedevano, intervallavano o susseguivano la proiezione del film: in questi intermezzi erano previsti spettacoli di ogni genere grazie ad un piccolo palco allestito sotto lo schermo.  Gli spettatori avevano quindi la possibilità di assistere alle performance di illusionisti, musicisti e cantanti. Inoltre, era possibile bere e mangiare uno spazio allestito con sedie e tavolini e messo a disposizione da un bar collocato proprio in uno degli edifici della piazzetta. La convivialità della piazzetta predisposta per la rassegna attirò un vasto pubblico, soprattutto locale, e una volta terminata la manifestazione la scenografia sulla facciata delle case rimaneva a far compagnia durante l’anno ai suoi abitanti e ai passanti.

 

Fig. 1 - Scenografia realizzata per la rassegna cinematografica, 1982. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1982-2#gallery/85/1.

 

Scenografia ambientale del 1990

Nel 1987 Pellegrini eseguì un secondo intervento più riflessivo poiché vedeva l’intrecciarsi di paesaggi padani, animati da campi dorati e colline incorniciate da un tipico cielo azzurro, e cinema, in un gioco pittorico che si faceva ancora più sottile con l’immagine di un plausibile cantiere. La scenografia, infatti, serviva da decorazione fittizia per le finestre delle case rinnovate che si affacciavano sulla piazzetta, con l’incursione di qualche gallina dipinta in sosta sulla finta impalcatura.

 

Fig. 2 - Scenografia realizzata nel 1990. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1982#gallery/110/10.

Scenografia ambientale del 1998

Nel 1998 venne realizzata una scenografia in grado di stupire grandi e piccini: da un lato impalcature che con corde, pali e mollette sorreggevano il bucato e le scarpe appena lavate, sull’altro lato un tripudio di ortaggi, verze, teste di aglio e cavolfiori giganti e animali realizzati fuori scala, tra i quali alcuni fantastici, come asini alati, oche e rane dalle altezze e grandezze innaturali.

Fig. 3 - Scenografia realizzata nel 1998. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1992#gallery/136/13.

 

Scenografia ambientale del 2004

Nel 2002, viste le condizioni di abbandono della piazzetta e dello stato rovinoso dell’allestimento murale, un’associazione volontaria di cittadini si adoperò per far restaurare le decorazioni delle facciate per far ritornare al suo originario splendore un luogo così particolare e caratteristico del paese.  Due anni dopo, nel 2004 Pellegrini intervenne nuovamente sull’allestimento scenografico della piazzetta dando vita a una scenografia di ortaggi e animali: la vera essenza dell’Emilia. Su un lato la predominanza di vegetali fuori scala incorniciavano e animavano le facciate e i portoni delle case, sull’altro, animali a grandezza innaturale abitavano i vari spazi della facciata. A chiudere la piazzetta a sud una parete in cui vengono fatti convivere il giorno e la notte, rappresentati dalla luce del giorno e da un gufo al chiaro di luna. Alcuni dei portoni decorati sono stati sostituiti negli anni da differenti entrate, ma alcuni di essi sono conservati e custoditi con affetto dai residenti all’interno delle loro abitazioni.

 

 

Dal 2004 ad oggi

Sin dal primo intervento nel 1982 ad oggi la piazzetta non ha mai subito atti vandalici o alcun tipo di sfregio, anzi è stato un luogo verso il quale si è manifestata sempre una particolare attenzione. Ancora oggi si offre come scenario per iniziative e laboratori e grazie al ristorante “Trattoria la piazzetta” è possibile degustare piatti della tradizione locale in un’atmosfera davvero suggestiva. Nei mesi estivi vengono messi in piazza dei graziosissimi tavoli, mentre nei mesi più freddi si viene ospitati all’interno del locale che ha mantenuto negli anni il pavimento e la struttura originali, gli arredi rustici e il portone d’ingresso con lo splendido pavone dipinto da Pellegrini come elemento decorativo appoggiato a una parete.

La cura e l’attenzione riservata a questa preziosa e caratteristica piazzetta continua tutt’ora, come il riconoscimento e l’ammirazione per il suo artista. Lo dimostrano le varie iniziative organizzate dal Comune di San Giovanni in Persiceto durante l’anno 2021 con la rassegna “Parlami di Gino”, istituita per omaggiare l’artista nell’anno in cui sarebbe ricorso il suo ottantesimo compleanno. L’iniziativa maggiore è stata quella inaugurata il 9 di luglio 2021: una mostra intitolata “Come un fiocco di neve. La vita artistica di Gino Pellegrini” allestita all’interno dello spazio espositivo suggestivo della Chiesa di San Francesco, visitabile fino al 19 settembre (per gli orari è possibile consultare i seguenti siti https://www.ginopellegrini.it/?page_id=2087; https://www.comunepersiceto.it/2021/07/10/inaugurata-la-mostra-come-un-fiocco-di-neve-la-vita-artistica-di-gino-pellegrini/).

La mostra è stata curata da Osvalda Clorari, la compagna di vita e collaboratrice di Gino Pellegrini, e promossa dal Comune di San Giovanni in Persiceto assieme all’Officina Pellegrini, in collaborazione con l’associazione “Ocagiuliva”. Il corpus della mostra consta di scritti, fotografie, lavori originali dell’artista e curiosità ed aneddoti relativi alla sua carriera e produzione. L’allestimento all’interno della chiesa di San Francesco conferisce ancora più fascino all’esposizione, rendendo possibile per il visitatore un’esperienza immersiva tra opere moderne e architetture del passato in dialogo tra loro. La produzione di Pellegrini viene esposta in maniera tale da poterne cogliere le sfumature attraverso un percorso che pur non rispettando la linearità temporale rivela l’armonia e la versatilità delle sue opere. Altra dimostrazione di interesse per l’opera di Pellegrini è stato il restauro effettuato nel mese di luglio 2021 in Piazzetta Betlemme per ripristinarne alcuni particolari.

 

 

 

Le immagini 6,7,8 e 9 sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

“Il paese degli inganni” edito da Mazzotta/fotografia, 1983. Foto di Corrado Fanti, testi di Renzo Renzi.

“Il ciclo pittorico di Piazza Betlemme in San Giovanni in Persiceto” dipinto da Gino Pellegrini. Apparati critici e filologici dell’Università del Progetto. Collana “Classici dell’illusione” 1992. Direzione dell’opera: Giulio Bizzarri, Ermanno Cavazzoni, Luigi Ghirri.

“È di scena Zavattini” di Daniela Buonafede, fotografie Di Stefano Cellai in Bell’Italia “Emilia-Romagna” ottobre 1997 Mondadori Editore.

 

Sitografia

https://www.ginopellegrini.it/?page_id=23

https://www.ginopellegrini.it/?page_id=20

https://www.comunepersiceto.it/la-citta-e-dintorni/cultura-3/itinerari-culturali/visita-al-centro-storico/piazzetta-betlemme/

https://www.comunepersiceto.it/2021/06/28/persiceto-omaggia-gino-pellegrini/?fbclid=IwAR0NIQS6LUzeOiUikgeB6lL0qSpYDvUcOA-5iIw5urcx8ssPtJ7u-yIgpjE

https://www.fondoambiente.it/luoghi/piazzetta-betlemme?ldc

Riferimento per la “Trattoria la piazzetta” http://www.trattoriapiazzetta.it/index.html


UN’ICONA BIZANTINA SIMBOLO DELLA CITTÀ DI GELA: IL QUADRO DI SANTA MARIA DELL’ALEMANNA

A cura di Adriana d'Arma

 

  

Come ogni anno, l’8 settembre si celebra la tradizionale ricorrenza in onore di Maria Santissima dell’Alemanna, divenuta patrona della città di Gela.

La festa, ancora oggi attesissima da parte della comunità cittadina, è un intreccio di cultura, storia e leggenda, memoria e fede; difatti, questa piccola icona d’arte bizantina (Fig. 1) costituisce la memoria storica di alcune vicende che coinvolsero la città di Gela nel periodo medievale.

 

Fig. 1 – Originale Icona bizantina, Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Il culto della patrona, infatti, risale al XII secolo e trae origine dall’Ordine religioso Cavalleresco dei Teutonici di Santa Maria d’Alemanna (Ordo domus Sanctae Mariae Teutonicorum) – antico ordine ospedaliero – che nel 1220 si stanziò nella città di Gela fondando una cappella con annesso ospedale. La stessa area scelta dai Teutonici coincideva inoltre con quella di un antico edificio di culto greco risalente al VII-VI sec. a.C.

Tuttavia, non abbiamo una versione unica circa l’origine dell’effigie sacra, ma interpretazioni diverse: una di esse vuole che essa sia stata portata da alcuni viandanti, i quali, essendo ospitati dagli abitanti della città, la donarono in segno di ringraziamento ribattezzandola come “Madonna della Manna” (riferito probabilmente al nome della pianta manna); un’altra ipotesi vuole il dipinto realizzato da un’artista di passaggio e lasciato in quel luogo; un’altra tradizione ancora sostiene invece che l’immagine sia stata portata in città proprio dal sopracitato Ordine Teutonico; è quest’ultima ipotesi, in definitiva, a sembrare la più plausibile in quanto legata anche alla sua etimologia: Alemanna deriva infatti da Alemanni, termine con il quale si indicavano le popolazioni germaniche, e dunque riconducibile all’Ordine Teutonico.

 

La storia locale, i racconti popolari e le generazioni più antiche, però, ci tramandano che tale icona fosse stata sotterrata in una buca e nel 1476 rinvenuta miracolosamente da parte di un contadino intento ad arare la terra nei pressi dell’antico Santuario.

Ancora oggi si narra che questo contadino, resosi conto che i suoi buoi non proseguivano più il cammino, ipotizzò si potesse trattare di un ostacolo nascosto sotto il terreno. Messosi a scavare nella speranza di trovare un tesoro nascosto, si ritrovò tra le mani l’effige della Santissima Vergine. Sempre secondo la leggenda, nello stesso istante in cui il contadino trovò l’icona, i suoi buoi di inginocchiarono.

