FRANCESCO CIUSA

A cura di Denise Lilliu

 

 

Francesco Ciusa nacque a Nuoro nel 1883, e divenne uno dei più abili e conosciuti scultori della storia moderna della Sardegna. Quarto di sette figli, suo padre era un abile artigiano/falegname, motivo per cui il giovane Francesco acquisì familiarità, sin da piccolo, prima con le lavorazioni in legno per passare successivamente al gesso e al bronzo.

 

A causa della precoce morte del padre, Ciusa si ritrovò in condizioni economiche estremamente svantaggiose, e solo grazie ad un sussidio da parte del municipio di Nuoro egli ebbe la possibilità di formarsi come artista. A differenza di molti colleghi sardi, Ciusa non era autodidatta, e grazie a questi aiuti ebbe modo di partire per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove trovò nuovi stimoli e sollecitazioni culturali. A Firenze venne seguito da alcuni importanti maestri e stabilisce delle amicizie con personalità molto note nel mondo dell’arte come Giovanni Fattori, Domenico Trentacoste, Plinio Nomellini, Libero Andreotti e Lorenzo Viani.

Nel 1904 l’artista tornò in Sardegna, questa volta però a Sassari da un suo caro amico, Salvatore Ruju.  A Sassari anche Giuseppe Biasi, altro grande artista, lo accolse subito nel suo studio. Nello stesso anno, sostenuto dai colleghi, Ciusa presentò a Nuoro la sua prima esposizione nella vetrina di un negozio, prima di stabilirvisi nuovamente l’anno successivo.

Mentre Grazie Deledda incoraggiò sin da subito Ciusa a partire, il brillante scrittore Salvatore Satta lo provocò dicendogli: “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”. È proprio a fronte di questa frase che Ciusa raccolse il coraggio e ritornò in Sardegna, nonostante l’ambiente fiorentino gli offrisse maggiori opportunità di carriera in ambito artistico rispetto all’ambiente svantaggiato e penalizzante dell’isola. L’opera più importante di questo periodo è La Madre dell’Ucciso (1906).

La Madre dell’Ucciso è una scultura in gesso, attualmente esposta alla galleria civica di Cagliari. Dell’opera pare esistano, complessivamente, altre cinque versioni in bronzo, dislocate in luoghi diversi. Una venne immediatamente fusa dopo il successo riscontrato alla Biennale di Venezia del 1907, l’altra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, una terza per la Galleria d’Arte Moderna di Palermo e le ultime due concepite per un museo londinese e per la tomba dell’artista nella chiesa di San Carlo a Nuoro. L’opera costituì un punto di svolta nella carriera dell’artista, in quanto è con La Madre dell’ucciso che Ciusa diede inizio a una ricerca più propriamente simbolica. Ciusa scelse di partecipare con questo lavoro alla Biennale di Venezia del 1907, dopo aver avuto qualche esitazione e ripensamento. L’opera venne collocata in una sala che custodiva opere di altri artisti molto importanti come Rodin ma, nonostante ciò, non tardò ad essere notata da un grande critico del Corriere della sera, Ugo Ojetti.

L’opera raffigura una vecchia contadina accovacciata su sé stessa, seduta per terra mentre compie il rito nuorese della Sa ria, una veglia funebre in memoria del figlio, morto assassinato da tre banditi dopo un conflitto nelle campagne circostanti. L’episodio era molto probabilmente legato al fenomeno del banditismo e delle faide. Nello specifico, pare che la vittima fosse stata punita per aver rubato dei maiali. Quella raffigurata da Ciusa, in realtà, non era la vera madre dell’ucciso, ormai deceduto, ma una ragazza a cui l’artista chiese di posare.

Il tema dell’opera non è affatto Casuale: Ciusa conosceva bene la famiglia coinvolta e la vittima, e l’idea di realizzare la scultura venne all’artista il giorno immediatamente successivo alla tragedia. All’epoca l’artista era poco più che adolescente, aveva 14 anni. La voce dell’omicidio si era sparsa velocemente nel paese, e le persone, tra cui lo stesso artista, si erano recati sin da subito sul luogo dell’accaduto.

La donna è ritratta in una posa rigida, statica, e lei è resa dall’artista con grande naturalismo. Tra i dettagli si notano le rughe del viso, ben accentuate, e le vene delle mani che richiamano alla mente la Giuditta di Donatello. L’artista è anche molto abile a conciliare la solidità volumetrica della figura con il ritmo delle linee dell’abito e del copricapo.

 

Nel 1908 Ciusa si trasferì a Cagliari, dove cominciò un periodo di fruttuoso lavoro che culminò con la realizzazione di alcune delle sue opere più belle. La Filatrice (1908-1909) è la statua con cui Ciusa partecipò, per la seconda volta, alla Biennale, sintomo della sua educazione e della sua forte passione per la statuaria italiana del Rinascimento.

