LA FONTANA DEL NETTUNO E ALTRE FONTI DELLA CITTÀ DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

La scelta di porre l’attenzione sulla Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento è stata favorita dal recente restauro che ha riportato alla luce l’antico splendore del monumento. Ma non è l’unica fontana che rinfresca i cittadini di Trento, nelle afose giornate d’estate, altre fonti sono sparse per la città, le più singolari le vedremo in questo contributo.

 

Fontana del Nettuno

 

 

Magnificum hunc fontem

cum acquarum perpetuo cursu,

desperantibus omnibus,

Franciscus An[tonius] Iongo tri[dentin]us fecit.

 

Questa è la frase che è stata scolpita sul fusto della fontana ad indicare l’autore dell’opera, Francesco Antonio Giongo, ma anche la data «MDCCLXVIII» (1768) e «SPQT» (Senatus Popolusque Tridenti). Una frase di augurio affinché da questa grande fonte possa sgorgare acqua in eterno: acqua segno di vita all’interno della città. L’idea di sistemare una fontana nel centro partì proprio dal bisogno di rifornire i cittadini di acqua corrente, sana e di sorgente, dato che fino ad allora l’approvvigionamento avveniva tramite pozzi.

 

La scelta di costruire una fontana nella piazza principale della città fu ordinata dal Magistrato Consolare di Trento nel 1767, all’interno di un ampio progetto di riqualificazione urbana che mirava a dare nuovo splendore al centro cittadino. La progettazione e la realizzazione fu affidata allo scultore e architetto trentino Francesco Antonio Giongo di Lavarone (1723-1776)[1] che realizzò il progetto e scolpì vasche e fusto, mentre Stefano Salterio da Como (1730-1806) scolpì la statua del Nettuno e gli altri gruppi scultorei. La fontana è stata ultimata nell’arco di un anno, nell’ottobre del 1768, e l’acqua è stata portata alla fonte solo nell’anno successivo, l’8 luglio del 1769, dopo una complessa opera di canalizzazione delle acque di sorgente e del torrente Fersina[2]. La fontana è stata costruita tra Piazza Duomo e l’imbocco di Via Belenzani, la principale via di collegamento con il centro, per dare unità spaziale alla piazza e spezzare il conoide di via Belenzani[3].

Il Nettuno è rappresentato in piedi in tutta la sua imponenza e fierezza è accompagnato dal tridente che può essere considerato il simbolo della città. Il tridente che porta nella mano sinistra rappresenterebbe l’antico nome della città, Tridentum, ovvero il nome dato dai romani quando si insediarono tra i tre denti della piana dell’Adige, cioè i tre colli del Verruca (oggi Doss Trento), di Sant’Agata e di San Rocco.

 

La fontana è divisa su tre piani sistemati lungo un fusto che ricorda la forma di un albero e sulla cui vetta il Dio Nettuno è coronato con il tridente. Il Dio cavalca tre delfini, le cui code sono avvolte nelle gambe del Dio Nettuno e dalle loro bocche si riversano zampilli di acqua in una vasca rotonda sagomata, ricavata in un calcare di rosso ammonitico proveniente da cave trentine, di tre metri di diametro. Questa vasca appoggia sulla sommità del fusto che si innalza al centro di una grande vasca formata da otto catini, quattro dei quali a forma di tinozza e gli altri a forma di conchiglia. Da ogni catino altre quattro divinità mitologiche gettano acqua nella grande vasca: due tritoni su cavalli marini e due tritoni con in mano un pesce e un vaso. Nel piano intermedio del fusto, appoggiati su quattro mensole, altri due tritoni e due delfini mitologici cavalcati da putti lanciano dalle loro bocche zampilli d’acqua nella grande vasca.

 

Tutta la costruzione, alta oltre 12 metri, appoggia su una scalinata poligonale che una trentina di anni fa era cinta da un festone di catene sostenuto da pilastrini di pietra bianca. Oggi la fontana è accessibile al pubblico ed è il principale luogo di ritrovo nel centro della città di Trento.

Nel 1871 sono stati sostituti tutti i gruppi scultorei della fontana per opera dello scultore trentino Andrea Malfatti (1832-1917) e del pittore Ferdinando Bassi (1819-1883) che studiò le forme e i disegni originali della fontana. Invece la statua in pietra del Nettuno è stata sostituita da una in bronzo, nel 1945, per il cattivo stato di conservazione della statua. L’originale si trova oggi nel cortile del comune di Trento in Palazzo Thun.

 

 

Fontana dell’aquila

 

 

Sempre all’interno di Piazza Duomo, sull’angolo di Casa Rella, un’altra fonte rinfresca i cittadini di Trento durante le giornate estive e primaverili della città: è la Fontana dell’aquila che reca sulla cima del pilastro da cui sgorga l’acqua, l’aquila simbolo di Trento, ovvero l’aquila di San Venceslao.

La fontana fu progettata dall'ingegnere Pietro Leonardi, ma fu portata a termine nel 1850 dallo scalpellino di Trento Stefano Varner (1811-1887). La Fontana dell’aquila ha una vasca di forma ovale e una colonna ha base fogliata al di sopra della quale è sistemata l’aquila intenta a spiumacciarsi. L’ugello da cui sgorga l’acqua è circondato da una corolla di foglie e dalla bocca di una testa leonina fuoriesce l’acqua.

Una curiosa leggenda legata all’aquila della fontana racconta che un uomo di Sardagna (frazione di Trento) venne condannato ingiustamente a morte e condotto alle prigioni della Torre Civica in Piazza Duomo per essere portato al patibolo. Qui vide un’aquila che voleva sulla Torre e disse alla sua vista che se era innocente l’aquila sarebbe diventata di pietra. L’aquila si tramutò in pietra e l’uomo venne liberato; da allora l’aquila è nel luogo dove si posò, ovvero sulla fontanella di Piazza Duomo.

 

Fontana dei “do’ castradi”

 

Fig. 10 – Piazza delle Erbe a Trento, Fontana dei “do’ castradi”. Credits: Di Chryspa - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62937776.

 

In Piazza delle Erbe, nel centro di Trento è collocata la fontana chiamata volgarmente dei “do’ castradi” poiché l’acqua esce dalle teste di due arieti in bronzo. La fontana è stata disegnata dall'ingegnere Saverio Tamanini ed è stata realizzata nel 1867 dallo scultore Stefano Varner (1811-1887).

Il basamento in pietra ha una pianta mistilinea e sulla sommità due conchiglie in bronzo accolgono l’acqua dei “do’ castradi”. Le teste dei due arieti sono sistemate su una colonna in pietra a base quadrata, decorata sugli altri due lati da due teste femminee. Sulla sommità della colonna è sistemata una statua in bronzo copia di un’opera di Andrea Malfatti (1832-1917) che raffigura una donna inginocchiata accanto ad un serpente.

 

Fontana di Bacco

 

La fontana di Piazza Pasi, sempre nel centro cittadino è decorata da una pregevole opera scultorea che raffigura il Dio Bacco dello scultore Andrea Malfatti (1832-1917). È stata realizzata nel XIX secolo ed è stata sistemata in un angolo della piazza; è un’opera di pregevole bellezza che emerge tra le case che circondano la piazzetta.

Il Bacco è stato scolpito nella pietra bianca e la vasca della fontana ha la forma di una coppa circolare, baccellata, che è stata sistemata su un piedistallo ottagonale appoggiato su una basa rialzata a due gradini. Al centro della coppa è collocata la statua del giovane Bacco scolpito su di una roccia, vestito con pelle leonina che gli cinge la vita, sostenuta da una cinghia, porta in testa un festone di vite e in mano un otre dal quale sgorga l’acqua nella coppa. Tutti elementi che richiamano in maniera sintetica e artistica la sua classica iconografia.

 

Fontana dei delfini

 

 

La fontana dei delfini situata verso la periferia di Trento, di fronte alla chiesa sconsacrata di S. Croce, in Corso 3 Novembre. È una fonte che passa inosservata alla gente di passaggio, ma meriterebbe la giusta considerazione per la particolarità delle sue forme artistiche: una vasca ellissoidale baccellata e la  colonna da cui esce l’acqua è a pianta quadrilobata sormontata da un cesto di frutti. Gli ugelli escono dalle teste di tre delfini, scolpiti sui tre lati della colonna, che sono stati eseguiti con grande maestria e attenzione del dettaglio. La fontana risale al XIX secolo.

 

Fontana in Piazza Diego Lainez

 

 

La fontana in Piazza Diego Lainez, nei pressi del centro cittadino è qui ricordata perché ritorna il simbolo della città, ovvero il tridente. Eseguita nel XIX secolo, è stata sistemata sul muro che fronteggia l’abside della chiesa di Santa Maria Maggiore a Trento. È in marmo bianco, dalle forme semplici, ma eleganti e ben eseguite. È qui segnalata per il tridente scolpito sulla sommità dello specchio della fontana, all’interno di una conchiglia, elemento che riprende il simbolo della città, il tridente del Dio Nettuno.

 

Fontana di Piazza Venezia

Fig. 14 – Piazza Venezia a Trento, Fontana dei cavalli. Fonte: https://spazicomuni.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Altri-siti-di-interesse-turistico/Fontana-dei-Cavalli.

 

In ultimo voglio ricordare una fontana dell’era moderna, ovvero la fontana di Piazza Venezia celebre agli automobilisti che dal centro si recano sulle colline o si spostano verso il sud della città.

L’opera è meglio conosciuta come “lavamàn del sindaco” per la sua grande forma a catino e la grande statua dei cavalli.

La fontana è una grande vasca in pietra con 150 getti sistemati lungo il perimetro che spruzzano l’acqua verso il centro con la statua in bronzo di due cavalli stilizzati. I cavalli sono opera dello scultore trentino Eraldo Fozzer (1908-1995) che sistemò la statua nel 1983, in sostituzione di un’altra sua opera raffigurante i corpi nudi di due Naiadi, le ninfe dell'acqua portatrici di fecondità. Le loro nudità furono oggetto di molte proteste che per cui vennero sostituite dall’attuale statua dei cavalli. La fontana è stata realizzata nel 1954 e nel 1956 è stata sistemata la prima scultura di Eraldo Fozzer, poi sostituita dall’attuale.

 

In questo contributo sono state descritte le fontane artisticamente particolari, ma molte altre sono disseminate tra le vie e le piazze della città che nella loro semplicità costituiscono un pezzo della storia e dell’arte di Trento.

 

 

Note

[1] Francesco Antonio Giongo nacque a Lavarone nel 1723 e morì a Trento nel 1776, studiò disegno e pittura a Trento e realizzò diverse opere scultoree nelle chiese trentine, ma la sua opera più famosa rimane la Fontana del Nettuno in Piazza Duomo a Trento.

[2] Oggi la fontana è alimentata dall'acquedotto cittadino attraverso un sistema a ricircolo  che filtra e decalcifica l’acqua; un sistema che è stato introdotto nei restauri del 1989-1990.

[3] È importante il significato urbanistico di questa fontana, sistemata sugli assi prospettici di via Belenzani, via Cavour, via Verdi di Trento che si incrociano nello spazio di Piazza Duomo. La fontana si interpone fra il protiro della facciata settentrionale del Duomo di Trento e l’ingresso di via Belenzani, abolendo del tutto il rapporto diretto fra la strada e la Cattedrale di San Vigilio. Inoltre la statua del Nettuno, rivolta verso via Belenzani, guarda verso la mano tesa della statua di San Francesco Saverio, posta in fondo alla via, sulla chiesa omonima, creando così lungo via Belenzani una fuga prospettica bidirezionale fra i due poli visivi. (Bocchi Oradini 1989)

 

 

Bibliografia

Bocchi Renato, Oradini Carlo, Trento, Roma, Bari, Laterza, 1989

Bocchi Renato, Trento. Interpretazione della città, Trento, Saturnia, 1989

Mayr Anna, Le fontane di Trento, Trento, Publiprint, 1989

Pancheri Roberto, La fontana del Nettuno. Salute e decoro della città, Trento, Temi, 2004

 

Sitografia

https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Conoscere


IL "FIORUCCI WALLS" DI KEITH HARING

A cura di Gianmarco Gronchi

 

La storia di Keith Haring è legata all’Italia più di quanto si possa immaginare. In Italia si trova una delle sue ultime grandi opere pubbliche, il grande murales Tuttomondo a Pisa, datato 1989. È in Italia, precisamente a Bologna nel 1983, che va in scena una delle mostre temporanee che segnano la diffusione del graffitismo anche in Europa, ovvero Arte di frontiera. Oltre a questo però c’è altro. Milano, infatti, è una delle città italiane che meglio ha saputo accogliere il genio creativo del writer statunitense. Come abbiamo cercato di spiegare in un precedente appuntamento, il rapporto di Haring con il capoluogo lombardo è stato intenso quanto, purtroppo, oggi dimenticato. Ma se ogni tanto si ha la fortuna di riscoprire qualcosa di quel rapporto ingiustamente sepolto dall’incuria del tempo, come è successo a Giulio Dalvit in via Laghetto, spesso è compito dello storico dell’arte andare a ricostruire ciò che è stato basandosi solo su memorie e fonti d’archivio.