Il punto esatto in cui venne rinvenuto il quadretto della Vergine viene indicato oggi dietro l’altare maggiore (Fig. 2) dell’odierno Santuario dedicato a Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Fig. 2 – Luogo in cui venne trovato il quadretto della Vergine.

 

L’edificio religioso vide, nel corso dei secoli, susseguirsi numerosi rifacimenti: nel 1400 venne edificato il santuario vero e proprio (sulla base della preesistente cappella del 1220) che, a causa della precaria struttura, crollò; nei secoli successivi, tra il 1700 e il 1800, sul santuario vennero effettuati altri interventi di costruzione e demolizione fino al 1911, anno in cui l’edificio venne riadattato a lazzaretto durante un’epidemia di colera che interesso il territorio gelese.

Varie vicissitudini interessarono l’edificio, anticamente definito “chiesa rurale”, che venne dotato di colonne ioniche, di una facciata in stile neoclassico, di sei finestre e di un campanile a vela. Solo nel 2017, tuttavia, venero ripresero le attività di promozione e valorizzazione e grazie al sostegno dell’intera popolazione e del Comitato, il Santuario, luogo di culto e di pellegrinaggio per i devoti abitanti della città di Gela, oggi gode di una nuova vita sancita dalla definitiva riapertura avvenuta il 31 agosto 2020 (Fig. 3).

 

Fig. 3 – Odierno Santuario di Maria SS. d’Alemanna.

 

L’icona della Santissima Madonna dell’Alemanna è un piccolo dipinto (67x52 cm) realizzato su tavola di quercia. Esso raffigura la Vergine che poggia delicatamente la guancia sul viso del Bambino il quale, a sua volta, è tenuto delicatamente in braccio dalla madre.

La veste della Madonna è di color marrone e adornata con un manto di colore blu, la cui estremità è finemente decorata con fregi e volute a girali color oro.

Il Bambino Gesù offre allo spettatore uno sguardo assorto e pensoso ed è abbigliato con una veste color amaranto scuro, anch’essa decorata in oro.

Il dipinto si caratterizza per una forte ricchezza decorativa, che interessa, del resto, anche lo sfondo, anch’esso contraddistinto dalla predominanza assoluta dell’oro.

Sebbene la datazione e l’autore siano molto discussi, la critica tende a ricondurre l’icona all’attività di maestranze bizantine; la tecnica del fondo oro, usato soprattutto per la realizzazione delle icone, compare dapprima in ambito bizantino e successivamente nel XII secolo in Italia. Essa prevede la stesura sulla tavola di sottili lamine d’oro (foglie) ricavate grazie al lavoro degli artigiani i quali martellavano delle monete d’oro e successivamente le univano ad altri elementi e sostanze vegetali.

L’oro simboleggia l’Eterno, elemento alla base di quel messaggio cristiano di cui l’opera vuole farsi carico; l’oro esalta le figure, le estrae dal contesto reale isolandole nel tempo e nello spazio. Annulla ogni consuetudine e rapporto con la quotidianità, ogni riferimento a paesaggi familiari o edifici riconoscibile, lasciando allo sguardo la verità assoluta del Divino.

 

Questa meravigliosa icona bizantina è collocata presso il Duomo della città e non all’interno del Santuario a Lei dedicato, presso il quale è custodita una copia fedele (Fig. 4).

 

Fig. 4 - Copia dell’icona bizantina presso l’odierno Santuario.

 

In occasione della Festa patronale la città è in grande fermento: tra i diversi momenti, religiosi e non, vanno ricordati la solenne processione dell’icona, la spogliazione dei bambini di fronte alla Vergine dell’Alemanna e tradizioni popolari quali il Palio dell’Alemanna e il cosiddetto gioco del “paliantino”.

La ricorrenza della festa dell’Alemanna è ormai da anni una particolare tradizione popolare che attrae in chiesa una moltitudine di fedeli che, in quel giorno, vogliono rendere omaggio alla Patrona, alla Santissima Maria dell’Alemanna e a quell’icona tanto piccola quanto preziosa.

 

Le figure 2,3 e 4 sono state scattate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

Mulè, La chiesa Madre di Gela e il culto di Maria SS. D’Alemanna, Gela, Aliotta, 1985.

Vicino, Gela-Monumenti antichi, Raccolti di studi sui beni culturali e ambientali, Caltanissetta, Vaccaro, 1992.

 

 

 

 

 

 


LA FONTANA DELLE NAIADI DI LUIGI PAMPALONI

A cura di Luisa Generali

 

 

Breve storia di Empoli

La città di Empoli si trova in provincia di Firenze, nell’area del Valdarno inferiore, lambita dal fiume Arno e attraversata da secoli di storia. Gli antichi insediamenti etruschi e romani, che testimoniano una prolifica e precoce attività antropica in questa zona, portarono fra il VIII e il X secolo d. C all’incastellamento con la costruzione di una cinta muraria che definì i confini urbani della cittadina. Sottomessa precocemente alla supremazia di Firenze già nel XII secolo, Empoli fu sede nel 1260 del famoso Congresso (o dieta) di Empoli tenuto dai ghibellini (sostenitori dell’impero) dopo la disfatta di Montaperti, in cui la guelfa Firenze (sostenitrice papale) subì una violenta sconfitta. Qui il condottiero di parte imperiale, nato fiorentino ma esiliato a Siena, Farinata degli Uberti  (1212 c.,- 1264), determinò le sorti di Firenze votando contro la sua distruzione, che secondo l’opinione comune della fazione ghibellina doveva essere invece “ridotta a borgo”: tuttavia questo non bastò a redimere Farinata dai peccati di tradimento e di infedeltà a cui lo condannò Dante, collocandolo nel canto X dell’Inferno nel girone appunto degli eretici. È proprio intitolata a questa personalità la piazza storica nel cuore dell’attuale centro, Piazza Farinata degli Uberti, anche detta Piazza dei Leoni dove si erge la collegiata di Sant’Andrea, risalente al 1093 e che risponde nella decorazione marmoree ai canoni dell’architettura romanica fiorentina sugli esempi del Battistero di San Giovanni e San Miniato al Monte (fig.1).

Fig. 1 - Veduta Piazza Farinata degli Uberti anche detta Piazza dei Leoni, Empoli. Credits: Di mockney piers - https://www.flickr.com/photos/piers_canadas/542766515/sizes/o/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5646758.

La crescente ricchezza del castello empolese che prese principio fra il Trecento e il Quattrocento si tradusse anche in una prolifica attività artistica sostenuta da un significativo via vai di artisti principalmente fiorentini. Questo fermento culturale e artistico è da ricondursi a doppio filo sia all’importante snodo mercantile venutosi a creare a Empoli (il cui nome forse deriva non a caso da emporium cioè mercato), che permise il benestare di alcune distinte famiglie, sia a un significativo exploit di chiese e conventi, comunità monastiche e compagnie religiose di misericordia che contestualmente fiorirono sul territorio. Alle consuete commissioni ecclesiali e laiche delle confraternite, che spesso trovavano sede negli oratori annessi agli stessi edifici sacri, si aggiunse l’ausilio dei patroni (facoltose famiglie che in cambio di benefici possedevano spazi liturgici e altari all’interno delle chiese), mecenati in prima persona delle opere d’arte che avrebbero adornato e nobilitato le cappelle di famiglia. Tali testimonianze visive, ancora oggi in gran parte conservate nei loro contesti originari, raccontano per immagini il passato di Empoli e la sua partecipata devozione, che oltrepassando la storia si protrasse dagli inizi del Trecento fino all’inoltrato Settecento.

 

La Fontana delle Naiadi

Intorno al secondo decennio del XIX secolo, dopo la fase di dominio napoleonico, nacque l’esigenza da parte degli empolesi di realizzare in piazza Farinata egli Uberti, in posizione leggermente decentrata, una fontana monumentale, che oltre a impreziosire lo spazio aveva anche l’importante funzione pratica di rifornire d’acqua il centro cittadino (fig.2-3). Il progetto venne affidato all’architetto Giuseppe Martelli, di scuola neoclassica francese-napoleonica, stimato allievo di Luigi de Cambray Digny, al tempo direttore delle fabbriche granducali fiorentine, che probabilmente favorì Martelli per l’assegnazione di questo ruolo.

In un primo momento fu pensata con un perno centrale a candelabra sormontato da un grande bacino da cui doveva sgorgare l’acqua secondo un’impostazione in linea col rigore neoclassico, successivamente il progetto mutò verso un modello più articolato, dove il centro visivo e decorativo dell’opera ruotava attorno alle figure scolpite delle Naiadi. Queste presenze femminili erano considerate nell’antica Grecia le ninfe protrettici dei corsi d’acqua dolce, reinterpretate nell’Ottocento come emblemi femminili dell’universo acquatico, modelli ideali di classicità e quindi frequentemente utilizzate come elemento figurativo-simbolico delle fontane. Un esempio coevo di Fontana con Naiade è la cosiddetta “Pupporona” in piazza San Salvatore a Lucca (così chiamata per le evidenti nudità della ninfa), realizzata tra il 1838 e il 1840 dallo scultore Luigi Camolli su disegno di Lorenzo Nottolini (1787-1851), architetto neoclassico molto attivo nel territorio lucchese (fig.4). La figura della Naiade è ispirata ai modelli iconografici antichi della Venere al Bagno: qui la figura femminile, appoggiata all’anfora, è colta in movimento mentre ruota leggermente il busto per alzare il drappo dietro la schiena. La veste sottile crea sul busto un panneggio ad effetto bagnato che evidenzia le sinuosità del corpo femminile, mentre una vasca dal sapore arcaico decorata con due teste di leone e zampe leonine accoglie l’acqua che scorre dalla fonte.

Fig. 4 - Fontana della Naiade anche detta della “Pupporona”, Lucca, Piazza San Salvatore. Credits: By LivornoDP - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32599603.