Della Filatrice esistono due versioni. Una, in bronzo, è custodita all’interno del Palazzo Civico di Cagliari; l’altra, in gesso, è invece collocata, sempre a Cagliari, nella Galleria Comunale d’arte ed è la replica, dallo stampo originale, realizzata dall’artista in seguito al danneggiamento della prima versione.

La statua rappresenta la figura di una filatrice, uno dei mestieri più importanti della tradizione dell’isola, ritratta in piedi, con le braccia che vanno a chiudersi verso l’alto mentre la mano mantiene il fuso. La stessa donna, poi, pare assumere la forma del fuso. Le maniche molto ampie creano due cerchi, mentre la gonna dell’abito sardo è stretto tra le gambe, e i piedi sono nudi. La fisionomia del volto della donna ricorda vagamente i ritratti femminili della Firenze del Quattrocento, e, come per La Madre dell’Ucciso, anche nella Filatrice Ciusa riesce ad arrivare ad un risultato di grande solennità.

 

Gli anni a seguire non furono affatto semplici. Se da un lato l’artista espanse la sua produzione di opere, dall’altro si ritrovò a fare i conti con le due guerre e con le consuete difficoltà economiche. Nel 1919 si avvicinò alla ceramica, tecnica che già aveva sperimentato in passato, fondando inoltre la Manifattura SPICA a Cagliari. In questo periodo partecipò anche a diverse esposizioni: nel 1922 alla Mostra sardo-piemontese di Alessandria, e nello stesso anno partecipò nuovamente alla Biennale di Venezia. L’anno successivo prese parte alla Quadriennale Torinese.

Negli anni a seguire Ciusa continuò a produrre opere, molte tra cui commissionate dai diversi comuni della Sardegna, come il Monumento ai caduti di Iglesias o il Monumento a Sebastiano Satta a Nuoro. Durante la Seconda Guerra mondiale, l’artista soggiornava a Cagliari, dove ricoprì la cattedra di Disegno presso la facoltà di Ingegneria dell’università. Nel capoluogo sardo, tra le città più colpite dai bombardamenti che non risparmiarono il suo studio e le sue opere, Ciusa trascorse gli ultimi anni della sua vita, spegnendosi nel 1949 dopo una lunga malattia.

 

 

Bibliografia

Altea, Francesco Ciusa, Nuoro, Ilisso, 2004.


VILLA BORROMEO VISCONTI LITTA: UNA VILLA “DI DELIZIE” a LAINATE

A cura di Beatrice Forlini

 

 

 

Villa Borromeo Visconti Litta è una delle attrazioni culturali più affascinanti di Lainate, cittadina alle porte di Milano, dove a fine Cinquecento il conte e mecenate d’arte Pirro I Visconti Borromeo (1560 ca-1604) fece costruire la sua grandiosa dimora. Questa, ancora oggi, incanta per le sue innumerevoli e affascinanti opere d’arte e di architettura, dal bellissimo ninfeo al grande giardino che la circonda.

La storia di questo complesso inizia proprio alla fine del XVI secolo quando il Conte Borromeo decide di ampliare questo suo vecchio possedimento terriero destinato a “riposteria” per prodotti agricoli, e di trasformarlo nella sua villa ufficiale di rappresentanza, chiamando all’opera eccellenti artisti dell’epoca. Tra di essi si possono citare l’architetto Martino Bassi, i pittori Camillo Procaccini e il Morazzone, Agostino Lodola e il Volpino oltre che agli scultori Francesco Brambilla il Giovane e Marco Antonio Prestinari.

Con il tempo questo luogo diventa quindi una vera e propria “Villa di delizie” dove poter ospitare grandi feste e ricevimenti degni di scrittori, intellettuali e sovrani di passaggio per la vicina Milano. Il Conte fa anche realizzare i giardini e il Palazzo delle Acque, propriamente detto Ninfeo (fig.1) per il quale affida il progetto a Martino Bassi. Si tratta di un luogo ancora oggi di grandissima suggestione per le sue decorazioni e per gli spettacoli idraulici con fontane e schizzi dal pavimento e dai rivestimenti. Il Ninfeo si apre in un susseguirsi di grotte artificiali decorate da stalattiti in tufo, conchiglie e pietre dure, oltre alle stanze rivestite a curiosi mosaici di ciottoli, realizzati da Camillo Procaccini.