 

Parlare di Haring a Milano vuol dire parlare anche di un personaggio che in quella città è nato e che è riuscita a metterla sulle mappe delle capitali del mondo a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ovvero Elio Fiorucci. Personaggio complesso Elio Fiorucci. Indagare la sua storia significa ripercorrere trent’anni di storia del costume, ma non solo. L’importanza di Fiorucci va ben oltre la sua attività legata al mondo della moda. Basti pensare ai suoi negozi, veri melting pot culturali in cui la nebbia meneghina si diradava per aprire una finestra su quanto accadeva oltreoceano. Non stilista, non designer, ma personaggio per cui il capo d’abbigliamento strictu sensu era solo uno delle molteplici esperienze che gravitavano intorno al mondo della moda. Fiorucci è stato davvero un creativo a 360°, capace di far convivere sotto lo stesso nome personaggi come Ettore Sottsass, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Alessandro Mendini, Oliviero Toscani, Andy Warhol, Colette, Klaus Nomi, e molti altri.

 

Per tornare alla questione principale, si ricorda che l’incontro tra Fiorucci e Keith Haring risale alla fine degli anni Settanta. Nel 1976 Fiorucci apre il suo negozio a New York, che diventa subito punto d’incontro per artisti del calibro di Andy Warhol. Haring, che frequentava la Factory di Warhol, entra così in contratto con Tito Pastore, collaboratore di Fiorucci, che qualche anno dopo propone a Elio di invitare l’ormai già affermato writer a Milano. L’invito si concretizza nel 1983, quando Fiorucci ha l’idea affidare la decorazione del suo negozio storico, aperto nel 1967 in galleria Passarella, proprio all’artista americano. Sulle prime Haring è scettico, ma la mediazione di Warhol, suo padrino artistico, lo convince a partire per l’Italia, per la cifra simbolica di 10.000 lire.

Fiorucci, per l’occasione, svuota completamente il suo negozio e lo consegna al genio creativo di Haring, coadiuvato dal giovanissimo Angel “L.A. II” Ortiz. Quello che va in scena nell’ottobre del 1983 è una due giorni non-stop di performance creativa svincolata da ogni regola e all’insegna della più sfrenata creatività. Fiorucci lascia aperto il negozio, affinché ognuno possa entrare a vedere l’artista all’opera. L’evento artistico diventa una grande festa, con un dj che mette la musica e Haring che disegna cagnolini e lascia la sua traccia sulle maglie e sulle borse degli avventori. Il negozio viene interamente ricoperto dai graffiti dei due writers americani, in una sorta di horror vacui giocoso e creativo, che segna il connubio perfetto tra uno dei campioni dell’arte del secondo Novecento e una delle menti più brillanti della moda italiana. Muri, camerini, porte e banconi vengono sommersi dalle linee fluide e guizzanti di Haring e Angel Ortiz. Questo evento è singolare, perché qualche anno dopo Haring riproporrà la stessa modalità operativa per i suoi Pop Shop, aperti a New York e Tokyo rispettivamente nel 1986 e nel 1988. La decorazione d’interni dei Pop Shop ha certamente delle tangenze con il lavoro svolto per Fiorucci, che evidenzia come per Haring decorare un ambiente chiusi significhi sostanzialmente invaderlo con i suoi disegni. Si crede che lo scopo sia quello di sostituire l’architettura con la propria arte, al fine di creare un ambiente omogeneo in cui non c’è distinzione tra le pareti e i complementi d’arredo. D’altronde, questo risponde alla filosofia artistica del writer americano, che vedeva nell’arte un mezzo per comunicare con pubblico quanto più vasto possibile, attraverso l’appropriazione di qualsiasi tipo di spazio come supporto per i suoi disegni.

La performance artistica ben sintetizza le peculiarità di Haring e di Fiorucci. Il primo, attraverso l’intervento nel negozio milanese, afferma ancora una volta la sua idea di un’arte giocosa, libera, non elitaria e democratica. Il secondo, invece, fa mostra ancora una volta di quella sua propensione verso la sperimentazione, la contaminazione tra arti ed esperienze diverse, all’insegna di una creatività che precorre i tempi senza alcuna pregiudiziale di sorta.

 

I graffiti di Keith Haring sono rimasti all’interno del negozio di Galleria Passarella per più di dieci anni. Alcune foto mostrano come i clienti di Fiorucci potessero camminare tra gli stend di vestiti, addossati alle opere di Haring, senza alcun tipo di limitazione. Una cosa che oggi da una parte fa sorridere e dall’altra lascia sconcertati. Niente però a confronto delle reazioni che si potrebbero avere nel sapere la fine di queste opere. Verso la metà degli anni Novanta, quando il marchio era già stato acquisito dalla multinazionale Edwin International, lo storico negozio Fiorucci di Galleria Passarella viene sottoposto a una ristrutturazione. I murales di Haring vengono coperti e i pannelli dei banconi e dei camerini staccati e venduti all’asta, causandone la dispersione. Agli inizi degli anni Duemila il negozio verrà venduto al colosso H&M. Dell’epopea di Fiorucci e dell’arte di Haring non rimane niente se non alcune fotografie e i ricordi di chi quegli anni li ha vissuti. D’altronde, nell’epoca dell’ipermodernità, per usare una definizione di Lipovetsky, pare non ci sia modo di sfuggire alle leggi del capitalismo selvaggio. La prossima volta però che passerete in San Babila, guardate per un attimo gli spazi oggi occupati da Urban Outfitters e provate a immaginare cosa volesse dire acquistare circondati dalle opere di Haring. Vi renderete conto di quanto purtroppo abbiamo perso. Che possa almeno essere un monito per il futuro.

 

 

 

 

Si ringrazia l'Archivio Elio Fiorucci per la concessione delle foto presenti all'interno dell'articolo.

 

Bibliografia

Guarnaccia M., Elio Fiorucci, Milano, 24 Ore Cultura, 2016.

Marabelli F., Caro Elio. Un viaggio fantastico nel mondo di Fiorucci, Milano, Electa, 2020.

Malossi G., Liberi tutti. 20 anni di moda spettacolo, Milano, Mondadori, 1987.

Epoca Fiorucci, catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna, 23 giugno 2018 – 6 gennaio 2019), a c. di Gabriella Belli, Aldo Colonetti con Elisabetta Barisoni, Venezia, Consorzio Museum Musei, 2018.

 

Sitografia

https://www.youtube.com/watch?v=F5CdqWZ4wZ0


LA CHIESA DEL SANTISSIMO CROCIFISSO A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

 

La chiesa del Santissimo Crocifisso di Salerno è ubicata all’inizio di Via Mercanti, tra la fine del moderno corso cittadino e l’inizio del centro storico.

Non si hanno notizie certe della chiesa fino a circa il XIII secolo, tuttavia, secondo la tradizione, sarebbe stata fondata in epoca longobarda da un nipote dell’Imperatore Costantino. La sua denominazione originaria era chiesa di Santa Maria della Pietà Portanova”, in quanto annessa al monastero femminile “delle Clarisse di Santa Maria de Pietate” e per la sua vicinanza all’originaria porta della città, chiamata, appunto, Portanova. Successivamente associata al monastero di San Benedetto, fu ridedicata al SS. Crocifisso nel 1879, quando ospitò per un periodo un crocifisso ligneo del XIII sec. legato alla leggenda del mago e alchimista salernitano Pietro Barliario, oggi custodito nel Museo Diocesano cittadino.

 

La leggenda del crocifisso miracoloso

Secondo la leggenda, Pietro Barliario sin dalla gioventù nutrì una grande passione per le arti magiche e la medicina. Grazie a un patto con il diavolo divenne un potente stregone, capace di compiere opere straordinarie, come la costruzione, in una sola notte di tempesta e con l’aiuto dei demoni, dell’acquedotto medioevale della città, tuttora esistente. Un giorno i suoi due amati nipoti, Fortunato e Secondino, rimasti soli nel suo laboratorio, mentre giocavano rimasero uccisi da sostanze velenose o per lo spavento legato alle immagini o alle formule di un libro di magia. Barliario, sopraffatto dal rimorso e dalla disperazione, chiese perdono al crocifisso presente sull’altare della chiesa di San Benedetto, il quale, dopo tre giorni e tre notti di preghiera, chinò miracolosamente il capo in segno di perdono verso il mago. Da questo episodio, che attirò in città tantissimi pellegrini e curiosi, nacque la cosiddetta Fiera del Crocifisso”, che ancora oggi si svolge durante i quattro venerdì di Quaresima.

Il crocifisso, nonostante sia stato visibilmente danneggiato da un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo e severo e due grandi occhi, profondi e penetranti, che sembrano fissare lo spettatore.

 

 

Gli spazi esterni della chiesa

 

La chiesa si affaccia su una piazzetta ricavata dalla demolizione di caseggiati fatiscenti alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, periodo a cui risale anche la facciata in stile barocco, poi rifatta dopo la terribile alluvione del 1956. Oggi è presente una semplice e moderna facciata, con tetto a spiovente, scandita ritmicamente in alto da sette monofore e da un oculo centrale, e con tre portali d’ingresso che corrispondono alla suddivisione interna in tre navate. Sulla destra svetta il campanile quadrangolare percorso verticalmente da strette finestre e alleggerito in alto da dieci monofore in corrispondenza della cella campanaria. All’esterno, la parete lungo via Mercanti mostra ancora alcune tracce dell’edificio originario, quali un portale in pietra, che costituiva un antico accesso laterale alla chiesa, e una bifora in stucco, oggi entrambi murati. La bifora è divisa in due scomparti da un architrave: la parte superiore risente di una chiara influenza arabeggiante, sia per la forma ogivale che per il motivo decorativo finemente traforato, caratterizzato da un’alternanza di croci e stelle a otto punte. Nell’ordine inferiore, invece, la bifora è divisa in due da una colonnina centrale, mentre altre due colonnine laterali sorreggono l’ogiva, delimitata da una fascia su cui sono parzialmente visibili sette scudi, stemmi di famiglie nobiliari. Attualmente si distingue solo l’insegna a sinistra, a bande orizzontali bianche e rosse, appartenente alla famiglia Carafa.

 

Gli spazi interni della chiesa

La chiesa presenta internamente una pianta basilicale, con tre navate e tre absidi semicircolari. Le navate sono divise da due file di arcate a tutto sesto sorrette da sei colonne e capitelli di spoglio, provenienti da edifici di epoca romana, come la prima colonna a sinistra che presenta una decorazione in rilievo a spirale. La navata centrale, più alta, è illuminata da monofore e coperta da capriate lignee, mentre quelle laterali sono coperte da volte a crociera.

 

 

L’abside centrale è decorata con un mosaico moderno risalente al 1961, opera di maestranze ravennati, che riproduce l’affresco originario della Crocifissione situato nella cripta.

Nell’abside destra, al di sotto dell’altare, sono presenti affreschi tardomanieristi del XVI-XVII secolo, raffiguranti i Santi martiri Paolina Vergine, Clemente e Cassiano che recano con sé la palma, simbolo di martirio, e che circondano la teca che custodisce le loro reliquie.