Ritornando a Empoli, la fontana marmorea di Piazza Farinata degli Uberti si sviluppa su un podio circolare composto di tre gradini su cui sorgono simmetricamente quattro pilastri dove sono accovacciati i leoni da cui in gergo prende il nome la piazza, realizzati dal poco noto scultore Luigi Giovannozzi. Questi animali, oltre a ricordare la classicità nel significato di potenza e regalità, sembrano qui presiedere alla difesa del luogo con i loro musi profondamente solcati; dalle fauci dei leoni esce inoltre un getto di acqua che crea in prossimità dei pilastri altre quattro piccole fontanelle (fig.5). Al centro si alza il fulcro del monumento composto da due bacini uniti dal gruppo delle tre Naiadi, che con una leggiadra sintonia di pose e gesti scandiscono armonicamente lo spazio circolare: tutte, infatti, pongono un piede su basamento mentre l’altra gamba avanza verso l’esterno e all’unisono alzano il braccio destro nel gesto di toccarsi i capelli e sorreggere la vasca soprastante (fig.6-7). Le ninfe interamente nude, memori di una bellezza all’antica, siedono su un muricciolo composto da pietre squadrate, mentre man a mano che la candelabra sale verso il vertice la decorazione a rilievo diventa sempre più definita, ornata da foglie vegetali e baccellature in rilievo. Le pietre che compongono il muretto mostrano un effetto volutamente grezzo affinché la lavorazione restituisca veridicità all’insieme: inoltre sporadicamente tra le rocce del basamento si aprono dei fiori dai grandi petali, forse delle ninfee, piante acquatiche per eccellenza, oppure dei gigli, per il legame del comune empolese con Firenze (fig.8).

Luigi Pampaloni

L’artefice del gruppo scultoreo delle Naiadi fu Luigi Pampaloni (1791-1847) allievo di Lorenzo Bartolini, massimo esponente del purismo in scultura, un movimento artistico pienamente ottocentesco che traeva esempio da un tipo di bellezza naturale, discostandosi dall’idealizzazione. Pampaloni persegue e allo stesso tempo mitiga questa tendenza unendo al decoro neoclassico espresso nei corpi delle Naiadi la verosimiglianza dei dettagli naturali in modo da mantenere un tenore molto misurato, visto anche il carattere istituzionale del monumento pubblico e il confronto obbligato dell’artista con i massimi esempi rinascimentali e manieristi presenti a Firenze.

Sono invece più in linea con lo stile purista i celebri ritratti scultorei di Filippo Brunelleschi e Arnolfo Cambio (anni 30’ dell’Ottocento) per il Palazzo dei Canonici a Firenze, così come la scultura raffigurante Leonardo da Vinci (1837-39) per il palazzo degli Uffizi (fig.9-10): qui l’ufficialità del ruolo dell’artista è sempre restituito attraverso una ritrattistica che vuole avvicinarsi il più possibile al dato reale e umano di questi personaggi. Famosissima è l’immagine di Brunelleschi collocata nella nicchia sottostante la cupola di Santa Maria del Fiore, che raffigura l’architetto nel pieno del suo mestiere, mentre osserva e sembra perennemente controllare il suo massimo capolavoro. Ma sono senz’altro le piccole operette a tema fanciullesco-bucolico in cui emerge l’insegnamento di Bartolini e quella leggiadra naturalezza di cui si nutriva il purismo: un esempio è il piccolo gruppo scultoreo Putto con un cane, realizzato per un collezionista inglese nel 1827 e che vediamo nel bozzetto in gesso alle Galleria dell’Accademia di Firenze (fig.11). Ispirato ai soggetti degli amorini, la scultura vuole restituire la tenerezza di un momento giocoso tra un bambino e un cane, cogliendo gli aspetti più naturali di entrambi i protagonisti, come la posa tipicamente puerile del fanciullo, il suo volto pingue e sorridente, il manto fluente dell’animale e la sua docile espressione. Proprio per la particolare inclinazione nell’esprimere con naturale bellezza queste operette Luigi Pampaloni è stato definito l’”Anacreonte della scultura”, alter ego in arte dell’antico poeta greco celebre per un tipo di componimento lirico dai toni leggeri e disimpegnati.

 

Bibliografia

A.Natali, La "Fontana dei leoni" patrimonio e responsabilità, Firenze 2018

A.Naldi, Empoli. I luoghi e i tesori della storia Empoli 2012

 

Sitografia

https://www.quinewsempolese.it/empoli-torna-a-zampillare-la-fontana-delle-naiadi.htm

https://www.gonews.it/2019/12/14/fontana-dei-leoni-restauro-avverra-destate/

https://www.luccaindiretta.it/dalla-citta/2020/08/07/nuova-vita-per-la-pupporona-in-piazza-del-salvatore/191219/

https://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-pampaloni_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.galleriaaccademiafirenze.it/opere/fanciullo-che-scherza-con-un-cane/


L’ABRUZZO DEGLI EREMI: L’EREMO DI S. SPIRITO A MAJELLA E S. BARTOLOMEO IN LEGIO

A cura di Valentina Cimini

 

Gli eremi in Abruzzo

Vi sono dei luoghi in Abruzzo capaci di coniugare la rigogliosa vegetazione della regione e le tradizioni ataviche dei loro abitanti in un insieme di natura, storia e tradizioni. È il caso degli eremi, dimore scavate nella roccia, che rappresentano non solo un insediamento umano, ma anche un serbatoio culturale e antropico. Questi di fatti, se indagati, ci portano alla scoperta degli esiti del tutto singolari che la presenza umana ha avuto in questi luoghi impervi, resi poi luoghi dello spirito. Ancora oggi possiamo avvicinarci a questi siti arroccati assaporandone la pace eremitica ricercata in passato dai religiosi che vi trovavano dimora, in un momento senza tempo che ci rende capaci di comprendere, almeno in parte, le sensazioni di chi quei luoghi li ha abitati.

Coloro che intraprendevano questa scelta di solitudine e contemplazione facevano della povertà e della privazione il loro stile di vita. La loro presenza si manifestò, in particolare, già dai primi secoli dell’era cristiana e possiamo ricordare a tal proposito S. Antonio Abate che, pur non essendo il primo eremita, tutt’ora figura come l’asceta per eccellenza. Nel periodo Medievale questa pratica è approdata anche all’interno del contesto del cristianesimo d’occidente grazie alla figura di San Girolamo, facendo sì che alcuni ordini religiosi, come ad esempio i certosini, organizzassero i loro monasteri come gruppi di eremi in cui essi potessero mettere in atto la loro “fuga dal mondo”.

In Abruzzo, ove la regione grazie alla sua predisposizione geografica rendeva ciò possibile, si diffusero sin da subito degli insediamenti monastici tra i monti, in cui i religiosi potevano realizzare la loro scelta ascetica, difficile da attuarsi a Roma sebbene questa costituisse il centro nevralgico della cristianità. Ciò ebbe come conseguenza l’affermarsi di un discreto movimento migratorio di singoli eremiti che cercavano nella Majella il loro luogo di ascesi, di qui ne deriva la sua fama di “montagna santa”. Sarà poi nel XIII secolo che si registrerà con i Celestini un movimento di origine locale, fondato da Celestino V (colui che appare con la sua ombra tra gli ignavi nel canto III della Divina Commedia come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”).

Si tratta di Pietro Angelerio, detto anche Pier da Morrone proprio in relazione alla sua vita eremitica condotta sul monte Morrone situato al confine del Lazio con l’Abruzzo e il Molise. Egli, difatti, ebbe i natali intorno al 1210 presso la Contea di Molise, luogo dal quale prese le mosse il suo viaggio verso Roma con l’intento di farsi consacrare sacerdote dal papa. Dal 1231, dunque, realizzò la sua scelta ascetica sposando la povertà e la ricerca della fede in luoghi isolati che potessero fare da cassa di risonanza allo spirito. Fu nel luglio del 1294 che venne eletto Papa, grazie alla sua fama di sant’uomo, e scelse il nome di Celestino V. L’esperienza del papato però si concluse già pochi mesi dopo, il 13 dicembre 1294, poiché egli non trovò compatibilità con le incombenze tutt’altro che religiose legate alla sua nuova vita come vescovo di Roma. A seguito dell’abdicazione tornò ad indossare la tonaca grigia che contraddistinse la sua Congregazione e tornò sul Morrone, da cui tutto era iniziato.

Non ci sorprende, a questo punto, se in Abruzzo siano numerosi gli eremi collegati alla sua persona, tra i quali possiamo ricordare l’eremo di S. Spirito a Majella e quello di S. Bartolomeo in Legio, situato non molto distante dal primo nel borgo di Roccamorice in provincia di Pescara. Entrambi si collocano al confine con il Parco della Majella e del Morrone, incastonati in maestose pareti rocciose e circondati da una fitta vegetazione.

 

L’eremo di S. Spirito a Majella

L’eremo celestiniano di S. Spirito a Majella (Fig.1), dal nome della valle in cui sorge, fu oggetto di pellegrinaggio sin da tempi remoti e ancora oggi può essere raggiunto tramite un ripido sentiero proveniente da Roccamorice. Dopo aver superato uno stretto passaggio, si apre davanti a noi un ampio piazzale con fontane ai suoi lati che ci conduce alla pittoresca visione del complesso addossato alla roccia.

Fig. 1 - Facciata della Chiesa dell’eremo di Santo Spririto. Credits: By Collalti86 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94155337.

Attualmente per coloro che si recano all’eremo è possibile osservare ancora conservata la parte bassa della struttura che è divisibile in tre settori distinti: la chiesa, la sagrestia e un’ala abitativa articolata su due piani, composta dalla foresteria e dalle cellette. Appena giunti a destinazione ci troviamo subito di fronte alla chiesa, un tempo dotata di un portico probabilmente a due archi di ordine toscano semplice, ma non più pervenuto già nell’Ottocento, ai tempi della visita fatta dallo scrittore e storico Vincenzo Zecca che ne descrisse lo stato di abbandono. Oggi la facciata, rifatta dall’Abate Pietro Santucci verso la fine del Cinquecento, mostra un maestoso portale in pietra della Majella a lunetta ribassata, al cui interno possono essere ancora rintracciati dei resti di affresco e un portone in legno decorato con arabeschi, tornato al suo posto con il restauro del 2005 dopo essere stato trafugato.