 

Sappiamo inoltre che il Ninfeo era concepito per ospitare una bellissima collezione di dipinti, sculture e curiosità, in parte copie dall'antico o michelangiolesche ma anche con diverse creazioni originali; purtroppo, però la collezione è stata impoverita da una serie di dispersioni tra Ottocento e Novecento, e la stessa sorte è toccata anche alla collezione di dipinti, gravemente impoverita e ormai ricostruibile solo attraverso i vecchi inventari e fonti scritte. Il Ninfeo, però, può essere considerato ancora oggi uno degli esempi ingegneristici più importanti e significativi del genere, ed è ancora attivo grazie a sofisticati meccanismi idraulici e all’alimentazione dell’immenso serbatoio delle acque.

Sempre Camillo Procaccini, affiancato dal fratello paesaggista Carlo Antonio e da altri collaboratori, tra il 1602 e il 1603 realizza la decorazione ad affresco di una serie di ambienti al piano terra dell'ala più antica dell'edificio residenziale; qui, in elaborate incorniciature di mascheroni, animali mostruosi e grottesche, si inseriscono rappresentazioni mitologiche e classiche attraverso allegorie e imprese araldiche. Questi affreschi sono stati in larga misura strappati durante i lavori di restauro che hanno coinvolto la villa e il giardino a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma sono stati poi ricollocati, permettendo così ai visitatori di recuperare questa cultura figurativa Cinquecentesca, seppur vanno tenuti in considerazione i danni intercorsi dalla realizzazione avvenuta più di tre secoli prima.[1]

Fino alla prima metà del Settecento la Villa mantiene un impianto invariato con l’originale struttura a pareti in laterizio intonacato con un portico sostenuto da colonne litiche a pianta rettangolare e uno scalone a due rampe in posizione angolare.

È invece con Giulio Visconti Borromeo Arese, ultimo erede della dinastia, che vengono realizzati i primi interventi che ne modificano l’assetto originario: egli fa costruire il “Quarto Nuovo” (fig.2), un corpo di fabbrica in laterizio a chiusura della corte d'ingresso e perpendicolare alla struttura Cinquecentesca, caratterizzato da una pianta rettangolare, due ali laterali poco sporgenti rivolte al giardino e una sala da ballo al piano nobile.

 

Sempre in questo periodo vengono rimodellati il Ninfeo e il giardino, sotto la guida dell’architetto e pittore ornatista dell’Accademia di Brera, Giuseppe Levati, con l'inserimento di un emiciclo e della fontana di Galatea (fig.6), formata da una bellissima vasca circolare corredata da statue degli artisti ticinesi Francesco e Donato Carabelli. Poi per volere del nipote di Giulio, il marchese Pompeo Litta, le facciate del Ninfeo vengono rivestite da concrezioni calcaree che lo armonizzano ancora meglio al contesto naturalistico del giardino, dopo l’affermazione del gusto per i giardini all'inglese. Dopodiché all’inizio del XIX secolo viene anche inserito un boschetto paesaggistico, molto di moda al tempo, animato da lievi dislivelli del terreno, con scomparti verdi ad andamento irregolare dove prevalgono piante ad alto fusto e cespugli.

 

Oltre alle sue maestose architetture e decorazioni, infatti, la parte più significativa di questo grandioso complesso rimane la grande zona lasciata a giardino, di circa tre ettari e probabilmente sin dalle origini suddivisa in quattro grandi scomparti scanditi da piante di agrumi in vaso, con due serre fredde destinate al ricovero invernale degli agrumi e, successivamente, da due serre calde per le specie più esotiche. È interessante da questo punto di vista una descrizione redatta nel 1840 da un botanico che rende l’idea delle grandi varietà di piante che dovevano essere presenti nel maestoso giardino, tra cui ad esempio ananas, banani, caffè, orchidee, ibisco e gardenie. Oggi nel parco si contano alberi appartenenti a ben più di 50 specie diverse e arbusti classificabili in 15 specie. Di notevole interesse sono anche due serre in ferro e vetro in stile Liberty che nel 2015 sono state oggetto di una importante riqualifica, grazie a un finanziamento da parte della Fondazione Cariplo.

I primi restauri e la riattivazione dei giochi d'acqua della Villa si devono ad Alberto Toselli che rileva la proprietà nel 1932 dopo il declino della famiglia Litta e la cessione della Villa al Demanio dello Stato nel 1866; è solo, però, in seguito all'acquisto da parte del Comune di Lainate nel 1971 e agli interventi di recupero del Ninfeo dopo un lungo periodo di abbandono, che l’arte e la storia di quella che era stata una grandiosa dimora hanno ripreso a stupire i visitatori con anche eventi a tema e mostre temporanee. (fig. 3,4,5,7,8)

 

 

Note

[1] Scheda SIRBeC Villa Visconti Borromeo Litta-complesso consultabile online all’indirizzo: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede-complete/MI100-03427.