 

La cripta

Dalla navata destra, tramite una piccola scala, si accede alla cripta, riferibile a una chiesa anteriore all’anno Mille e su cui sono state innalzate le fondamenta dell’attuale. Scoperta solo in epoca recente, negli anni ’50 del ‘900, ha una planimetria, anche se di dimensione ridotte, che ricalca quella della chiesa superiore, con tre navate separate da due archi con volte a crociera sorretti da pilastri che inglobano colonne romane di spoglio, chiuse da absidi semicircolari.

Nell’abside centrale è collocato un altare in travertino che riproduce quello originale ma giunto a noi frammentario.

 

Gli affreschi

Sulla parete occidentale, di fronte all’abside centrale, si staglia il grande affresco raffigurante la Crocifissione, databile tra il XIII e XIV secolo, che costituisce un interessante esempio Cristo Patiens, contrariamente al Cristo Triumphans del Barliario. In epoca romanica si afferma l’uso delle tavole dipinte aventi per soggetto principale il tema della Crocifissione, con la figura centrale di Cristo nell’atto del supremo sacrificio, alle cui estremità, orizzontali o verticali, sono raffigurati alcuni personaggi, come la madre Maria e l’apostolo ed evangelista Giovanni, o storie della vita di Gesù. Una prima tipologia di croce dipinta che si afferma è quella del Christus triumphans, secondo l’iconografia bizantina giunta in Occidente attraverso gli avori carolingi. Cristo è rappresentato trionfante, vincitore sulla morte, con il corpo eretto, privo dei segni della passione, e con gli occhi aperti, una figura solenne e maestosa che ne evidenzia la natura divina. Tra la fine del XII secolo e gli inizi successivo, si afferma, invece, la tipologia del Christus patiens. L’affresco della cripta è delimitato in alto da una grande cornice dipinta, in basso da un panneggio stilizzato a grosse fasce oblique. Il fulcro della composizione è costituita dall’immagine centrale di Cristo che divide simmetricamente la scena in due parti. Egli è rappresentato con la testa reclinata, gli occhi chiusi, il corpo abbandonato nella sofferenza e nella morte, una figura profondamente umanizzata e più vicina alla sensibilità e al coinvolgimento emotivo dei fedeli e che meglio permette di comprendere il Suo amore e il Suo sacrificio estremo per l’umanità. Sulla sinistra è presente il gruppo delle pie donne, dai volti addolorati, che sorreggono la Vergine accasciata e con le braccia protese verso il Figlio, mentre sulla destra, l’immagine deteriorata di S. Giovanni è affiancata da due figure maschili, probabilmente Giovanni d’Arimatea e Nicodemo, secondo i Vangeli. È presente un tentativo di resa prospettica della composizione attraverso le dimensioni minori di alcuni personaggi dipinti, a voler indicare la sovrapposizione di piani diversi su cui si articola la scena. Ai lati della croce sono ritratti i soldati, come Longino che trafigge il costato di Cristo, mentre nella parte superiore sono presenti quattro angeli, due in adorazione e due che raccolgono nelle coppe il sangue di Cristo che fuoriesce dalle mani e dal costato.

 

Nell’abside di destra un altro affresco raffigura un trittico di Santi inquadrati in archi a tutto sesto e separati da eleganti colonnine tortili: San Sisto Papa al centro, riconoscibile per l’abito e i paramenti liturgici, San Lorenzo a sinistra e un altro Santo pellegrino a destra. In entrambi gli affreschi sono purtroppo eventi le tracce di umidità e dominano le tonalità dei colori rossi, bianchi, gialli, bruni, che risaltano sui fondali scuri.

 

 

Bibliografia

Adorno P. e Mastrangelo A., Arte correnti e artisti, Casa editrice G. D’Anna 1998

 

Sitografia

La leggenda di Pietro Barlario, mago salernitano in www.irno24.it

www.lifeinsalerno.com

www.livesalerno.com

Mago Barliario a Salerno e la sua incredibile storia in www.salernodavedere.it


LA CHIESA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA A RAVENNA

A cura di Francesca Strada

 

 

Uscendo dalla stazione di Ravenna e proseguendo per Viale Farini vi capiterà di vedere una chiesa che sembra trovare una dimensione tutta sua, fuori dal tempo, tra le case e i negozi moderni di una delle strade più trafficate della città. È un luogo la cui vista trasmette immediatamente un senso di pace ed equilibrio, ricordando quasi un locus ameno. Si tratta della chiesa di San Giovanni Evangelista, o dei santi Nicandro e Marciano; l’anno della sua costruzione, risalente al 425 d.C., rende l’edificio il luogo di culto cristiano più antico di Ravenna. Nonostante i secoli, le intemperie e la guerra, la chiesa è ancora lì per sorprenderci con il suo fascino e per narrare un passato ormai lontano, che non smette mai di incuriosirci e stupirci.

 

La chiesa venne costruita per volere dell’imperatrice Galla Placidia, in seguito a un voto fatto all’Evangelista, in cambio della sopravvivenza al viaggio da Costantinopoli a Ravenna; il santo, infatti, veniva venerato come protettore dei navigatori. Giunta a Ravenna, Galla Placidia mantenne fede al suo voto e fece erigere lo splendido monumento. L’attuale aspetto dell’edificio è frutto di un attento restauro in seguito ai bombardamenti alleati nel 1944, che danneggiarono gravemente la struttura e l’abside, lasciando però in piedi il campanile, la cui vetta raggiunge i 42 metri.

 

 

A seguito di questo evento andarono perse le decorazioni a mosaico presenti nell’abside; tuttavia, possiamo oggi ammirare sulle pareti laterali i resti di una pavimentazione a mosaico del XIII secolo, voluta dall’abate Guglielmo, raffigurante la storia d’amore tra una giovane e un crociato, accompagnata da piante e animali.  Tra essi spiccano il lupo e il cervo, che rappresentano rispettivamente il demonio e l’anima purgante; la sirena tentatrice, come monito a non seguire le tentazioni, che portano l’uomo alla rovina; il grifone, che nel suo essere tanto terrestre quanto celeste raffigura Cristo stesso; i pesci, chiaro riferimento all’acrostico “Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr” = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Inoltre, la IV crociata, bandita da papa Innocenzo III per contrapporsi alla politica espansionistica del sultano egiziano, è un tema ricorrente nelle opere dell’epoca.

 

 

La decorazione esterna

Un contributo per la decorazione esterna della chiesa deriva dalla nobiltà cittadina. Infatti, a Lamberto da Polenta, signore di Ravenna, sopraggiunse la morte nel 1316 e grazie al suo lascito testamentario ai benedettini di san Giovanni Evangelista, il cui convento era adiacente alla chiesa, venne costruito un quadriportico di cui oggi rimane solo il magnifico portale gotico. Il portale, costituito da un arco a sesto acuto, è decorato con pregevoli bassorilievi raffiguranti l’Apparizione di San Giovanni a Galla Placidia, accompagnati da gruppi di angeli. La decorazione del timpano, invece, rappresenta San Giovanni e l’imperatore Valentiniano III, facilmente individuabili dall’aureola e dalla corona; sui lati troviamo da una parte Galla Placidia, accompagnata dai soldati, e dall’altra San Barbaziano, mentre il Cristo redentore sovrasta tutte le figure.

 

La decorazione interna

Attraversato il portale si accede all’ingresso della chiesa, il cui interno è costituito da tre navate; quella centrale conduce all’abside, quella di sinistra termine con il diaconicon e quella di destra con la prothesis, che presenta al suo interno un altare del V-VI secolo e un affresco del XV secolo.

 

Le navate sono scandite da due filari di colonne con capitello corinzio di chiara origine romana, sui pulvini vediamo la croce rappresentata come albero della vita. La fisicità che caratterizza il culto cristiano nelle sue prime fasi porta i credenti a pensare, che l’albero della vita non sia una metafora, bensì un albero fisicamente presente nell’Eden, dal quale fu strappato un ramo da un angelo e poi deposto nella bocca di Adamo durante la sepoltura. Secondo la leggenda, l’albero crebbe e venne trovato da Salomone, che ne ordinò l’impiego durante la costruzione del tempio di Gerusalemme, ignaro della vera natura di quel legno. Fu la regina di Saba ad accorgersi del valore inestimabile dell’albero e così Salomone lo fece seppellire, ma prima della crocifissione di Cristo venne ritrovato e impiegato per la costruzione della Croce.

Sul lato sinistro della chiesa troviamo una cappella gotica del XIV secolo della scuola giottesca di Pietro da Rimini; sulla volta sono rappresentati gli evangelisti e i dottori della chiesa, mentre sulla parete frontale è presente un affresco alquanto deteriorato con Maria Maddalena che tende il braccio alla croce.

 

Un’opera di straordinario valore, conservata nella chiesa, è Il convito di Assuero di Carlo Bononi, un olio su tela del 1620 dalla lunghezza di 7 metri. il tema religioso si contrappone alla laicità del dipinto, caratterizzato da un forte dinamismo e dal lusso sfrenato dei banchetti dell’epoca. Bononi mostre le conoscenze apprese dalla scuola carraccesca tramite il concreto realismo delle figure; le pose assunte dai personaggi sono tutt’altro che innaturali.

Fig. 13 - Convito di Assuero di Carlo Bononi. Fonte: https://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/?cn-reloaded=1.

 

La chiesa oggi

La chiesa è visitabile sette giorni su sette dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18; la sua vicinanza alla stazione la rende estremamente facile da individuare e da visitare. Nonostante le innumerevoli bellezze della città, molto più note, questo gioiello non va dimenticato, perché ha ancora una storia molto lunga da raccontarci.

 

 

Sitografia

http://www.guide-ravenna.it/2018/04/19/il-convito-di-assuero-di-carlo-bononi/

http://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/

http://www.livingromagna.com/service/la-basilica-di-san-giovanni-evangelista-a-ravenna/


IL TESORO DI SANT’AGATA, MEMORIA E TESTIMONIANZA PER LA CITTÀ DI CATANIA - III PARTE

A cura di Mery Scalisi

 

 

Lungo i secoli l’affetto e la pietà dei devoti catanesi nei confronti della concittadina Agata testimoniano l’enorme coraggio e la forza nel proferire la fede cristiana di una giovane che si è completamente affidata al Signore.

Una memoria, quella di Agata, conservata, anzi custodita, nella Cattedrale di Catania, a lei stessa dedicata, in uno spazio, il sacello, detto anche a cammaredda, che si presenta come un luogo-scrigno, con l’intento di custodire e proteggere il tesoro dei resti mortali di Agata (fig. 1).

 

Esso si trova all’interno di un più ampio spazio, la Cappella appunto, dedicata interamente alla Santa, voluta dal viceré Ferdinando d’Acuña, devoto della martire e fatta costruire nel 1495 dalla moglie Maria d’Avila.

Posto nel lato sinistro della cappella, il sacello, preceduto da un prezioso portale decorato dallo scultore Antonello de Frerisi e ricco, al suo interno, di affreschi di pregevole fattura realizzati tra il 1300 e il 1500 da artisti rinomati nella Catania del tempo (figg. 2 e 3), tra cui spicca Antonello de Saliba. Il sacello si presenta come uno spazio che, con le sue modeste dimensioni, le sue forme irregolari e le sue decorazioni non omogenee, vuole più essere visto e percepito come luogo appartato, quasi una stanza segreta, dove è possibile l’incontro fra il devoto e l’esperienza della martire.

 

Un luogo-scrigno che a sua volta custodisce, oltre la testimonianza del martirio, sul lato destro, nella parte bassa, lo scrigno della Santa, con alcuni fra i resti sacri; nella parte superiore, invece, dietro un armadio argenteo, c’è il busto reliquiario.

Le varie reliquie della Santa sono conservate in reliquiari differenti per origine e forma; quello di maggior rilievo è sicuramente il busto, a cui seguono le braccia, le gambe e una mammella.