L’interno della chiesa presenta un’unica navata (Fig.2) con l’altare maggiore collocato all’interno della zona presbiteriale, che conserva ancora le tracce dell’antico impianto duecentesco nella copertura con volte a crociera costolonate che la sovrasta. Da questo spazio sacro due portelle, con incisioni che richiamano l’ordine dei celestini e la loro derivazione benedettina, immettono nella sagrestia.

Fig. 2 - Interno della chiesa di Santo Spirito. Credits: By Zitumassin - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=28112749.

É al di sotto della chiesa, però, che si sviluppa quello che con tutta probabilità è il nucleo eremitico originale, completamente ricavato dalla roccia. Esso presenta due ingressi. Il primo conduce ad un piccolo vano con un altare e tracce di affreschi ed è detto la “stanza del Crocefisso”, dove la tradizione narra che vi pregasse Pietro da Morrone e termina, proseguendo sulla destra, con un ulteriore spazio angusto, probabilmente il giaciglio dello stesso eremita. Mentre il secondo ingresso, adiacente al primo, fa capo al sepolcro gentilizio del casato del Principe Caracciolo di San Buono.

Alla fine del nostro percorso, dal grande fabbricato della foresteria, si arriva alla Scala Santa. Una ripida scalinata scavata nel fronte roccioso recante ai lati le incisioni relative alle stazioni della via Crucis, che porta fin all’edicola che ospita la statua in alto rilievo di S. Antonio Abate (Fig.3).

Fig. 3 - Scala Santa e statua di S. Antonio Abate. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=59046278.

Un’ultima piccola rampa di scale poi ci conduce all’oratorio della Maddalena. Ed è proprio in quest’ultimo ambiente che troviamo un altare sormontato da uno splendido affresco raffigurante la deposizione dalla croce, opera di Domenico Gizzonio e datato “A.D. 1737”.

Fig. 4 - Altare con affresco della Deposizione, opera di Domenico Gizzonio. Credits: By Verdenex84 - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94588730.

Santo Spirito a Majella presenta dunque una struttura molto articolata e dalle discrete dimensioni che sembrerebbe lontana dall’ordinaria immaginazione dell’eremo, ma tale era in origine e, nonostante le numerose trasformazioni avvicendatesi nei secoli, rimane fedele a quella vocazione antica di isolamento e preghiera grazie alla sua stupenda posizione nell’omonima valle che continua a renderlo un luogo “fuori dal mondo”. Come per molti altri eremi della Majella non esiste un’indicazione cronologica ufficiale della sua fondazione, ma si può supporre che essa sia avvenuta prima dell’anno Mille. In effetti la prima presenza famosa che la tradizione riporta è quella di Desiderio, futuro Papa Vittore III, che nel 1053 vi dimorò con alcuni eremiti costruendovi una chiesetta. Il secolo successivo invece vide la presenza in questo luogo di Pietro da Morrone che, trovandolo in stato di abbandono, vi fece i primi lavori costruendo un oratorio ed alcune cellette secondo uno schema di cui egli si servirà anche per altri grandi monasteri. L’eremo però vide nuovamente dei secoli bui, ai quali mise fine il monaco Pietro Santucci da Manfredonia, che dal 1586 nel giro di pochi anni riuscì a rimettere in sesto l’intero complesso, dando il via ad una rinascita della vita monacale nella valle che porterà S. Spirito ad ottenere il titolo di Badia, della quale il Santucci fu nel 1616 il primo abate. Purtroppo, con la soppressione delle comunità monastiche nell’Ottocento, la badia conobbe nuovamente l’abbandono, che si concluse questa volta non molto tempo dopo, alla fine del secolo, grazie all’intervento di alcuni fedeli di Roccamorice che la restaurarono e riaprirono al culto.

 

L’eremo di San Bartolomeo in Legio

Una storia analoga è quella che caratterizza il vicino eremo di San Bartolomeo in Legio che sorge a circa 600 metri di quota tra una vegetazione più arida, nella parte alta della medesima vallata di S. Spirito (Fig.5).

Fig. 5 - Eremo di San Bartolomeo in Legio. Credits: By Fabio Poggi, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=59040777.

Ancora una volta la data della sua origine non è certa, ma sappiamo che l’eremo venne ricostruito da Pietro da Morrone poco dopo il 1250, essendo stato il primo rifugio da lui frequentato dopo S. Spirito. La sua permanenza in questo luogo però fu breve a causa delle frequenti visite dei pellegrini e preferì, negli anni successivi, trasferirsi in San Giovanni dell’Orfento.

San Bartolomeo in Legio è un luogo spoglio, privo di ornamenti, di cui resta solo l’essenziale. Un perfetto corrispettivo della scelta ascetica e di povertà professata da Celestino V, poiché ancora oggi è capace di raccontarci quella fuga tra le montagne messa in atto dagli eremiti con l’intenzione di curare il proprio spirito. L’eremo difatti si sviluppa sotto un grande tetto di roccia lungo circa 50 metri, bucato nella parte iniziale proprio per concedere l’accesso nella terrazza sottostante (Fig.6).

Fig. 6 - Ingresso alla balconata tramite la scalinata a Nord. Credits: By Calancot - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94398959.

Possiamo parlare in questo caso di una grande balconata coperta alla quale si può accedere da quattro scalinate differenti (due alle estremità e due al centro), di cui solamente quella situata a Nord, formata da trenta scalini scavati nella roccia, proviene dalla parte superiore del vallone. Una menzione particolare va fatta anche alla scala a forma di “I” che troviamo al centro della balconata, inserita tra roccia e muro. Al termine del primo tratto di questa, in corrispondenza di un pianerottolo, troviamo i segni di un antico cancello, ora non più presente, che ne chiudeva l’accesso trattandosi della “Scala Santa”. Essa in quanto tale, poteva essere percorsa solamente in salita, generalmente in ginocchio ed in preghiera. Proseguendo la camminata, la balconata viene interrotta per tutta la sua larghezza dalla facciata della chiesa caratterizzata da un’estrema semplicità, presentando una porta disadorna ad architrave orizzontale, sormontata dai resti di alcuni affreschi raffiguranti un Cristo ed una Madonna con Bambino (Fig.7 e 8).

Entrando nello spazio sacro ci troviamo di fronte ad un ambiente non molto grande (7,7 m di lunghezza e 3/4 m di larghezza) che prende luce da una porta-finestra. Sulla parete di fondo è situato l’altare, nella cui nicchia semicircolare è collocata la statua lignea di San Bartolomeo. C’è inoltre una singolare tradizione popolare che si lega a questo luogo e, in particolar modo, alla piccola insorgenza d’acqua che si trova al di sotto un masso squadrato e internamente cavo, situato a metà della parete di sinistra. Quest’acqua attraverso un foro laterale, si riversa in una piccola vaschetta scavata nel pavimento, dalla quale poi scorrerà fuori dalla chiesa perdendosi tra e rocce. Si tratta de “l’acqua di San Bartolomeo”, la cui usanza vuole che venga raccolta dal pellegrino tramite un cucchiaio e poi miscelata con l’acqua della sorgente sottostante l’Eremo conferendogli così proprietà taumaturgiche. Nel medesimo ambiente, in corrispondenza con la porta-finestra, troviamo il campanile composto da due piccoli pilastri che sfiorano la volta rocciosa superiore, la cui campana viene liberamente suonata dai pellegrini al loro arrivo all’Eremo. La semplicità e l’umiltà di questo luogo assieme al suo silenzio, rotto solamente dallo scroscio del corso d’acqua che scorre al di sotto della balconata rocciosa, ci riporta direttamente col pensiero alla scelta ascetica di Celestino e non ci è difficile immaginare il perché egli, facendo “il gran rifiuto”, volle tornare in questi luoghi immersi nella natura, pieni di fascino e meraviglia (Fig.9).

Fig. 9 - Eremo di San Bartolomeo in Legio.

 

 

Bibliografia

Edoardo Micati, Eremi d’Abruzzo. Guida ai luoghi di culto rupestri, Carsa Edizioni, 1990.

 

Sitografia

https://abruzzoturismo.it/it/eremo-celestiniano-di-santo-spirito-majella-roccamorice-pe

http://www.comune.rope.it/c068034/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/14


DALLA SIRENA PARTENOPE A CASTEL DELL’OVO

A cura di Ornella Amato

 

Una leggenda napoletana

 

Fig.1 - Napoli, Castel dell’Ovo visto dal Lungomare di Mergellina. Credits: Matulus - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?.curid=83268554.

 

In un paese che non vi dico

Addormentata in riva al mare

Col vulcano che la sta a guardare

C′è da sempre una Sirena

Una fattura l'incatena

E nessuno la può svegliare…

Cit.: “Sole Sole", Eugenio Bennato[1]

 

La nascita della città di Napoli: tra storia e leggenda

Il 21 dicembre dell’anno 475 a.C. veniva fondata Napoli, o meglio ancora, Neapolis, la Città Nuova, appellativo utilizzato per distinguerla dal precedente insediamento denominato Palepolis, ovvero la città vecchia, che oggi viene individuato nell’attuale centro storico.

In realtà la data suddetta è assolutamente simbolica perché se da un lato gli storici sono concordi sull’anno di fondazione, per quel che concerne il giorno si è scelto quello in cui solitamente cade il solstizio d’inverno dato che era tradizione delle popolazioni antiche gettare le basi delle nuove città durante questo periodo; sta di fatto che la sua fondazione resta avvolta nel mistero.

Indiscutibili sono l'origine greca e il mito fantastico della sirena Partenope, che accompagna da sempre la storia della nascita di Napoli.

Chi era realmente Partenope e se sia effettivamente esistita è impossibile dirlo. Secondo alcune correnti di pensiero sarebbe stata una principessa greca morta quando una nave che trasportava i coloni aveva raggiunto le coste, ma non è mai stata ritrovata una sua tomba né un’immagine ad essa riconducibile. Eppure, Partenope esiste in ogni napoletano che si dichiara suo figlio, in ogni napoletano che si dichiara “partenopeo”.

La leggenda vuole che Partenope in realtà sia una sirena, la cui immagine segue l'iconografia tradizionale di queste creature: donne che dalla vita in giù, al posto del bacino e delle gambe, hanno la coda di un pesce, anche se in tempi antichi erano presentate anche come degli uccelli e quindi con le ali.

Le Sirene raccontate nella mitologia classica

Lunghi capelli, corpo sinuoso e viso splendido, code lunghe con squame dai colori sorprendenti, dal verde smeraldo al blu cobalto passando per l'argento: così è rappresentata la sirena a cui oggi siamo abituati, ma sin dai tempi più remoti e soprattutto nell’età classica era vista quasi come un’arpia, una figura ibrida tra donna e rapace che catturava le sue prede ammaliandole con un canto capace di stregare gli uomini. Nessuno poteva resistere.

Ne parla anche Omero nel canto XII dell’Odissea:

[…] Dapprima arriverai dalle Sirene, che incantano

gli uomini che arrivano presso di loro.

Chi senza saperlo si accosta e ascolta la voce

delle Sirene, non lo accoglieranno mai più la moglie e i figli

al suo ritorno a casa, ma le Sirene

sedute sul prato lo stregano con il loro canto

armonioso; tutta la riva intorno

è piena di cadaveri putrefatti, le carni marciscono […]. [2]

 

Raccontando il viaggio di ritorno di Ulisse ad Itaca dopo la guerra di Troia, l’eroe, il suo equipaggio e la sua nave riescono a sopravvivere al canto ammaliatore delle sirene poiché, messi in guardia da Circe, scelgono di attuare uno stratagemma: Ulisse si fa legare all'albero maestro della nave ed impone all'equipaggio di tapparsi le orecchie con la cera per evitare di naufragare sugli scogli dove le sirene avrebbero potuto condurli.

 

Fig. 2 - Adolfo De Carolis, illustrazione da Odissea, Vol. I e II, trad. Ettore Romagnoli, Zanichelli, 1927. Credits: By Adolfo de Carolis - This file was derived from: Omero - L'Odissea (Romagnoli) I.djvu, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50486624.

 

 

La Sirena Partenope: dall’isolotto di Megaride al Golfo di Napoli

 

Fig. 3 - Napoli - La fontana della Sirena Partenope in Piazza Sannazzaro.

 

Leucosia, Ligeia e Partenope erano tre sorelle, ma soprattutto tre sirene.

Consapevoli del potere del loro canto fascinoso, tentarono di attirare l’attenzione di Ulisse del quale Partenope si innamorò perdutamente, ma il rifiuto dell’uomo fu devastante e la sirena si lasciò trascinare dalle acque del Mar Tirreno fino a lasciarsi morire sull’isolotto di Megaride. Da qui nascerebbe la leggenda di Napoli e di Partenope.

Il corpo della sirena non fu mai ritrovato. A questo punto sarebbe più corretto parlare del mito di Partenope, piuttosto che di leggenda. Ma una spiegazione i napoletani a questo mancato ritrovamento l’hanno anche data: il corpo si sarebbe dissolto a partire dall’Isolotto di Megaride, su cui secondo il mito la sirena aveva appoggiato la sua testa, mentre la restante parte si sarebbe adagiata lungo quella che era la costa del tempo dando vita al Golfo di Napoli che nella forma ricorderebbe, quindi, la curva della coda della sirena stessa.

Stando a questa mitologica ricostruzione, la sirena, il cui fianco sinistro era rivolto verso il mare, col suo fianco destro avrebbe dato vita allo sviluppo della città di Napoli, dal basso verso l’alto, comprese le sue undici colline.

E se Partenope non fosse morta? Lo sosteneva Matilde Serao:

Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare.[3]

Ma per i napoletani Partenope ha scelto la morte. Una morte causata dal rifiuto di un amore, ma che ha dato vita alla sua città, Napoli, che oggi è per tutti “la Città di Partenope”. E non sarebbero mancati omaggi. Infatti, è a lei che si devono sette doni preziosi: grano, estratto di fiori d'arancio, cannella, cedro, ricotta, uova e zucchero, ovvero i 7 ingredienti fondamentali per la pastiera napoletana, dolce tipico del periodo pasquale e che mai deve mancare sulle tavole partenopee.

Partenope è là che in eterno riposa sull'isolotto di Megaride, oggi Borgo Marinari, ai piedi del Castel dell’Ovo, il castello più antico della città, che conserva e nasconde un magico uovo d’oro lì riposto dal poeta Virgilio: un uovo deposto dalle sirene, che protegge il castello e la città.

La fortezza in realtà ha avuto origine dai resti di una villa luculliana e risale al I sec. d.C circa. Avrebbe visto diversi eventi svolgersi tra le sue mura: qui fu esiliato Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, dal barbaro Odoacre e venne decapitato Corradino di Svevia, ma soprattutto fu il luogo che vide la regina Giovanna d’Angiò dichiarare pubblicamente che, a seguito di  un rovinoso incendio che aveva distrutto una parte della struttura, l’uovo d’oro che tutt’oggi conserva era rimasto intatto: una dichiarazione resasi necessaria per placare l’animo dei napoletani, preoccupati per le sciagure che si sarebbero abbattute sulla città qualora l’uovo fosse andato distrutto.

Per quanto riguarda il corpo della sirena, per secoli i napoletani lo hanno cercato, ovviamente senza mai trovarlo.

 

 

Ai napoletani interessa la certezza della protezione dalle avversità, che offre soprattutto il patrono San Gennaro attraverso il miracolo della liquefazione del Sangue, ma che è anche garantita dell’uovo d’oro e dalla sirena.

 

Fig. 6 - Veduta di Napoli da Via Partenope, antistante il Castel dell’Ovo.

 

Partenope è là che dorme accarezzata dalle onde del mare che s’infrangono sugli scogli dolcemente per non disturbarla, perché sanno che mentre riposa nel sonno eterno veglia sulla sua creatura.

 

E chi a guarda s’annammora

E tutt′o munno a sta a guardare

E nisciuno ′a po’ scetare. [4]

 

Fig. 7 - Napoli, il Lungomare visto dal Castel dell’Ovo.

 

 

Le immagini inserite in questo elaborato dalla 3 alla 8 sono state realizzate dall’autrice dell'articolo.

 

Note

[1] Citazione liberamente tratta dalla prima strofa della canzone “Sole Sole” di E. Bennato. Testo consultabile su www.testiecanzoni.mtv.it

[2] Odissea, libro XII, vv. 39-46. Trad. di G. Paduano. Consultabile online: https://ime.mondadorieducation.it/extra/978888332768/extra/978888332730_leggo_perche_epica/02_laboratorio/le-sirenebr-odissea/

[3] La citazione è liberamente tratta da altritaliani.net che la riprende testualmente da “Matilde Serao – Leggende napoletane “del 1881.

[4] “e chi la guarda se ne innamora e tutto il mondo sta a guardare e nessuno la può svegliare”. Citazione liberamente tratta da “Sole Sole” di E. Bennato. Testo consultabile su www.testiecanzoni.mtv.it

 

Sitografia

comune.napoli.it

testiecanzoni.mtv.it

napolike.it

fanpage.it

altritaliani.net


SULLE TRACCE DI UN’OPERA RAFFAELLESCA: IL SUCCESSO DELLA MADONNA DEL VELO

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Al Museo Pontificio della Santa Casa di Loreto è possibile visitare, fino al 17 ottobre 2021, una suggestiva mostra che integra esperienza visiva ed esperienza virtuale: La “Madonna di Loreto” di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera.

Questa mostra, curata dal dott. Fabrizio Biferali e dal dott. Vito Punzi, si inserisce nell’ambito delle celebrazioni raffaellesche del 2020 - in occasione dei 500 anni dalla morte del grande artista marchigiano - ma posticipata a causa dell’emergenza sanitaria.

Il fulcro dell’esposizione lauretana è un’opera di Raffaello conservata al Musée Condé di Chantilly, in Francia: La Madonna del velo o La Madonna di Loreto (fig. 1). Eseguita tra il 1511 ed il 1512, dopo aver terminato gli affreschi della Stanza della Segnatura nei Palazzi Vaticani e aver ritratto un anziano papa Giulio II, Raffaello realizza questo dipinto che Vasari descrive così:

 

«un quadro di Nostra Donna bellissimo, fatto medesimamente in questo tempo, dentrovi la Natività di Iesu Cristo, dove è la Vergine che con un velo cuopre il Figliolo, il quale è di tanta bellezza che nell’aria della testa e per tutte le membra dimostra essere vero filgiuolo di Dio: e non manco di quello è bella la testa et il volto di essa Madonna, conoscendosi in lei, oltra la somma bellezza, allegrezza e pietà; èvvi un Giuseppo che, appoggiando ambe le mani ad una mazza, pensoso in contemplare il Re e la Regina del cielo, sta con una ammirazione da vecchio santissimo»[1].

 

Fig. 1 - Raffaello Sanzio, Madonna del velo, circa 1511-1512, olio su tavola, 120x190 cm, Musée Condé, Chantilly. Credits: Di Raffaello Sanzio - Web Gallery of Art: Immagine Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1082824.

 

Giorgio Vasari ricorda che questo dipinto si trovava nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, insieme al ritratto di Giulio II (fig. 2), e che veniva esposto al pubblico durante le feste solenni.

Fig. 2 - Raffaello Sanzio, Ritratto di Papa Giulio II, circa 1511-1512, olio su tavola, 108x81 cm, The National Gallery, Londra. Credits: Di Raffaello Sanzio - National Gallery, London, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=100865.

Il doppio nome dell’opera, secondo l’ipotesi più accreditata, è dovuto alla donazione da parte di un devoto di una copia al santuario della Santa Casa di Loreto, collocata nella Sala del Tesoro dove rimase dal 1717 al 1797. Il soggiorno lauretano di quest’opera ebbe una tale risonanza al punto da far acquisire all’originale anche il nome di Madonna di Loreto. D’altronde è nota ai più la devozione verso questo santuario di papa Giulio II, che diede un nuovo slancio architettonico ed artistico alla basilica ponendola sotto la giurisdizione della Santa Sede.