 

Il reliquiario a busto di Sant'Agata

Ciò che colpisce immediatamente osservando il reliquiario a busto realizzato per la vergine martire è il modo in cui si presenta il volto che il maestro orafo, Giovanni di Bartolo da Siena, incaricato di eseguire il lavoro, dona alla Santa, affiancata da due angeli mentre tiene con la mano destra una lunga croce in argento ricoperta di preziosi metalli; il maestro senese non sceglie di immortalare e fissare nel tempo il dolore e il tormento alla quale la giovane è stata sottoposta, bensì di donarle sembianze più umane: il volto, in smalto, in cui fanno da protagonista serenità e dolcezza, con un sorriso appena accennato, è incorniciato dai capelli biondi resi ad oro, e tale maestria nell’esecuzione non può che essere un incoraggiamento, per chi la osserva, ad ottenere e ricevere la beatitudine (figg. 4, 5, 6).

 

Il reliquiario, commissionatogli da Marziale, vescovo di Catania, fu eseguito da Giovanni di Bartolo a Limoges, comune della Francia sud-occidentale, quando l’artista vi si era trasferito per lavorare alla corte del papa ad Avignone.

A grandezza naturale, in argento sbalzato e smalti, il busto, ultimato nel 1376, si presenta come pregevole esemplare della rinomata oreficeria senese del Trecento, con le sue figure intagliate a bassissimo rilievo e i suoi smalti traslucidi, applicati per rendere notevoli effetti chiaroscurali (fig. 7).

 

Dal 1377, una volta finito e arrivato a Catania, esso fu offerto ai devoti, che continuarono ad offrire alla martire doni votivi, oggetti di oreficeria di notevole pregio artistico (oltre 300 gioielli ed ex voto), disposti sul busto come ornamento.

Nella testa, nella quale è stato inserito il teschio della santa (mentre nel busto è inserita la cassa toracica) spicca una corona che si racconta sia stata donata dal re inglese Riccardo Cuor di Leone, di passaggio a Catania nel viaggio di ritorno da una crociata. Essa si presenta come un cerchio, interamente in oro e composto da tredici placche rettangolari, con pietre incastonate nel giro esterno, unite da cerniere e sormontate da fiordalisi, tre dei quali arricchiti con brillanti (figg. 8, 9, 10, 11).

 

La lavorazione della corona fa ritenere che essa sia stata realizzata poco dopo il resto del reliquiario, probabilmente da una bottega italiana, o addirittura siciliana, forse nell’ultimo ventennio del Trecento.

Altro importante particolare, la tavoletta con epigrafe; quest’ultima, che nel busto reliquiario vede la Santa reggerla con la mano sinistra, è costituita da due pezzi accostati e chiusi con viti d’argento, e riporta l’elogio che un giovane (molto probabilmente un angelo) avrebbe scritto e lasciato dentro il sepolcro della martire, accanto al suo capo. Si tratta di un’iscrizione latina recante la sigla MSSHDEPL (Mente santa e spontanea, onore a Dio e liberazione della patria) caratteristica iscrizione della tradizione agatina che può essere letta come summa delle peculiarità della santa nonché come chiara promessa di protezione alla città (figg. 12,13).

 

Il reliquiario a busto è oggi sostenuto da una base, databile al Cinquecento, con iscrizione incisa e smalti, dove troviamo i nomi dei committenti, l’anno di esecuzione e il nome dell’artista.

Tramite gli smalti vengono ricordati due episodi della vita della Santa: la tortura ordinata da Quinziano e la visita in carcere da parte di San Pietro, i vescovi Marziale ed Elia in preghiera, le sante Lucia e Caterina, e alcuni stemmi (quello della città di Catania, della famiglia Aragonese, dei vescovi committenti e dell’allora pontefice Gregorio XI).

 

Lo scrigno che conserva i reliquiari dei sacri resti

In stile gotico e lavorato in argento filigranato, realizzato tra la seconda metà del XV secolo e la prima metà del XVI secolo, lo scrigno che conserva i reliquiari si presenta come una cassa a base poligonale, sormontata da un coperchio a falde spioventi, formata da venti nicchie, dentro le quali è possibile notare la presenza di statue in argento massiccio (ai lati maggiori troviamo i dodici apostoli, agli angoli  i santi Leone, Berillo, Everio e Severino, nei due minori rispettivamente il Cristo e la Madonna che incoronano Sant’Agata, e la  santa in adunanza con un personaggio, forse locale, inginocchiato), sormontate da un baldacchino trapezoidale e concluso a pennacchi (figg. 14, 15, 16).

 

A causa della scarsa documentazione, non abbiamo notizie certe circa l’effettiva data di esecuzione di lavoro e dei relativi autori, ma con molta probabilità alla sua realizzazione presero parte vari artisti dell’epoca (tra i quali Vincenzo Archifel, Antonio la Nuara, Filippo di Mauro, Nicola Lattai) attivi in diversi tempi. Lo zoccolo della cassa presenta una decorazione traforata, quasi ad imitare un merletto; la parte superiore, invece, si conclude con un legante intreccio di foglie d’alloro, sopra le quali si trovano delle sfere che chiudono i pilastrini sottostanti. Conclude il coperchio un’iscrizione che corre lungo tutto il bordo e che riprende la risposta che Agata diede a Quinziano durante l’interrogatorio. In quell’occasione la giovane rispose ‘’di essere di condizione libera e nata da nobile famiglia come testimoniava tutta la sua parentela’’.

Considerato fin dall’origine come manufatto di alta oreficeria per il suo ricco apparato ornamentale, con le sue cuspidi e guglie, quasi simbolicamente a voler rievocare una cattedrale, seppur in miniatura, lo scrigno presenta immagini della vita di Sant’Agata e contiene le sue reliquie racchiuse in diversi reliquiari (le due braccia con le mani, le due gambe con i piedi, i due femori e una mammella, oltre al santo velo).

Il coperchio, che conclude la cassa, diviso in quattordici scomparti, risulta essere decorato a sbalzo e raffigura diverse Sante, alle quali si aggiungono angioletti a tutto tondo.

 

I sacri resti di Agata

I sacri resti della Santa Patrona di Catania vengono preziosamente custoditi all’interno di appositi reliquiari, magistralmente realizzati.

Tra i vari sacri resti ricordiamo la mammella della Santa che viene conservata nel reliquiario a ostensorio, al centro del quale è possibile attraverso una piccola teca di cristallo osservare i resti; fu realizzato con molta probabilità da un orafo italiano, agli inizi del XVII secolo, in argento sbalzato, cesellato e dorato (fig. 17).

Fig. 17 - Reliquiario ostensorio contenente la mammella di Sant'Agata.

 

I reliquiari a femore, anch’essi realizzati con analoga tecnica esecutiva da una maestranza italiana tra la fine del XIV secolo e l’inizio del XV secolo, presentano decorazioni abbastanza simili tra loro, a motivi floreali culminanti in un fregio raffigurante una trina. Il velo è forse, fra i sacri resti, quello più sentito dai catanesi, in quanto più volte, nella storia della cittadina etnea e - nello specifico – durante le colate laviche dell’Etna, ad esso la popolazione ha chiesto aiuto. Esso è custodito in un reliquiario a fiala, anch’esso realizzato da un orafo italiano, intorno alla seconda metà del XIX secolo, in argento sbalzato a fusione.

 

 

Tutte le immagini sono state prese dal testo Il tesoro di Sant’Agata. Gemme, ori e smalti per la martire di Catania, EAC Edizioni Arcidiocesi Catania e sono fotografie di Francesco Marchica.

 

 

Bibliografia

Vittorio Peri, AGATA la santa di Catania, Bergamo, VELAR, 1996.

AA.VV., Agata santa Storia, arte, devozione, Firenze, Giunti, 2008.

Il tesoro di Sant’Agata. Gemme, ori e smalti per la martire di Catania, EAC Edizioni Arcidiocesi Catania

 

Sitografia

http://circolosantagata.it/


IL CICLO PITTORICO DI SEBASTIANO RICCI A PALAZZO MARUCELLI FENZI

A cura di Alessandra Becattini

 

 

All’inizio del Settecento, in parallelo all’operato di Antonio Puglieschi venne chiamato il veneto Sebastiano Ricci a decorare il piano terreno di Palazzo Marucelli a Firenze. Tra gli esponenti della famiglia fiorentina impegnati nell’abbellimento della residenza non è ancora stata individuata dalle fonti la figura che propose di affidare tale lavoro al Ricci, ma è plausibile pensare che la scelta ricadde sull’artista per la vicinanza dei Marucelli ai gusti della corte medicea e in particolare del Gran Principe Ferdinando, importantissimo mecenate artistico di quegli anni [1]. Quest’ultimo era entrato in contatto con il Ricci almeno dal 1704, come attestano le lettere inviate al pittore Niccolò Cassana, mediatore per la commissione del principe al pittore veneto di una pala per la chiesa fiorentina di San Francesco de’ Macci. Inoltre, il Ricci poteva aver incontrato il Medici anche in precedenza durante la sua permanenza a Bologna e a Venezia [2], dove il principe si recò due volte tra gli anni Ottanta e Novanta del ‘600 [3]. Non è poi da escludere che i Marucelli avessero conosciuto il Ricci direttamente a Roma, dove alcuni esponenti della famiglia vivevano da anni e dove anche il pittore risiedette tra il 1691 e il 1694 circa [4].

 

Come già accennato in un articolo precedente, l’ampio ciclo decorativo di palazzo Marucelli impegnò il Ricci tra il 1704 circa e il 1708 nelle cinque stanze del pian terreno che un tempo facevano parte degli appartamenti di Giovanni Filippo Marucelli. Abbiamo introdotto l’operato del pittore con il concitato Amore punito, una tela che nei colori, nella gestualità e nella prospettiva aerea denuncia l’influenza dei maestri cinquecenteschi veneti, soprattutto Veronese, ma anche un attento studio dell’arte e del quadraturismo bolognese e delle novità barocche romane [5].

Lo stesso si può dire per la tela col il Trionfo della Sapienza e delle Arti sull’Ignoranza (fig.1) che adorna il soffitto della sala comunicante nell’ala destra del palazzo. Il soggetto di quest’opera, dal chiaro valore celebrativo per la famiglia Marucelli, potrebbe celare anche un messaggio di esaltazione del Granducato. La figura coronata della Sapienza, circondata dalle personificazioni delle Arti e Minerva, si trova nella parte alta della tela seduta su un carro sorretto da soffici nuvole. Sopra di lei, un putto sorregge altre due corone, una di alloro e l’altra contraddistinta da punte e decorata da pietre preziose. La somiglianza di quest’ultima con la corona Granducale secondo Isabella Bigazzi potrebbe indicare altresì nella figura della Sapienza l’allegoria della Toscana che prospera nelle arti sotto la guida del principato mediceo [6]. Nella parte bassa della tela, la figura fortemente scorciata dell’Ignoranza (fig.2), rappresentata come un giovane con le orecchie d’asino, viene spodestata dall’incedere del luminoso gruppo di figure intrecciate, cadendo verso un oscuro mondo infernale e, illusionisticamente, anche verso lo spettatore. Le tele di queste due sale comunicanti sono state datate al 1706 circa perché associate ai «due sfondi del Signor Canonico Marucelli» [7] inviati dal Ricci al Gran Principe Ferdinando nel maggio 1706 e di cui il pittore parla in una missiva al Medici stesso, indicando probabilmente i modelli per le suddette opere.

 

Dal punto di vista cronologico, il primo intervento del pittore veneziano per il ciclo marucelliano è da riferirsi alle pitture della sala dell’Età dell’Oro, databili al 1704-1705 circa. Tale datazione è stata proposta a seguito dell’analisi di un pagamento per lo stuccatore Giovanni Baratta per l’esecuzione delle celebri sculture di Nereidi e Tritoni (figg.3-4) che decorano gli angoli della sala [8]. Dato che il saldo per queste figure risale al settembre 1705, l’intervento del Ricci sarebbe quindi da datare precedentemente a quello del plasticatore.

Fig. 3 - Giovanni Baratta, Nereide, 1705, sala dell’Età dell’Oro, Palazzo Marucelli-Fenzi. Credits: Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=52219693.
Fig. 4 - Giovanni Baratta, Tritone, 1705, sala dell’Età dell’Oro, Palazzo Marucelli-Fenzi. Credits: Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=52219694.

 

In questa sala il pittore veneto dipinse al centro della volta la Sconfitta di Marte (fig.5). La luminosa scena, contornata da una cornice modanata in stucco dorato, rappresenta il dio allontanato dall’arrivo della Pace e dall’Abbondanza (fig.6), riconoscibili attraverso i propri attributi (rispettivamente un ramoscello d’olivo e la cornucopia). In basso, il gruppo di satiri assisi sul globo terrestre fa da contraltare all’avanzare delle due figure femminili, mentre dalla parte opposta Marte viene scacciato da putti alati. La figura del dio della guerra (fig.7) è dipinta in controluce sopra una zona in stucco sporgente per enfatizzare l’effetto di profondità della sua caduta oltre la cornice nello spazio reale della sala [9]. Attorno alla scena centrale si colloca una zona completamente dorata sulla quale sono dipinte figure variamente legate alla pace e alla guerra, come i genietti e una furia, caratterizzate da un forte contrasto chiaroscurale che ne risalta la profondità (fig.8). Alle pareti sono poi collocale quattro tele di scuola fiorentina della seconda metà del XVII secolo sul tema pastorale del mito classico dell’età dell’Oro, che dà il nome alla sala.

 

La sala contigua è dedicata alla rappresentazione allegorica della Giovinezza al bivio. Il soffitto si apre totalmente su una scena aerea dove si scorge la Giovinezza tra il Vizio e la Virtù (fig. 9), rappresentazione allegorica della scelta tra doveri e piaceri. La Virtù, raffigurata come una donna dalle vesti umili, afferra il braccio della Giovinezza indicandole la retta via per una vita onesta, rappresentata tra le nubi come il trionfo della Sapienza. Il Vizio invece, nelle vesti di un satiro, indica alla giovane donna i privilegi di una vita dedita ai piaceri rappresentati dalle scenette che animano tutta la cornice della volta (fig.10). A questa rappresentazione allegorica concorrono anche le figure in stucco, che sporgono dalla cornice nello spazio della sala. In questa stanza, la stretta collaborazione tra pittore e sculture, già apprezzabile nelle opere precedenti, raggiunge un livello successivo creando una vera e propria fusione tra affresco e stucco in una vincente unità di intenti creativa che anticipa soluzioni proprie dello stile rococò [10]. Esemplare è la scimmia in stucco dipinto che curiosa nella bocca del leone con la coda dipinta e il corpo parzialmente in stucco che emerge gradualmente dalla cornice (fig. 11) [11]. La mano del plasticatore è stata assegnata stilisticamente al Baratta da Francesco Freddolini [12], ma è tuttora discussa un’attribuzione proposta da Riccardo Spinelli a favore di Giovanni Battista Ciceri, che effettivamente lavorò «per una stanza “di stucchi”»[13] nel palazzo fiorentino dei Marucelli. Il racconto moraleggiante della volta della sala della “Giovinezza al bivio” riecheggia anche nelle tre tele realizzate sempre dal Ricci e collocate alle pareti, dentro cornici dorate in stucco, dove sono rappresentate tre storie antiche esemplari dell’abbandono dei vizi e delle passioni (fig. 12).

 

L’ultimo intervento di Ricci in palazzo Marucelli è la decorazione del salone d’Ercole, datato al 1707-1708 sulla base dei pagamenti effettuati al quadraturista Giuseppe Tonelli, che collaborò con il pittore veneto realizzando le architetture dipinte della sala. Lo spazio delle pareti è scandito da alte colonne di ordine ionico imitanti il porfido, sulle quali si imposta una trabeazione “marmorea” che sorregge la volta del salone. Agli angoli della stanza sono dipinti telamoni in finto bronzo, che rivelano un chiaro richiamo alle figure in stucco realizzate dal Baratta per la sala dell’Età dell’Oro. I telamoni affrescati sorreggono poi volute architettoniche con all’interno medaglioni dorati con il rilievo di alcune delle Fatiche d’Ercole (fig.13).

 

La scelta di dedicare l’intera sala all’eroe mitologico è stata interpretata dagli studiosi come un simbolico omaggio dei Marucelli alla famiglia granducale. La figura di Ercole, infatti, non soltanto era motivo ricorrente di tematiche iconografiche medicee, ma era anche un simbolo della città di Firenze e soprattutto della propaganda politica della famiglia regnante [14].

Spesso usata nelle campagne didascaliche medicee e rappresentata anche da Ricci nel salone Marucelli è la scena di Ercole al bivio (fig.14), un tema iconografico-moraleggiante recuperato dalla cultura rinascimentale e che ebbe una grande fortuna fino al ‘700. Al giovane eroe, seduto al centro, vengono proposte due scelte per il suo cammino di vita rappresentate da due figure femminili. La Virtù, a sinistra, mostra un percorso faticoso e scosceso, simboleggiato dal monte Parnaso, alla fine del quale ci sarà un traguardo glorioso. A destra, il Vizio presenta al semidio una strada più breve e ricca di piaceri, rappresentati dalla bellissima natura morta in primo piano, ma che condurrà alla rovina. Anche qua, quindi, come in altre sale del palazzo, riverbera ancora l’allegoria della scelta tra vizio e virtù come metafora dell’esistenza umana stessa. L’affresco appena descritto fa parte delle tre scene legate al mito di Ercole e rappresentate sulle pareti al centro delle grandi arcate dipinte dal Tonelli, aperte su paesaggi immaginati che ampliano lo spazio reale. Le altre due pitture raffigurano Ercole e Caco [15]ed Ercole e Nesso (fig.15), due drammatiche scene legate agli ostacoli e alle innumerevoli lotte affrontate dall’eroe, che lo resero nei secoli la personificazione stessa della virtù. È particolarmente interessante notare come Ricci abbia richiamato nelle pose di queste figure alcuni dei modelli manieristi della scultura cinquecentesca fiorentina. La lotta tra Ercole e il centauro è una citazione dell’omonimo gruppo scultoreo realizzato dal Giambologna (fig.16), mentre la posa del semidio di spalle visibile nell’Ercole e Caco sembra richiamare il dio scolpito da Giambologna per la Fontana dell’Oceano [16] o il Nettuno eseguito da Bartolomeo Ammannati per la fontana di piazza della Signoria.

 

Il complesso programma iconografico della sala si conclude al centro della volta, dove si apre un ovale celeste affrescato con la luminosa Apoteosi d’Ercole (fig.17). Al centro della composizione, il protagonista indiscusso della narrazione si presenta al cospetto di Giove e Giunone (fig.18), assisi su una nuvola e coperti da un tendaggio violetto sorretto da figure alate, mentre attorno assistono alla scena le altre divinità dell’Olimpo, intrecciate tra loro in pose variamente atteggiate. Tra queste, la leggiadra figura in controluce di Mercurio (fig.19), che vola oltre la cornice dipinta della volta, è nuovamente un colto richiamo alla “serpentinata” scultura del Mercurio del Giambologna (fig.20), conservata al Bargello.

 

La critica ha giustamente notato che l’operato del Ricci a Firenze, connotato da un linguaggio barocco più leggero ed estroso e da un gusto per i colori chiari e luminosi, rivoluzionò le espressioni artistiche della città inaugurando il percorso verso lo stile Rococo. Ma l’evoluzione stilistica dell’artista non può prescindere da un reciproco rapporto di ispirazione e influenza. Come sottolinea Bigazzi, fu infatti proprio il contatto diretto con la scultura manierista, con l’operato dei frescanti fiorentini del’600 (come il Volterrano e Giovanni da San Giovanni) e con gli interventi medicei di Pietro da Cortona e Luca Giordano a favorire la maturazione di una più moderna espressione artistica [17].

 

 

 

Note

[1] I. Bigazzi, Palazzo Marucelli Fenzi. Guida storico-artistica, a cura di I. Bigazzi-Z. Ciuffoletti, Firenze, 2002, p. 52.

[2] Sebastiano Ricci, nato a Belluno nel 1659, intraprese la sua formazione artistica a Venezia. Si trasferì a Bologna nel 1681 e tra il 1691 e il 1694 visse a Roma. Fu nuovamente a Venezia nel 1695 circa e poi al 1716. Durante la sua vita, importanti commissioni lo portarono a spostarsi in altre città italiane, a Vienna (1702) e in Inghilterra (1712-15 ca.). Morì a Venezia nel 1734.

[3] G. Stefani, Sebastiano Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo Settecento, Firenze, 2015, p. 80.

[4] Ivi, p. 160.

[5] C. Brovadan, Le sale dell’Amore Punito, del Trionfo della Sapienza e delle Arti sull’Ignoranza, dell’Età dell’oro e della Giovinezza al bivio, in Fasto privato, vol. II, a cura di M. Gregori e M. Visonà, Firenze, 2015, p. 157.

[6] Bigazzi, Palazzo Marucelli … cit., p. 149.

[7] Bigazzi, Palazzo Marucelli … cit., p. 145.

[8] C. Brovadan, Le sale dell’Amore Punito … cit., p. 158.

[9] R. Maffeis, The Painter at the Crossroads: Sebastiano Ricci in Florence and the Interplay between the Arts, p. 473.

[10] Bigazzi, Palazzo Marucelli … cit., p.137

[11] Maffeis, The Painter at the Crossroads … cit., p. 475.

[12] F. Freddolini, Nuove proposte per l’attività giovanile di Giovanni Baratta, in “Paragone.Arte”, LXI, 89 (2010), p. 19. L’autore è stato riconosciuto in Baratta per la prima volta da Freddolini nel 2003 in Mecenatismo e ospitalità: Giovanni Baratta a Firenze e la famiglia Guerrini, in ‘Nuovi Studi’, VIII, 10, 2003, pp. 190-191.

[13] Bigazzi, Palazzo Marucelli … cit., p. 48.

[14] Maffeis, The Painter at the Crossroads … cit., p. 476.

[15] Per le scene dell’Ercole al bivio ed Ercole e Caco sono conservati agli Uffizi i bozzetti originali del Ricci.

[16] Maffeis, The Painter at the Crossroads … cit., pp. 476-77.

[17] Bigazzi, Palazzo Marucelli … cit., pp. 163-164.

 

 

Bibliografia

Bigazzi-Z. Ciuffoletti, Palazzo Marucelli Fenzi. Guida storico-artistica, edizioni Polistampa, Firenze, 2002.

Freddolini, Nuove proposte per l’attività giovanile di Giovanni Baratta, in “Paragone.Arte”, LXI, 89 (2010), pp. 11-37.

Betti-C. Brovadan, Palazzo Marucelli, in Fasto privato. La decorazione murale in palazzi e ville di famiglie fiorentine, vol. II, a cura di M. Gregori e M. Visonà, Edifir, Firenze, 2015, pp. 151-164.

Stefani, Sebastiano Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo Settecento, Firenze University Press, Firenze, 2015.

Maffeis, The Painter at the Crossroads: Sebastiano Ricci in Florence and the Interplay between the Arts, in «Il Capitale culturale», Supplementi 08 (2018), pp. 471-487.

 

Sitografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/sebastiano-ricci_%28Dizionario-Biografico%29/


LA CHIESA DEI SANTI MARTIRI AD OSIMO

A cura di Maria Giulia Marsili

 

 

Appena fuori le mura che racchiudono il centro storico della città di Osimo, comune marchigiano nella provincia di Ancona, vi è una piccola chiesa poco conosciuta ma di notevole importanza. Questa è la chiesa dei Santi Martiri, così chiamata poiché eretta nel preciso luogo del ritrovamento dei corpi dei martiri Fiorenzo, Sisino e Dioclezio, uccisi per lapidazione l’11 maggio 304 sotto l’imperatore Diocleziano. Codesta data è ancor oggi rilevante per tutta la comunità cristiana di Osimo, che si ritrova ogni anno di fronte alla piccola chiesa per la commemorazione del martirio. La chiesa, di forma cilindrica, conserva tuttora l’aspetto voluto dal vescovo cardinale Guido Calcagnini1 nella ricostruzione del 1794, come è testimoniato dall’iscrizione a lui dedicata nella lapide posta sulla facciata, a sinistra del portone principale.