Il motivo iconografico del quadro raffaellesco è la natività, con la Madonna ritratta nel momento di scoprire – o coprire – il Bambin Gesù. Il velo è un simbolo antico che allude alla Passione e morte di Gesù: infatti, secondo un’antica tradizione, quando fu crocifisso Gesù indossava lo stesso velo con cui la Madonna lo coprì alla nascita. Il merito del pittore urbinate è stato quello di rendere in maniera mirabile la profonda tenerezza e l’intimo rapporto affettivo tra la madre ed il figlio, che sembrano entrambi completamente assorti e complici, mentre in secondo piano San Giuseppe osserva con rigoroso rispetto la scena giocosa.

Intento dell’esposizione è lo studio delle vicende legate a questo dipinto e l’analisi storico-critica di analoghe iconografie contemporanee o successive ad esso, mirando a raccontare il mistero di un’opera che fu oggetto di centinaia di riproduzioni e repliche.

La mostra si presenta in una duplice veste – virtuale e visiva – ed è suddivisa in tre tappe, che permettono al visitatore di calarsi in diverse esperienze sensoriali.

La prima tappa è di tipo multimediale: un video immersivo introduce il visitatore alla comprensione dei due dipinti del pittore urbinate originariamente conservati nella chiesa di Santa Maria del Popolo di Roma - La Madonna del Velo (o Madonna di Loreto) e il Ritratto di Giulio II – ed allo svelamento di copie o repliche del primo dipinto, alcune presenti in mostra, altre solo narrate virtualmente. In questa presentazione virtuale non mancano alcuni esempi virtuosi, come quello del maestro veneziano profondamente influenzato da Raffaello, Sebastiano del Piombo, che si cimentò più volte nella rappresentazione di questo soggetto portandolo ad estreme conseguenze. Le sue due versioni della Madonna del Velo, un olio su tavola databile al 1525 ed un olio su lavagna del 1535 (fig. 3), restituiscono un’atmosfera meno gioiosa: il Bambin Gesù è profondamente addormentato, prefigurazione della sua futura passione e morte.

Fig. 3 - Sebastiano del Piombo, Madonna del Velo, circa 1535, olio su lavagna, 112x88 cm, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Credits: By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30693731.

Nel video è presente anche un’interessante disamina circa la committenza raffaellesca, necessaria per comprendere la genesi dell’opera.

Al termine di questa esperienza sensoriale, si presenta la seconda tappa in cui al visitatore vengono svelate le opere in presenza, ovvero copie dell’originale raffaellesco postume e contemporanee che attestano la grande fortuna del soggetto iconografico, allestite nel salone degli Svizzeri del Museo.

Analizzando innanzitutto il territorio marchigiano, una prima copia è quella eseguita da Raffaellino del Colle - Madonna del Velo con tre arcangeli – tra il 1531 ed il 1532 (fig. 4). Si tratta di un olio su tela conservato nel Museo Diocesano Leonardi di Urbania, originariamente destinata all’oratorio del Corpus Domini a Urbania. La scena è qui incorniciata in un’ambientazione architettonica di maggior rilievo: dietro alla Sacra Famiglia si apre un paesaggio naturalistico introdotto da una capanna di legno e da una grande colonna spezzata. I tre arcangeli circondano la Sacra Famiglia, dando l’impressione di volerla proteggere: San Michele, vestito di un’elegante armatura con elmetto, e San Gabriele, inginocchiato davanti al Bambin Gesù in silente adorazione, osservano il tenero gioco tra la Madonna e suo figlio, mentre San Raffaele volge lo sguardo verso lo spettatore indicando con la mano destra la scena principale. Il fulcro del dipinto è l’atto della Madonna di svelare o coprire il piccolo Gesù con il velo, mentre alle loro spalle un anziano San Giuseppe appoggiato al bastone li osserva pensoso. Un dipinto architettonicamente più complesso, ma che tenta di evocare la stessa divina tenerezza trattata nel capolavoro raffaellesco.

Fig. 4 - Raffaellino del Colle, La Madonna del Velo con tre Arcangeli, circa 1531-1532, olio su tela, Urbania, Museo Diocesano Leonardi. Credits: Arcidiocesi di Urbino, Urbania e Sant'Angelo in Vado, Ufficio Arte Sacra e Beni Culturali.

L’area tosco-romana è ricca di copie di questo soggetto: la mostra lauretana ne espone due di pittori anonimi che tentano di riproporre la stessa caratterizzazione stilistica e fisionomica dei personaggi raffaelleschi e che sono espressione di uno stimolo ricevuto da un’incisione (fig. 5) – esposta anch’essa in mostra – del mantovano Giorgio Ghisi.

Fig. 5 - Ignoto copista di Raffaello Sanzio, La Madonna del velo, circa 1550, olio su tavola, 127x96cm con cornice. Credits: Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Torino.

Nella stessa sala il visitatore viene calato in un contesto immersivo a forte impatto emotivo in cui vengono narrati i dettagli della Madonna del Velo e di alcune sue copie.

Terza ed ultima tappa è un’esperienza virtuale: su uno schermo ad altissima definizione, grazie alla tecnologia interattiva touchless, il visitatore può scoprire da vicino i dettagli del capolavoro raffaellesco.

 

Note

[1] Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori. Consultabile online: http://vasari.sns.it/cgi-bin/vasari/Vasari-all?code_f=print_page&work=le_vite&volume_n=4&page_n=175

 

Bibliografia

Fabrizio Biferali, Vito Punzi, La Madonna di Loreto di Raffaello. Storia avventurosa e successo di un’opera, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 2021

 

Sitografia

https://www.santuarioloreto.va/it/museo.html

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-07/madonna-velo-raffaello-biferali-loreto-500.html

http://vasari.sns.it/vasari/consultazione/Vasari/indice.html


IL TRITTICO DI JOOS VAN CLEVE NELLA CHIESA DI SAN DONATO DI GENOVA

A cura di Alice Perrotta

 

 

L’opera di Joos van Cleve (1485-1540) raffigurante l’Adorazione dei Magi tra Santo Stefano con il donatore Stefano Raggio e santa Maria Maddalena (fig.1) si trova nella chiesa di San Donato a Genova. È ubicata nella prima cappella sulla sinistra. Si tratta di un trittico a timpano con due ante laterali mobili. Fu eseguito tra il 1515 e il 1516 su richiesta del nobile genovese Stefano Raggio, figura di spicco all’interno di quella notissima rete di rapporti commerciali tra Genova e le Fiandre. In origine, l’Adorazione era destinata alla cappella di famiglia (denominata “dei tre Re”) che però in seguito venne distrutta.

Fig. 1 - Joos Van Cleve, Adorazione dei Magi tra Santo Stefano con il donatore Stefano Raggio e santa Maria Maddalena, 1485-1540, chiesa di San Donato, Genova. Credits: Di Joos van Cleve - https://www.finestresullarte.info/611n_joos-van-cleve-trittico-adorazione-dei-magi-genova-restaurato.php, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=72917134.

La composizione, caratterizzata da un’attenzione per i dettagli tipicamente fiamminga, si apre al centro con la scena dell’Adorazione. La figura inginocchiata di Melchiorre (fig.2) si protende a baciare Gesù Bambino, il quale si trova in braccio alla giovanissima Vergine, vestita di un lungo abito scuro; dietro di loro, Baldassarre (fig.3) tiene in mano la pisside d’oro che reca il suo nome (“Balteser”) mentre Gaspare è identificato con la scritta “Jasper” ricamata sul bordo dell’abito scuro; in disparte, alle spalle della Vergine, è raffigurato san Giuseppe, appoggiato ad una colonna ed intento ad osservare la scena. I personaggi si muovono entro quello che sembra un edificio classicheggiante in rovina mentre sullo sfondo si scorge un paesaggio molto particolareggiato. Il corpo centrale del trittico si presenta, dunque, come un’orchestra di dettagli, stoffe sontuose, gesti, sguardi.

Nemmeno le due ante laterali sfuggono a tali preziosità. Nello scomparto di sinistra sono inserite le figure di Santo Stefano e del committente, Stefano Raggio, posto su un inginocchiatoio e raffigurato nell’atto di pregare. Va notato che le vesti di quest’ultimo seguono la moda fiamminga. Sullo sfondo si intravede la scena della lapidazione.

Il personaggio dell’anta destra, invece, è Maria Maddalena (fig.4.). In passato, la sua presenza venne interpretata come un omaggio alla defunta moglie del committente. Le loro nozze vennero celebrate nel 1517, dunque questa venne considerata come il primo termine post quem per la realizzazione dell’opera.  In realtà, è più ragionevole ritenere che l’inserimento della santa derivasse da una personale devozione di Stefano nei suoi confronti. Questa tesi ha portato a una proposta cronologica più plausibile rispetto all’iniziale datazione che rimaneva invece molto larga (tra il 1515 e il 1525). Il trittico quindi, molto più probabilmente, venne eseguito tra il 1515-1516. L’interpretazione è rafforzata dal fatto che proprio in questi anni – nel secondo decennio del Cinquecento – era assai vivo il culto della Maddalena.

Fig. 4 - Joos Van Cleve, Adorazione dei Magi tra Santo Stefano con il donatore Stefano Raggio e santa Maria Maddalena (dettaglio), 1485-1540, chiesa di San Donato, Genova. Credits: Di Joos van Cleve - https://www.finestresullarte.info/611n_joos-van-cleve-trittico-adorazione-dei-magi-genova-restaurato.php, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=72917129.

Sullo sfondo dello scomparto di destra si intravede una veduta del porto di Marsiglia (in una versione per lo più fantasiosa) e della Sainte-Baume, luogo dove la santa si ritirò in vita eremitica e che qui viene ripreso in modo relativamente fedele. Si può notare, infatti, il sentiero che porta alla chiesa e poi alla cappella del Saint Pilon. Tali particolari sono un’ulteriore prova a favore della proposta cronologica del trittico di cui si accennava sopra: dopo il 1516 il paesaggio qui riportato subì alcune modifiche in quanto l’arcivescovo di Arles fece inserire sette edicole (che recavano a rilievo le Storie della Maddalena) lungo il cammino destinato ai pellegrini.