 

 

“La prima quasi Cattedrale di Osimo”: la storia della Chiesa dei Santi Martiri osimani

 

La piccola chiesa cilindrica possiede una storia lunga ed articolata. Lo storico Francesco Lanzoni2 nei primi anni del 1900 scrisse al riguardo: “La prima quasi Cattedrale di Osimo fu a Roncisvalle, luogo del martirio di Fiorenzo, Sisino e Dioclezio, durante la persecuzione di Diocleziano (anno 304)”. De facto, la sua storia può canonicamente avere inizio da questo evento, il martirio, dal quale trae origine anche la diffusione della stessa religione cristiana nella città di Osimo.

Fonti ancor più antiche, come i racconti riguardanti la guerra gotica, combattuta fra il 535 ed il 553, citano il luogo del martirio. Viene precisato che Belisario, capo dell’esercito bizantino, raggiunse la città di Auximum nel 539 e ordinò ai suoi di accamparsi vicino ad una fonte, chiamata “magna”, menzionando un “santuario non distante”. Dunque, si può ben pensare che già all’epoca vi fosse la presenza di un luogo di culto.

Nel secolo XI i benedettini, dopo il trasferimento dall’Abbadia di Osimo al rione di Roncisvalle, ingrandirono la piccola chiesa già presente e la dedicarono a San Fiorenzo. La storia vuole che la chiesa fu luogo di passaggio della seconda visita, avvenuta nel 1220, di San Francesco d’Assisi ad Osimo. Si è tramandata da allora la famosa storia della pecorella acquistata dal santo per compassione.

Nei secoli successivi si alternarono altri ordini religiosi come i Domenicani (dal 1286) e i Silvestrini, benedettini istituiti dall’osimano Silvestro Guzzolini, che vi rimasero fino al 1376, anno in cui l’edificio fu danneggiato dalle soldatesche di Francesco Sforza.

Nel 1444, durante i lavori di ricostruzione, vennero ritrovati i corpi dei tre Santi Martiri: le reliquie incustodite vennero portate al Duomo, dove furono sistemate in un altare vicino alla torre campanaria, per volere dell’allora vescovo di Osimo, Andrea da Montecchio. Si dovrà aspettare il 1531 per assistere allo spostamento delle reliquie al centro della cripta nella Cattedrale di San Leopardo per volere del vescovo Sinibaldi.

A quel tempo, poco distante vi era un’ulteriore chiesetta: quella di Santa Maria di Roncisvalle, al cui interno vi era un crocifisso miracoloso dipinto sulla parete. La tradizione vuole che nel 1521 “l’immagine del Santissimo Crocifisso dipinta nella chiesa di Santa Maria di Roncisvalle versò sangue miracoloso”3. L’affresco venne trasferito nell’altare della chiesa di San Fiorenzo, che nel frattempo aveva assunto il nome dei Santi Martiri, dove ancora oggi è situato.

Nel 1751 vennero ritrovate anche le teste degli stessi martiri e furono subito portare in Duomo per essere unite ai loro corpi, traslati tre secoli prima. Le vicende riguardanti le condizioni della chiesa rimangono poi confuse, ma certamente la sua forma attuale risulta essere quella dettata dal vescovo Guido Calcagnini nel 1794. I restauri attuati nel tempo sono stati diversi ed hanno riguardato anche la struttura abitativa adiacente alla chiesa, l’ultimo restauro risale al 1986.

 

 

L’architettura e le opere

 

Come già affermato, la chiesa dei Santi Martiri presenta oggi la struttura del 1794, quella data dall’architetto Antonio Pizzichini su commissione del cardinale Guido Calcagnini. La sua forma geometrica regolare, cilindrica e slanciata in altezza, si inserisce perfettamente nella cultura architettonica diffusa all’epoca, la quale proponeva un neoclassicismo sobrio e preciso. Indirettamente le forme adottate tennero conto degli insegnamenti di quell’architettura rivoluzionaria dei francesi Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux che andava sviluppandosi in tutta Europa.

La costruzione, articolata in un unico vano, presenta una pianta centrale all’interno di un cilindro cavo del diametro di 7,10 m. All’esterno vi sono esposte le due, già citate, lapidi di notevole importanza. La prima, posta alla sinistra del portone principale, come già riferito, ricorda l’opera di ristrutturazione messa in atto da Calcagnini nel 1794. Mentre la seconda, scritta con un dolce latino, invita il viandante alla visita, ricordando le vicende principali che colpirono la chiesa nel corso del tempo.

 

“ Qui, o viandante / al sangue del Crocifisso / al martirio di Sisinio / Dioclezio Fiorenzo / al sepolcro anche / di Massimo / alla pietà di Francesco / verso la pecora / palme rose lacrime cuore / porta offri spargi dona“

 

Si sta parlando del già citato miracolo del crocifisso, del martirio e della seconda visita di San Francesco d’Assisi alla città.

 

 

L’interno appare oggi sobrio e regolare. Le due opere principali che possono essere analizzate sono il celebre affresco del Crocifisso miracoloso, databile agli inizi del 1500 e la tela, di autore ignoto, del Martirio dei santi Sisinio, Fiorenzo, Dioclezio e Massimo.

 

Affresco del Crocifisso, inizi del 1500.

 

L’antico affresco, databile agli inizi del 1500 ed appartenuto alla chiesa di Santa Maria di Roncisvalle, è ora posto come pala d’altare all’interno della chiesa dei Santi Martiri. Protagonista della raffigurazione è Cristo crocifisso: il suo volto, che emana pace e calma interiore, è reclinato sulla destra, verso la figura della Vergine Maria, le cui braccia al cielo comunicano il dolore provato. Alla sinistra vi è san Giovanni, con lo sguardo rivolto verso il crocefisso, intento a portarsi la mano destra verso il viso, ad espressione di stupore. Pur non essendo oggi in condizioni ottimali, l’affresco mantiene ancora quell’aurea sacrale conferitagli dalla tradizione, che lo vede oggetto di miracolo.

 

La seconda opera da analizzare, ovvero la tela, rappresenta un unicum eccezionale. Tuttavia quest’ultima non è stata nel tempo molto studiata e le notizie pervenuteci non sono cospicue.

 

 

L’autore, tuttora ignoto, scelse di rappresentare in forma didascalica il passaggio dal paganesimo al cristianesimo nella città di Osimo. Come exemplum di questa conversione egli scelse la lapidazione dei martiri osimani Fiorenzo, Sisinio e Dioclezio. In primo piano, sulla destra della statua di Esculapio posta al centro della tela, vi sono quattro uomini intenti a lanciare pietre ai tre martiri, Sisinio sulla sinistra, Fiorenzo al centro e Dioclezio sulla destra, riconoscibili dai nomi incisi vicino alle figure. Alla sinistra della statua invece, possiamo notare il martirio di Massimo accompagnato dalle parole “Maximus Romae eadem die caesus, Auximum ad socios translatus” ovvero “Massimo ucciso a Roma lo stesso giorno, fu trasferito ad Osimo presso i compagni di fede”. Nel frattempo, uno squarcio di luce nel cielo torbido accompagna l’arrivo di un angelo salvatore, simbolo di speranza. La scena appare dinamica e ben costruita, l’osservatore è capace di comprendere appieno l’intero svolgimento della storia.

 

L’iconografia del martirio dei santi si è nel tempo diffusa in tutta la città di Osimo, diventando uno dei soggetti ricorrenti. A dimostrare ciò vi è la stampa del medesimo soggetto posta nell’ingresso secondario della chiesa, quello conducente alla sagrestia.

 

 

 

Le foto sono state realizzate dalla redattrice

 

Note

1 Guido Calcagnini, nato a Ferrara nel 1725, venne eletto vescovo di Osimo e Cingoli da Pio VI nel 1776.

2 Francesco Lanzoni (Faenza, 1862 – 1929) è stato uno storico e presbitero italiano. In materie di storia locale ed agiografia, egli si interessò particolarmente allo studio delle origini delle chiese locali e della diffusione del cristianesimo.

3 Parole di Flaminio Guarnieri, appartenente della famiglia Guarnieri, all’epoca custodi della chiesa.

 

 

Bibliografia

Ermanno Carnevali, La cattedrale di Osimo – Storia, documenti e restauri del complesso monumentale, Silvana Editoriale, 2014.

Maria Teresa Fiorio, Il museo nella storia – Dallo studiolo alla raccolta pubblica, Pearson, 2018.

 

Sitografia

Parrocchia Santa Maria della Misericordia

http://www.fratiminoriosimo.it/storia/santi-martiri-osimani/


LA SCALA REGIA A PALAZZO FARNESE

A cura di Andrea Bardi

 

 

L’ultimo approfondimento all’interno della serie relativa agli ambienti della villa di Alessandro Farnese a Caprarola è dedicato alla monumentale Scala (detta Regia, per l’appunto) che funge da raccordo tra gli ambienti interrati del palazzo e il portico circolare sul Piano Nobile.

Storia

“vidi poi la bella scala, ampia e magna, parimente in quel luogo, e di quella forma necessaria per mostrar il disegno e l’arte, e come si possono girar le pietre con gratia e soavità; facendo così vedere quanto habbia bisogno l’architetto degli studi d’Euclide”[1]

Con queste parole Bartolomeo Ammannati, invitato a palazzo dal cardinal Alessandro nel 1576, esprime tutta la sua ammirazione per la lumaca del Vignola, all’epoca priva – anche se ancora per poco – del ricchissimo e a tratti misterioso apparato di pitture a fresco, datato agli anni 1580 – 1583 e visibile ancora oggi. La vicenda della scala, è bene ribadirlo, non fu sin da subito intimamente legata al Vignola. Il cardinal Farnese aveva infatti avviato i contatti con Francesco Paciotto, architetto di famiglia di stanza a Parma e Piacenza. Il progetto di Paciotto, che prevedeva la realizzazione di ben due scale a chiocciola, una per ogni angolo in facciata, venne fortemente contestato dal Vignola, il cui giudizio secco (“una scala maestra sia abastantia”[2]) coinvolgeva anche una terza chiocciola, che nei piani del Paciotto avrebbe trovato spazio nel torrione angolare e che venne anch’essa bollata come superchia. Una volta prese le redini del progetto dello scalone, Barozzi decise di abbandonare il progetto originario. In primo luogo, egli volle modificare l’accesso allo scalone, che nei piani originari era “un andito streto”, ampliandolo fino a dargli le dimensioni di una “gran stantia, che serve per la guardia del padrone”[3] (l’attuale Sala delle Guardie) e affiancando a questo ambiente un’armeria. Proprio dal piccolo vano dell’armeria, oggi punto di biglietteria, doveva partire la seconda scala del Paciotto (abbandonata definitivamente dal Barozzi) per arrivare al Piano Nobile in corrispondenza della cappella privata del cardinale.

La fortuna del modello: la scala elicoidale

Come notato correttamente da Paolo Portoghesi[4], il modello a cui Vignola può aver fatto riferimento è la lumaca che Donato Bramante ideò, a partire dal 1507 fino alla sua morte (1514), per il Belvedere Vaticano [Fig. 1].

Fig. 1 – La scala a chiocciola di Donato Bramante. Credits: By J.M.P.R - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=95671730.

La risonanza del modello bramantesco si fece sentire specialmente nel secondo Cinquecento romano (la scala di Ottaviano Mascherino al Quirinale per Gregorio XIII, fig. 2) sancendo poi, nel Seicento, la sua definitiva fortuna nello scalone Barberini di Francesco Borromini (fig. 3).

Descrizione

Lo Scalone

Accessibile dall’ingresso in corrispondenza della Sala delle Guardie, sull’angolo nord-est del palazzo, la Scala Regia [Fig. 4] – il cui percorso si snoda in realtà già dagli ambienti sotterranei – trova collocazione in un ambiente dal diametro di circa dieci metri (“quaranta palmi”[5]) e sviluppando il suo percorso su“tre giri”[6] arriva a “metere capo ne la logia del cortile”[7]. Il percorso a spirale dello scalone, realizzato mediante l’impiego del peperino locale, è reso possibile, staticamente, dalla presenza di trenta colonne binate, a capitelli dorici e ionici in alternanza, che poggiano su un fregio decorato con metope a gigli farnesiani e alle quali corrispondono, sulle pareti, lesene che spezzano la continuità figurativa delle pitture murali.

Fig. 4 – Lo scalone.

Gli affreschi

Perfettamente inscrivibile all’interno della temperie tardomanierista, la scala, così come tutti gli ambienti pubblici del palazzo, è decorata nella sua totalità da un ricchissimo apparato di affreschi di carattere prevalentemente allegorico - emblematico, completato da pochi inserti paesistici in riquadri parietali e avvolto da un fantasioso manto di grottesche, all’interno del quale sono tra l’altro visibili due date, 1580 e 1583, che segnano verosimilmente gli estremi cronologici del cantiere pittorico della scala.

Le pareti

Inseriti in cornici a trama geometrica, i riquadri paesaggistici [Figg. 5-7] che accompagnano il visitatore nel percorso dello scalone vengono tradizionalmente attribuiti al pittore Antonio Tempesta[8] (una voce contraria è quella di Gerard Labrot, che ne Le palais Farnese de Caprarola, del 1970, ha proposto il nome di Paul Bril). Giovanni Baglione, nelle Vite, racconta di come il pittore avesse anche dipinto “per il cardinale Alessandro Farnese in Caprarola i pilastretti della lumaca”[9] (le lesene dipinte). La figurazione parietale include, oltre al paesaggio, anche allegorie, per le quali, pur mancando tuttora un’attribuzione condivisa, si sono fatti i nomi del Pomarancio[10] (due i pittori che condividono questo nome, Niccolò Circignani e Cristoforo Roncalli) e di Pietro Bernini, anche lui menzionato dal Baglione come allievo del Tempesta (“Dilettossi anche di dipingere, e nel Pontificato di Gregorio XIII andò con Antonio Tempesta e con altri Pittori di que’ tempi al servitio d’Alessandro Cardinal Farnese in Caprarola; e in una estate dimorando, varie cose per quel Principe dipinse”[11]).

Le pitture emblematiche

Anche nello scalone, così come nel resto del palazzo, l’ampio corredo emblematico in cui i letterati di corte (Paolo Giovio, Annibal Caro, Fulvio Orsini, Francesco Maria Molza) condensavano le virtù del cardinale trova ampio spazio in piccoli riquadri attorniati da divinità fluviali e giochi di grottesche. All’interno del corpus emblematico di Alessandro vanno ricordati almeno: la Vergine con l’Unicorno, associata al motto “VIRTUS SECURITATEM PARIT” (“la virtù genera la sicurezza”); l’Unicorno che purificando le acque, ribadisce in chiave antiluterana la rilevanza del Battesimo; Pegaso [Fig. 8], creatore del Parnaso, che associato al motto greco HMERAS DWRON (“emeras doron”, dono del giorno) diviene emblema della munificenza farnesiana; la Navicella con le Simplegadi (PARAPLWSOMEN, “navigammo oltre”, fig. 9) ricorda la capacità della nave della Chiesa di superare ogni ostacolo; il fulmine di Paolo III, col motto “HOC UNO IUPPITER ULTOR” [Fig. 10] che, creato per Paolo III, viene fatto proprio dal cardinale in chiave antiprotestante.

Fig. 8 - Pegaso.
Fig. 9 – Navicella con le Simplegadi.
Fig. 10 – HOC UNO IUPPITER ULTOR.

La volta

Fig. 11 - La volta.

La celebrazione del cardinale e del casato farnesiano trova la sua espressione più potente al centro della volta dello scalone [Fig. 10], dove il tradizionale blasone familiare (sei gigli azzurri su fondo oro) si staglia al di sopra di un reticolo di grottesche all’interno del quale, alla presenza di putti, trovano spazio anche delle figure allegoriche non identificate. Lo stemma Farnese sulla volta, diverso dall’antico arme a dodici gigli presente nella sala dei Fasti, si pone come tappa ultima di un percorso di glorificazione familiare iniziato già in prossimità dell’ingresso allo scalone, dove campeggiava in presenza della Virtù come Atena e della Fama [Fig. 12].

Fig. 12 – Il blasone Farnese con la Virtù e la Fama.

 

 

 

L'immagine 4 è stata realizzata da Giulia Pacini.

Le immagini dalla 5 alla 12 sono state realizzate da Andrea Bardi.

 

Note

[1] Le parole di Ammannati sono riportate in Paolo Portoghesi, Caprarola, p. 120.

[2] Ivi, p. 98.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 80.

[5] C. Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, p. 15.

[6] Ibidem

[7] P. Portoghesi, Caprarola, p. 98.

[8] Italo Faldi nota come Giovanni Baglione non viene menzionato da Ameto Orti nel poemetto celebrativo La Caprarola (I. Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, p. 39, nota 80).

[9] G. Baglione, Le vite, p. 314.

[10] I. Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, p. 28; cfr. P. Portoghesi, Caprarola, p. 80.

[11] G. Baglione, Le vite, p. 304.

 

Bibliografia

Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma, Andrea Fei, 1642.

Italo Faldi, Il palazzo Farnese di Caprarola, Torino, SEAT, 1981.

Gerard Labrot, Le Palais Farnese de Caprarola, Parigi, Klincksieck, 1970.

Salvatore Mascagna, Caprarola e il palazzo Farnese. Cinque secoli di storia, Viterbo, Quatrini, 1982.

Paolo Portoghesi (a cura di), Caprarola, Roma, Manfredi, 1996.

Camillo Trasmondo Frangipani, Descrizione storico-artistica del r. palazzo di Caprarola, Roma, coi tipi della civiltà cattolica, 1869.

Maurizio Vecchi, Paola Cimetta, Il palazzo Farnese di Caprarola, Caprarola, Il Pentagono, 2013.

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568.

 

Sitografia

http://www.caprarola.com/monumenti-caprarola/610-la-scala-regia.html

http://www.bomarzo.net/palazzo_farnese_caprarola_03_scala_regia_it.html

https://www.canino.info/inserti/tuscia/luoghi/piazze/caprarola/index.htm

https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-tempesta/

Riferimenti fotografici

Fig. 1 -

Fig. 2 - By Geobia - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20982216

Fig. 3 - By Jean-Pierre Dalbéra from Paris, France - La palais Barberini (Rome), CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=24668843

 


PIAZZETTA BETLEMME, IL GIOIELLO DIPINTO DI SAN GIOVANNI IN PERSICETO

A cura di Valentina Fantoni

 

Introduzione

Non lontano da Bologna, a circa 20 chilometri di distanza, si trova il comune di San Giovanni in Persiceto che ospita in una delle sue caratteristiche vie quella che è diventata uno dei simboli del paese: Piazzetta Betlemme, nome che deriva dalla via in cui è ospitata, via Betlemme. Questa pittorica piazza ospita dal 1982 le “scenografie ambientali” di Gino Pellegrini, noto scenografo che lavorò a numerosi film di successo nell’officina cinematografica hollywoodiana, come Gli Uccelli, 2001: Odissea nello spazio, Indovina chi viene a cena, Mary Poppins, La spada nella roccia, Un maggiolino tutto matto e molti altri ancora. Nato a Lugo di Vicenza, Gino Pellegrini frequentò gli studi di architettura della U.C.L.A., in California nel 1957, per proseguire poi con il master in Fine Arts a Los Angeles. Iniziò a lavorare come cartellonista pubblicitario, successivamente raggiunse il mondo del cinema e della televisione americana, svolgendo diversi compiti e mansioni come lo svolgere bozzetti, realizzare pitture per la scena, essere aiuto scenografo e scenografo. Torna in Italia nel 1972 per stabilirsi a Bologna e dedicarsi al proseguimento dei suoi studi e ricerche artistiche, come l’allestimento di Piazzetta Betlemme, ribattezzata “Piazzetta degli Inganni” nel 1982.

Le scenografie ambientali che Pellegrini realizzò per la piazza furono diverse: la visione di cui si gode oggi non è infatti quella originaria degli anni Ottanta, ma si tratta dell’ultimo intervento eseguito agli inizi degli anni 2000.

 

 

Scenografia ambientale del 1982

La realizzazione delle prime scenografie ambientali della piazzetta si deve alla decisione del comune di ospitare in questo spazio una manifestazione estiva nel 1980: si trattava di una particolare rassegna cinematografica, dedicata al cinema comico, che si proponeva l’obiettivo di riqualificare quella che era all’epoca una zona degradata del paese. In un primo momento si decise di allestire la piazzetta con quello che viene definito in gergo tecnico “un sistema di quinte e fondali” per rendere più attrattivo il luogo ed incuriosire il maggior numero di persone a recarsi alla rassegna. Dopo due anni, si decise di cambiare l’allestimento coinvolgendo direttamente gli abitanti della piazzetta e le facciate delle loro case, che vennero dipinte, previo loro consenso. Ad eseguire la decorazione dei muri degradati di queste case, venne chiamato Gino Pellegrini, da poco rientrato dagli Stati Uniti.

Lo scenografo decise di omaggiare il cinema con una commistione di mondo rurale e mondo western, arricchito da tromp l’œil, all’insegna dell’ironia e della contaminazione dei “generi” e dei tempi, con l’obiettivo di catturare lo spettatore in un’illusione cinematografica che in quel determinato spazio e in quel determinato tempo voleva essere la realtà del luogo.

Le rassegne estive del 1982 e 1983 si arricchirono ulteriormente grazie ad alcuni momenti che precedevano, intervallavano o susseguivano la proiezione del film: in questi intermezzi erano previsti spettacoli di ogni genere grazie ad un piccolo palco allestito sotto lo schermo.  Gli spettatori avevano quindi la possibilità di assistere alle performance di illusionisti, musicisti e cantanti. Inoltre, era possibile bere e mangiare uno spazio allestito con sedie e tavolini e messo a disposizione da un bar collocato proprio in uno degli edifici della piazzetta. La convivialità della piazzetta predisposta per la rassegna attirò un vasto pubblico, soprattutto locale, e una volta terminata la manifestazione la scenografia sulla facciata delle case rimaneva a far compagnia durante l’anno ai suoi abitanti e ai passanti.

 

Fig. 1 - Scenografia realizzata per la rassegna cinematografica, 1982. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1982-2#gallery/85/1.

 

Scenografia ambientale del 1990

Nel 1987 Pellegrini eseguì un secondo intervento più riflessivo poiché vedeva l’intrecciarsi di paesaggi padani, animati da campi dorati e colline incorniciate da un tipico cielo azzurro, e cinema, in un gioco pittorico che si faceva ancora più sottile con l’immagine di un plausibile cantiere. La scenografia, infatti, serviva da decorazione fittizia per le finestre delle case rinnovate che si affacciavano sulla piazzetta, con l’incursione di qualche gallina dipinta in sosta sulla finta impalcatura.

 

Fig. 2 - Scenografia realizzata nel 1990. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1982#gallery/110/10.

Scenografia ambientale del 1998

Nel 1998 venne realizzata una scenografia in grado di stupire grandi e piccini: da un lato impalcature che con corde, pali e mollette sorreggevano il bucato e le scarpe appena lavate, sull’altro lato un tripudio di ortaggi, verze, teste di aglio e cavolfiori giganti e animali realizzati fuori scala, tra i quali alcuni fantastici, come asini alati, oche e rane dalle altezze e grandezze innaturali.

Fig. 3 - Scenografia realizzata nel 1998. Fonte: https://www.ginopellegrini.it/?portfolio=piazzetta-betlemme-1992#gallery/136/13.