La cimasa centrale, infine, mostra un Calvario mentre su quelle laterali prosegue idealmente il lembo di cielo, nell’intento di riprendere le ante sottostanti. Joos van Cleve, artista fiammingo, fu una figura di rilievo per la fortuna della pittura fiamminga in ambito ligure.

In questo periodo, l’artista produsse altri due dipinti destinati a Genova: l’Adorazione dei Magi per la chiesa di San Luca d’Albaro (ora a Dresda, alla Gemäldegalerie Alte Meister) e la Deposizione per la chiesa di Santa Maria della Pace (ora al Louvre). In tal contesto, va forse menzionato anche un terzo dipinto, il trittico con la Crocifissione con san Paolo e donatore tra i santi Giovanni Battista, Caterina d’Alessandria, Antonio da Padova e Nicola da Tolentino, oggi a New York.

Nonostante questi frequenti rapporti artistici con la Liguria, si esclude una permanenza dell’artista nel territorio genovese, diversamente da quanto si fosse ipotizzato in passato.

 

 

 

Bibliografia

Cervini, Liguria romanica, Jaca Book, 2002

R. Pesenti, La scultura e la pittura dal Duecento alla metà del Seicento, in: “Storia della Cultura Ligure”, 2004

Zanelli (a cura di), Joos van Cleve. Il trittico di San Donato, SAGEP Ed., 2016

 

Sitografia

www.fosca.unige.it


THE FLYING DUTCHMAN

A cura di Silvia Donati

 

L’olandese volante di Fabrizio Cotognini approda a Macerata

E’ stata inaugurata il 17 luglio e rimarrà fruibile fino al 30 ottobre 2021, nelle sale del piano nobile dei Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi a Macerata, la mostra "The Flying Dutchman" di Fabrizio Cotognini curata da Riccardo Tonti Bandini.
Il motore di tutto è la ricorrenza dei 100 anni dalla prima rappresentazione lirica dello Sferisterio, nella stessa Macerata che diversi anni fa vide muovere i primi passi dell’artista all’Accademia di Belle Arti, diplomandosi prima in pittura e poi in scultura. Cotognini abbondonerà “il porto sicuro” per scoprire e ri-scoprire se stesso e la propria espressione artistica viaggiando ed esponendo soprattutto all’estero: “Sono fuggito anni fa da Macerata per poi ritornare in una veste più consapevole” è quello che dichiarerà all’inaugurazione della mostra.

Il tema dell’Olandese volante (Der Fliegende Hollander) di Richard Wagner è il filo del percorso multisensoriale che l’artista ci propone, il suo è un linguaggio artistico che spazia dal disegno alla scultura tattile, dall’installazione all’immersione nell’animazione che sia essa sonora o creazione di un ambiente marino. La sensibilità di Fabrizio emerge anche nei confronti del mondo del teatro, mostrandoci una notevole dimestichezza nella realizzazione di un modello di scenografia estremamente coerente con la tematica generale ma allo stesso tempo di un’originalità spiazzante.

E’ costante la metafora del vascello condannato a navigare all’infinito senza mai trovare approdo, che ovviamente si allarga alla vita dell’individuo e tanto più alla figura dell’artista. Gli artisti che hanno attraversato la nostra storia, nel tempo, sono stati tutti dei naviganti in balia del destino, con la loro forza espressiva hanno mostrato, in svariate forme, il loro viaggio tormentato che si riscoprirà essere, nei secoli, il tragitto che compiamo all’interno di noi stessi.

In questo contesto Cotognini diventa perciò il Virgilio che accompagna la nostra anima da fruitori negli abissi dell’inconscio, del sogno, dell’inesplorato, per farci comprendere che ci sono differenti modi di comunicare ma un solo modo di sentire, attraverso l’opera, noi e gli altri che risuonano intorno. E’ il motivo per cui tutto il percorso espositivo può tranquillamente definirsi un’opera corale, in senso musicale, teatrale e soprattutto introspettivo.

La particolarità del lavoro esposto è il costante rimando all’antico rivisitato in chiave contemporanea, non è un caso che si adatti perfettamente alla già esistente collezione permanente di Palazzo Buonaccorsi. Nella sala del Crivelli, ad esempio, Cotognini dialoga con la Madonna di Macerata (1470 circa) attraverso l’installazione “Bird 1-2”, due sculture di uccellini che rimandano ai motivi decorativi dell’opera pittorica.

 

Le trasposizioni materiche sono varie e minuziosamente lavorate, come la foglia oro che troviamo nel “Trittico Van Der Decker” nella Sala Bacco, utilizzata all’interno di tre ritratti estremamente emblematici.

A concludere un già ricco linguaggio espositivo ci sono i taccuini dell’artista, affiancati ad alcuni disegni che lo vanno, nell’immaginario comune, immediatamente ad affiancare alla genialità progettuale Leonardesca, dove la parola, il pensiero, lo sguardo alla natura completano l’immagine e viceversa.

Se tutta questa storia che Fabrizio ci racconta, racchiude in sé la metafora dell’uomo intento a contrastare la propria natura cercando di superare i suoi limiti, ne abbiamo la testimonianza nelle parole del curatore Riccardo Tonti Bandini: “Ogni volta che l’arte del presente incontra i luoghi suggestivi del nostro patrimonio museale, si costruiscono delle relazioni, dei legami simultanei tra la cultura del nostro tempo e la civiltà del passato. L’opera d’arte è un atto di resistenza: è un atto di resistenza contro il tempo e contro la morte.
Il lavoro di Cotognini è una grande ouverture sinfonica che introduce il racconto dell’immensa opera dell'Olandese volante, ne traccia già delle caratteristiche, è lo scenario di una geografia semi-reale e semi-immaginaria allo stesso tempo”:

 

Fiore all’occhiello dell’esposizione, a mio parere,  è l’immersione multisensoriale che si attua in uno dei corridoi di collegamento delle sale in cui si è intervenuti sui vetri delle finestre schermandoli di una pellicola celeste ed attuando un sottofondo sonoro che rimanda a quel rumore del mare che a volte spaventa ma sa come avvolgerci.

In riferimento al percorso espositivo e alla difficoltà che concerne l’attività di curatela sono sorte alcune domande che abbiamo posto a Riccardo, figura indispensabile per l’attuazione di questo racconto per immagini.

Cosa significa realizzare un percorso "a tema" conciliando diverse tecniche artistiche come quelle di Fabrizio?

- “L’universo che abbraccia i continenti e le isole è da sempre l’immensa fonte di racconti, di immagini e di visioni che hanno contribuito a costruire la cultura occidentale. L’abisso degli oceani cela ancora i segreti più nascosti. I mari spiegati pongono gli equipaggi dei natanti nelle condizioni di isolamento umano nella percezione dell’ignoto”.

Come si possono far dialogare questo tipo di opere con la collezione permanente?

- “La navigazione lascia l’essere umano all’incertezza della sorte, ognuno è affidato al proprio destino, ogni imbarco potrebbe essere l’ultimo viaggio. Nel periodo tra il Basso Medioevo e l’Età moderna, i fiumi, i laghi e i mari europei erano solcati da navi cariche di folli e di malati senza più speranze. La Stultifera navis era una sorta di prigione galleggiante dove vi erano rinchiusi i “diversi”. Un’anima-navicella abbandonata sul mare infinito dei desideri nella speranza che il soffio di Dio la conduca in porto. Un manicomio natante o un meccanismo di esclusione, per come potremmo intenderlo noi oggi”.

 

Si sente spesso dire che l'arte contemporanea è di difficile comprensione, bene, tu cosa ti aspetti dal tuo pubblico?

  • “La mostra di Fabrizio Cotognini è da leggere come un corpus unicum formato da arcipelaghi. In ogni opera d’arte, il suo porsi come forma e come organicità è testimonianza di una legge interna che la costituisce, più o meno rigidamente, e che possiamo chiamare “unità dell’opera d’arte”. Ogni parte è in relazione con il tutto con duplice funzione: di costruirlo e di esserne costituita, in una specie di movimento verso il centro, verso la Galleria dell’Eneide, l’opera d’arte diventa qualcosa di più di dei suoi elementi.Da parte del pubblico mi aspetto che capisca quanto è profondo il mare.”

 

 

Le foto scattate sono state realizzate dalla redattrice dell'articolo


CULTO E TRADIZIONI IN ONORE DI SANT’AGATA – II PARTE

A cura di Mery Scalisi

 

Le origini del culto di Sant'Agata

Forza nella fede in Dio, dignità dell’essere donna e sopportazione del martirio subito furono alla base della diffusione, in tutto il mondo, del culto e della devozione di Agata, il cui nome in lingua greca significa “buona”.

Sia l’Occidente che l’Oriente accolsero il culto di Sant’Agata proprio per la singolare condotta della giovane martire, che avrebbe rappresentato per i fedeli non solo un modello da seguire nella quotidiana vita cristiana, ma un aiuto contro le sciagure della vita.

A Catania, secondo la tradizione, la giovane martire Agata, invocata già dal Medioevo contro il pericolo del fuoco o come patrocinatrice della donna e del ruolo di madre, rivestì il ruolo di protettrice della città; ruolo, questo, affibbiatole dai suoi stessi concittadini ad un anno esatto dal suo martirio, quando la città stessa – si presume – venne liberata e salvata da una violenta colata lavica dell’Etna, durante la quale i cittadini in processione portarono il velo sacro della martire che ne ricopriva il sepolcro.