 

Scenografia ambientale del 2004

Nel 2002, viste le condizioni di abbandono della piazzetta e dello stato rovinoso dell’allestimento murale, un’associazione volontaria di cittadini si adoperò per far restaurare le decorazioni delle facciate per far ritornare al suo originario splendore un luogo così particolare e caratteristico del paese.  Due anni dopo, nel 2004 Pellegrini intervenne nuovamente sull’allestimento scenografico della piazzetta dando vita a una scenografia di ortaggi e animali: la vera essenza dell’Emilia. Su un lato la predominanza di vegetali fuori scala incorniciavano e animavano le facciate e i portoni delle case, sull’altro, animali a grandezza innaturale abitavano i vari spazi della facciata. A chiudere la piazzetta a sud una parete in cui vengono fatti convivere il giorno e la notte, rappresentati dalla luce del giorno e da un gufo al chiaro di luna. Alcuni dei portoni decorati sono stati sostituiti negli anni da differenti entrate, ma alcuni di essi sono conservati e custoditi con affetto dai residenti all’interno delle loro abitazioni.

 

 

Dal 2004 ad oggi

Sin dal primo intervento nel 1982 ad oggi la piazzetta non ha mai subito atti vandalici o alcun tipo di sfregio, anzi è stato un luogo verso il quale si è manifestata sempre una particolare attenzione. Ancora oggi si offre come scenario per iniziative e laboratori e grazie al ristorante “Trattoria la piazzetta” è possibile degustare piatti della tradizione locale in un’atmosfera davvero suggestiva. Nei mesi estivi vengono messi in piazza dei graziosissimi tavoli, mentre nei mesi più freddi si viene ospitati all’interno del locale che ha mantenuto negli anni il pavimento e la struttura originali, gli arredi rustici e il portone d’ingresso con lo splendido pavone dipinto da Pellegrini come elemento decorativo appoggiato a una parete.

La cura e l’attenzione riservata a questa preziosa e caratteristica piazzetta continua tutt’ora, come il riconoscimento e l’ammirazione per il suo artista. Lo dimostrano le varie iniziative organizzate dal Comune di San Giovanni in Persiceto durante l’anno 2021 con la rassegna “Parlami di Gino”, istituita per omaggiare l’artista nell’anno in cui sarebbe ricorso il suo ottantesimo compleanno. L’iniziativa maggiore è stata quella inaugurata il 9 di luglio 2021: una mostra intitolata “Come un fiocco di neve. La vita artistica di Gino Pellegrini” allestita all’interno dello spazio espositivo suggestivo della Chiesa di San Francesco, visitabile fino al 19 settembre (per gli orari è possibile consultare i seguenti siti https://www.ginopellegrini.it/?page_id=2087; https://www.comunepersiceto.it/2021/07/10/inaugurata-la-mostra-come-un-fiocco-di-neve-la-vita-artistica-di-gino-pellegrini/).

La mostra è stata curata da Osvalda Clorari, la compagna di vita e collaboratrice di Gino Pellegrini, e promossa dal Comune di San Giovanni in Persiceto assieme all’Officina Pellegrini, in collaborazione con l’associazione “Ocagiuliva”. Il corpus della mostra consta di scritti, fotografie, lavori originali dell’artista e curiosità ed aneddoti relativi alla sua carriera e produzione. L’allestimento all’interno della chiesa di San Francesco conferisce ancora più fascino all’esposizione, rendendo possibile per il visitatore un’esperienza immersiva tra opere moderne e architetture del passato in dialogo tra loro. La produzione di Pellegrini viene esposta in maniera tale da poterne cogliere le sfumature attraverso un percorso che pur non rispettando la linearità temporale rivela l’armonia e la versatilità delle sue opere. Altra dimostrazione di interesse per l’opera di Pellegrini è stato il restauro effettuato nel mese di luglio 2021 in Piazzetta Betlemme per ripristinarne alcuni particolari.

 

 

 

Le immagini 6,7,8 e 9 sono state realizzate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

“Il paese degli inganni” edito da Mazzotta/fotografia, 1983. Foto di Corrado Fanti, testi di Renzo Renzi.

“Il ciclo pittorico di Piazza Betlemme in San Giovanni in Persiceto” dipinto da Gino Pellegrini. Apparati critici e filologici dell’Università del Progetto. Collana “Classici dell’illusione” 1992. Direzione dell’opera: Giulio Bizzarri, Ermanno Cavazzoni, Luigi Ghirri.

“È di scena Zavattini” di Daniela Buonafede, fotografie Di Stefano Cellai in Bell’Italia “Emilia-Romagna” ottobre 1997 Mondadori Editore.

 

Sitografia

https://www.ginopellegrini.it/?page_id=23

https://www.ginopellegrini.it/?page_id=20

https://www.comunepersiceto.it/la-citta-e-dintorni/cultura-3/itinerari-culturali/visita-al-centro-storico/piazzetta-betlemme/

https://www.comunepersiceto.it/2021/06/28/persiceto-omaggia-gino-pellegrini/?fbclid=IwAR0NIQS6LUzeOiUikgeB6lL0qSpYDvUcOA-5iIw5urcx8ssPtJ7u-yIgpjE

https://www.fondoambiente.it/luoghi/piazzetta-betlemme?ldc

Riferimento per la “Trattoria la piazzetta” http://www.trattoriapiazzetta.it/index.html


UN’ICONA BIZANTINA SIMBOLO DELLA CITTÀ DI GELA: IL QUADRO DI SANTA MARIA DELL’ALEMANNA

A cura di Adriana d'Arma

 

  

Come ogni anno, l’8 settembre si celebra la tradizionale ricorrenza in onore di Maria Santissima dell’Alemanna, divenuta patrona della città di Gela.

La festa, ancora oggi attesissima da parte della comunità cittadina, è un intreccio di cultura, storia e leggenda, memoria e fede; difatti, questa piccola icona d’arte bizantina (Fig. 1) costituisce la memoria storica di alcune vicende che coinvolsero la città di Gela nel periodo medievale.

 

Fig. 1 – Originale Icona bizantina, Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Il culto della patrona, infatti, risale al XII secolo e trae origine dall’Ordine religioso Cavalleresco dei Teutonici di Santa Maria d’Alemanna (Ordo domus Sanctae Mariae Teutonicorum) – antico ordine ospedaliero – che nel 1220 si stanziò nella città di Gela fondando una cappella con annesso ospedale. La stessa area scelta dai Teutonici coincideva inoltre con quella di un antico edificio di culto greco risalente al VII-VI sec. a.C.

Tuttavia, non abbiamo una versione unica circa l’origine dell’effigie sacra, ma interpretazioni diverse: una di esse vuole che essa sia stata portata da alcuni viandanti, i quali, essendo ospitati dagli abitanti della città, la donarono in segno di ringraziamento ribattezzandola come “Madonna della Manna” (riferito probabilmente al nome della pianta manna); un’altra ipotesi vuole il dipinto realizzato da un’artista di passaggio e lasciato in quel luogo; un’altra tradizione ancora sostiene invece che l’immagine sia stata portata in città proprio dal sopracitato Ordine Teutonico; è quest’ultima ipotesi, in definitiva, a sembrare la più plausibile in quanto legata anche alla sua etimologia: Alemanna deriva infatti da Alemanni, termine con il quale si indicavano le popolazioni germaniche, e dunque riconducibile all’Ordine Teutonico.

 

La storia locale, i racconti popolari e le generazioni più antiche, però, ci tramandano che tale icona fosse stata sotterrata in una buca e nel 1476 rinvenuta miracolosamente da parte di un contadino intento ad arare la terra nei pressi dell’antico Santuario.

Ancora oggi si narra che questo contadino, resosi conto che i suoi buoi non proseguivano più il cammino, ipotizzò si potesse trattare di un ostacolo nascosto sotto il terreno. Messosi a scavare nella speranza di trovare un tesoro nascosto, si ritrovò tra le mani l’effige della Santissima Vergine. Sempre secondo la leggenda, nello stesso istante in cui il contadino trovò l’icona, i suoi buoi di inginocchiarono.

Il punto esatto in cui venne rinvenuto il quadretto della Vergine viene indicato oggi dietro l’altare maggiore (Fig. 2) dell’odierno Santuario dedicato a Maria Santissima dell’Alemanna.

 

Fig. 2 – Luogo in cui venne trovato il quadretto della Vergine.

 

L’edificio religioso vide, nel corso dei secoli, susseguirsi numerosi rifacimenti: nel 1400 venne edificato il santuario vero e proprio (sulla base della preesistente cappella del 1220) che, a causa della precaria struttura, crollò; nei secoli successivi, tra il 1700 e il 1800, sul santuario vennero effettuati altri interventi di costruzione e demolizione fino al 1911, anno in cui l’edificio venne riadattato a lazzaretto durante un’epidemia di colera che interesso il territorio gelese.

Varie vicissitudini interessarono l’edificio, anticamente definito “chiesa rurale”, che venne dotato di colonne ioniche, di una facciata in stile neoclassico, di sei finestre e di un campanile a vela. Solo nel 2017, tuttavia, venero ripresero le attività di promozione e valorizzazione e grazie al sostegno dell’intera popolazione e del Comitato, il Santuario, luogo di culto e di pellegrinaggio per i devoti abitanti della città di Gela, oggi gode di una nuova vita sancita dalla definitiva riapertura avvenuta il 31 agosto 2020 (Fig. 3).

 

Fig. 3 – Odierno Santuario di Maria SS. d’Alemanna.

 

L’icona della Santissima Madonna dell’Alemanna è un piccolo dipinto (67x52 cm) realizzato su tavola di quercia. Esso raffigura la Vergine che poggia delicatamente la guancia sul viso del Bambino il quale, a sua volta, è tenuto delicatamente in braccio dalla madre.

La veste della Madonna è di color marrone e adornata con un manto di colore blu, la cui estremità è finemente decorata con fregi e volute a girali color oro.

Il Bambino Gesù offre allo spettatore uno sguardo assorto e pensoso ed è abbigliato con una veste color amaranto scuro, anch’essa decorata in oro.

Il dipinto si caratterizza per una forte ricchezza decorativa, che interessa, del resto, anche lo sfondo, anch’esso contraddistinto dalla predominanza assoluta dell’oro.

Sebbene la datazione e l’autore siano molto discussi, la critica tende a ricondurre l’icona all’attività di maestranze bizantine; la tecnica del fondo oro, usato soprattutto per la realizzazione delle icone, compare dapprima in ambito bizantino e successivamente nel XII secolo in Italia. Essa prevede la stesura sulla tavola di sottili lamine d’oro (foglie) ricavate grazie al lavoro degli artigiani i quali martellavano delle monete d’oro e successivamente le univano ad altri elementi e sostanze vegetali.

L’oro simboleggia l’Eterno, elemento alla base di quel messaggio cristiano di cui l’opera vuole farsi carico; l’oro esalta le figure, le estrae dal contesto reale isolandole nel tempo e nello spazio. Annulla ogni consuetudine e rapporto con la quotidianità, ogni riferimento a paesaggi familiari o edifici riconoscibile, lasciando allo sguardo la verità assoluta del Divino.

 

Questa meravigliosa icona bizantina è collocata presso il Duomo della città e non all’interno del Santuario a Lei dedicato, presso il quale è custodita una copia fedele (Fig. 4).

 

Fig. 4 - Copia dell’icona bizantina presso l’odierno Santuario.

 

In occasione della Festa patronale la città è in grande fermento: tra i diversi momenti, religiosi e non, vanno ricordati la solenne processione dell’icona, la spogliazione dei bambini di fronte alla Vergine dell’Alemanna e tradizioni popolari quali il Palio dell’Alemanna e il cosiddetto gioco del “paliantino”.

La ricorrenza della festa dell’Alemanna è ormai da anni una particolare tradizione popolare che attrae in chiesa una moltitudine di fedeli che, in quel giorno, vogliono rendere omaggio alla Patrona, alla Santissima Maria dell’Alemanna e a quell’icona tanto piccola quanto preziosa.

 

Le figure 2,3 e 4 sono state scattate dalla redattrice.

 

 

Bibliografia

Mulè, La chiesa Madre di Gela e il culto di Maria SS. D’Alemanna, Gela, Aliotta, 1985.

Vicino, Gela-Monumenti antichi, Raccolti di studi sui beni culturali e ambientali, Caltanissetta, Vaccaro, 1992.