Tra gli altri eventi di rilievo che legano la figura di Agata alla protezione di Catania, ne vanno ricordati almeno due: un primo, risalente al 1236 e un secondo del 1886. Il primo episodio ebbe come sfondo gli scontri tra Federico II e la Chiesa che portarono alla distruzione della città. In quell’occasione il popolo catanese, scappato dalle guerriglie e rifugiato in cattedrale, si radunò in preghiera, e il sovrano svevo si ritrovò a leggere in un libro l’esortazione‘’Noli Offendere Patriam Agathae Quia Ultrix Iniuriarum Est’’ (fig.1) (non offendere la patria di Agata perché punisce le offese arrecate ad essa), che troviamo, assieme a M.S.S.H.D.E.P.L. (mente santa e spontanea, onore a Dio e liberazione della patria) nella facciata principale della cattedrale dedicata ad Agata stessa).

Fig. 1 - L'acronimo N.O.P.A.Q.V.I.E. sulla facciata della Cattedrale di Catania, 1736 foto di Giovanni Dall'Orto. Credits: Di G.dallorto - Opera propria, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=562997.

Il secondo avvenimento risale invece al 1886, quando un’altra colata lavica, feroce e inarrestabile, si fermò nel punto in cui l’arcivescovo Dusmet, nella zona di Nicolosi, posò simbolicamente il velo della Santa.

È altresì importante ricordare il duro colpo che la città di Catania ricevette nel 1040, anno in cui il corpo della santa venne trafugato dal condottiero bizantino Giorgio Maniace per essere traslato nella Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. Durante la famosa battaglia di Troina, che vedeva contrapposti l’esercito del condottiero musulmano Adb-Allah da una parte, e le guarnigioni di Giorgio Maniace dall’altra, proprio quest’ultimo, per restare nelle grazie dell’imperatore Michele IV Plaflagone, decise di destinargli le sacre reliquie di Santa Lucia di Siracusa e di Sant’Agata, Sant’Euplio e San Leone di Catania.

Fu solo nel 1126 che, grazie ai due soldati Gisliberto e Goselmo, le spoglie di Sant’Agata vennero riconsegnate al vescovo di Catania. Prima della riconsegna, però, tradizione vuole che la Santa fosse apparsa in sogno ad uno dei due soldati, a cui espresse la chiara volontà di tornare nella sua città. Il rientro delle reliquie, presso il Castello di Aci (l'odierna Aci Castello) avvenne il 17 agosto e in quella giornata i cittadini marciarono in processione, passando anche lungo il quartiere del Rotolo, dove oggi è possibile, al centro della rotonda, ammirare una lapide votiva che guarda al lungomare ricordando proprio il momento (fig.2 e 3).

 

Dalle prime forme di festa in onore della Santa Patrona

Se col termine festa vogliamo ricordare la funzione liturgica stessa è indubbio che una forma di culto si svolse già subito dopo il martirio della giovane; i numerosi devoti alla Santa si recarono fin dai primi tempi in quello che fu a tutti gli effetti definito luogo di culto in onore di Sant’Agata, nel sottosuolo dell’attuale via Androne; un luogo di culto per i martiri a tutti gli effetti, che prendeva il nome di martirium e che nel suo complesso si presentava come una sorta di cimitero paleo-cristiano.

Col dominio islamico, però, durato 170 anni, venne cancellata qualunque traccia legata alle testimonianze cristiane, quindi anche il culto in onore di Agata; il culto della religione cristiana, in epoca islamica, infatti, era vietato in pubblico e consentito in privato ma solo previo pagamento di una tassa.

Le documentazioni ci raccontano che una prima forma di festa potrebbe avere avuto origine nel periodo successivo alla venuta dei Normanni, intorno al 1126, quando le reliquie furono riconsegnate alla città di Catania e Ruggero il Normanno s’impegnò nel far riedificare l’attuale edificio destinato a Cattedrale, perso durante la dominazione islamica.

Per le prime testimonianze sulla festa vera e propria fu necessario attendere il 1500, quando il Gran Cerimoniere Alvaro Paternò ne riportò una descrizione nel suo Cerimoniale, raccontando la festa del 3 e del 4 febbraio, ricorrenza legata al martirio della Santa catanese.

Secondo la sua descrizione il 3 febbraio si svolgeva una lunga processione con luminarie, l’offerta della cera alla Patrona in segno di devozione, e carri allegorici, a cui prendevano parte tutti i catanesi; il 4 invece era il giorno dedicato al giro esterno della Santa, mentre il 5 si svolgeva una celebrazione liturgica solo in cattedrale, con l’esposizione  del busto e delle reliquie, custodite nel sacrario, sull’altare maggiore; dal 1844 il percorso esterno della santa venne continuato anche il 5 e in quel caso la processione arrivava fino alla Porta di Aci, per far poi ritorno in Chiesa.

I festeggiamenti, però, iniziavano già dal 1° di febbraio, con una fiera fra commercianti e consumatori della Sicilia; il 2 mattina le autorità cittadine si recavano nel Palazzo Vescovile e accompagnavano il vescovo in Cattedrale per partecipare alla benedizione delle candele, alla processione e alla messa solenne. La conclusione della festa era prevista per il 12, con l’ottava, durante la quale si ripetevano per sommi capi gli stessi riti, con una processione del busto all’interno della Cattedrale prima del suo ricollocamento nel sacrario. Il 17 agosto, poi, si celebrava il ritorno delle reliquie da Costantinopoli.

Oggi, tra le feste religiose cattoliche più seguite, proprio per il numero di persone che coinvolge e attira, il cuore della festa resta nel periodo che va dal 3 al 5 di febbraio, anche se già a metà gennaio la città inizia a respirare aria di festa con un’antica tradizione legata alle cosiddette cannalori (“cerei” o “candelore”) (fig. 4, 5 e 6). Esse si presentano come veri e propri carri allegorici e rappresentano le corporazioni delle arti e dei mestieri tipici della città; sono grosse costruzioni, il cui peso oscilla fra i 400 ed i 900 chili, scolpite e dorate in superficie, che riprendono lo stile del barocco siciliano; all’interno di questi carri, che vengono portati a spalla da un gruppo di uomini (il numero varia da 4 a 12) che seguono un’andatura detta “a ‘nnacata”, si trova un grosso cero votivo. Il 3 febbraio si aprono i festeggiamenti agatini con la processione, alla quale prendono parte le più alte cariche religiose ed istituzionali della città, e si concludono la sera, in Piazza Duomo con lo spettacolo pirotecnico detto ‘’I fuochi da sira o’ tri’’ (i fuochi della sera del 3) (fig. 7).

Il 4 febbraio, in mattinata, si inizia con la messa dell’Aurora, durante la quale il busto reliquiario (fig.8 e 9) esce dal sacrario e viene ‘’donato’’ ai suoi devoti che lo portano in processione con un giro esterno della città che si conclude, in tarda notte o alle prime luci dell’alba, con il rientro in Cattedrale.

La mattina del 5 febbraio, poi, in Cattedrale si svolge il Pontificale; in questa occasione il busto reliquiario rimane esposto fino al pomeriggio, quando viene nuovamente portato in processione dai devoti, con un giro interno della città (fig.10) che termina nella tarda mattinata del giorno successivo, il 6 febbraio.

Fig. 10 - Processione del 5 febbraio.

Suggestivo il grido di fede dei devoti durante la processione, che, agitando fazzoletti bianchi per accogliere l’uscita della Santa e accompagnarla lungo tutta la processione, esultano con: cittadini, cittadini, semu tutti devoti tutti, cittadini, viva sant’Agata (fig. 11 e 12).

 

 

Curiosità

Tra le numerose curiosità legate alla tradizionale festa dedicata ‘a Santuzza (così comunemente chiamata dai suoi devoti), possiamo citarne due: quella del sacco bianco (fig. 12), indossato dai devoti durante i giorni di festa e quella dei dolci alla Santa dedicati, fra i tanti le Minnuzze di Sant’Agata.

Riguardo al sacco la leggenda racconta che esso si riferisca alla camicia da notte che i devoti avrebbero indossato durante la notte di rientro delle reliquie in città, ma in realtà le camicie da notte fecero la loro comparsa nelle case aristocratiche solo nella Francia del 1800.

Il sacco, che oggi vediamo indossato dai fedeli, comincia ad essere documentato a Catania all’inizio del 1500, da Alvaro Paternò; egli testimonia che all’epoca erano i nudi (cioè delle persone che indossavano un semplice perizoma) a portare la santa, ma che ben presto a causa del freddo si cominciarono a vestire usando queste lunghe tuniche bianche. I nudi allora scomparvero e si affermò l’usanza del sacco bianco che, secondo la cultura cristiana, rappresenta la purezza, virtù di cui la stessa giovane Agata fu degna rappresentante.

Le Minnuzze di Sant’Agata (fig.13), invece, si presentano come un piccolo dolce bianco, tondo, dalla forma inconfondibile e legato alla devozione per la Santa. Una vera e propria cassatella fatta con farina, burro, zucchero a velo e ripiena di ricotta, arancia candita, cioccolato fondente e finemente ricoperta di glassa bianca, finita con una ciliegia candita in cima, che vuole rievocare il martirio subito dalla giovane Agata, riprendendone la forma dei seni che le furono recisi crudelmente con delle tenaglie. Un dolce dal valore fortemente simbolico che nel gusto lascia il sapore della fede.

Fig. 13 - Il tipico sacco bianco dei devoti di Sant'Agata. Fonte: https://catania.liveuniversity.it/2021/01/26/festa-di-santagata-catania-2021/  foto di Salvo Puccio.
Fig. 14 - Le Minnuzze di Sant'Agata.

 

 

Le figure 4, 5, 6, 7, 10, 14 sono di proprietà della redattrice Mery Scalisi

 

 

Bibliografia

Gaetano Zito, S. Agata da Catania, Bergamo, VELAR, 2004.

Vittorio Peri, AGATA la santa di Catania, Bergamo, VELAR, 1996.

AA.VV., Agata santa Storia, arte, devozione, Firenze, Giunti, 2008.

Antonio Tempio, Agata cristiana e martire nella Catania Romana La vita, gli oggetti e i luoghi di culto, Catania, Giuseppe Maimone, 2017.

Silvia Boemi per Sicilia Magazine, A Catania ‘a Santuzza e ‘u Nannu, singolare commistione di sacro e profano

 

Sitografia

https://www.italiamedievale.org/portale/agata-vergine-martire-storia-devozione-culto/