 

 

Sitografia

Sito Villa Litta: https://www.villalittalainate.it/index.php

Scheda SIRBeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/MI100-03427/


UN’UMANISTA D’ECCEZIONE: GIOVANNI PONTANO E LA CAPPELLA PONTANO

A cura di Alessandra Apicella

 

Giovanni Pontano

Nel contesto napoletano la parabola dell’Umanesimo fu strettamente legata alla figura di un sovrano, Alfonso I, che, conquistato il potere nel 1442, inaugurò la stagione aragonese, destinata a durare fino alla fine del secolo. Conscio dell’importanza e del valore politico che il mecenatismo poteva avere in un regno come quello napoletano, intorno a lui riunì un’intera generazione di umanisti e letterati di grande spessore. Figure come Antonio da Pisa, Andrea dell’Aquila, Bartolomeo Facio e Lorenzo Valla furono solo alcune delle autorevoli personalità che gravitarono intorno alla figura del sovrano aragonese e che coniarono l’immagine di una corte all’avanguardia e dinamica. Tra questi, non si può non menzionare un personaggio di eccezione che si impose immediatamente in questo panorama: Giovanni Pontano.

 

Di origine umbra, dopo un’iniziale formazione nella terra natìa, Pontano si trasferì nella più grande città di Napoli, alla corte di Alfonso I, dove si guadagnò immediatamente la protezione e la simpatia del più anziano letterato di corte, il Panormita. Sempre più legato alla dinastia aragonese, Pontano, già assunto nella Cancelleria nel 1452, instaurò un rapporto sempre più solido negli anni seguenti, durante il regno di Ferdinando I d’Aragona, detto Ferrante.

 

Letterato prolifico in ogni campo, godeva di un’erudizione greca e latina senza paragoni, che gli permise di misurarsi con opere che andavano dalla lirica latina di materia amorosa, sulla scia catulliana, alla produzione di dialoghi più impegnati dal punto di vista tematico, dalla caratura più ufficiale e più connessa alle sue mansioni a corte. Guadagnata una posizione di rilievo all’interno dell’Accademia del Panormita, di cui avrebbe preso il comando alla morte del letterato, divenne precettore per Alfonso duca di Calabria e iniziò ad occupare un ruolo di primo piano nell’ambito della politica di Ferrante. All’acme della sua carriera umanistica e politica, dopo aver ricevuto l’incoronazione come poeta laureato a Roma nel 1486 e la nomina a primo segretario reale l’anno successivo, la discesa del re francese Carlo VIII e l’inizio delle guerre d’Italia comportò un tracollo generale, che influenzò anche la sua produzione letteraria, più incline adesso ad una visione sconsolata delle vicende umane.

 

La Cappella Pontano

Legata a questo periodo sia da un punto di vista cronologico che simbolico è la committenza del mausoleo di famiglia, la cosiddetta Cappella Pontano.

 

Edificata durante gli anni Novanta del Quattrocento, la basilica sorge addossata alla chiesa di Santa Maria Maggiore, e dalla sua posizione è possibile identificare un carattere peculiare. La cappella è infatti posizionata come un’antica tomba romana, a lato di una strada: via dei Tribunali, una delle principali via della città. L’edificio nasceva come cappella gentilizia, in quanto di famiglia non nobile, ed era affiancata da quello che era il suo palazzo, attualmente non più esistente e sostituito intorno alla prima metà del XX secolo dal palazzo dell’Istituto Tecnico Commerciale Armando Diaz. La chiesa, adibita a mausoleo, è dedicata alla Vergine e a San Giovanni Evangelista e non presenta una paternità certa dal punto di vista architettonico. Le ipotesi oscillano, e i nomi che si fanno sono quelli di due personalità eminenti, fra’ Giocondo o Francesco di Giorgio Martini. L’edificio presenta alcune somiglianze, nella struttura, con un sepolcro in laterizio a forma di tempio, il Tempio romano del Dio Redicolo, databile intorno al II secolo d.C. e che, secondo la maggior parte degli studiosi, dedicato alla nobile donna romana, Annia Regilla.

 

Per quanto riguarda il progetto risulta accreditata l’ipotesi per cui Pontano lo avrebbe ottenuto da qualche architetto fiorentino, probabilmente grazie ai suoi contatti nel mondo erudito, da lui considerato e fatto proprio e poi messo in opera grazie a maestranze locali.

La cappella si presenta come un semplice blocco rettangolare di piperno, con due porte di accesso. Una, su via dei Tribunali, presenta anche delle decorazioni floreali, e quella di fianco alla chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. La facciata che si mostra su via del Sole, invece, è interamente di piperno. Le pareti sono decorate con paraste composite, poggianti su un alto basamento, ed i capitelli, ornati in modo molto raffinato, reggono una trabeazione continua che interessa tutto l’edificio. La parte conclusiva, in altezza, prevede un ampio e alto attico, volto a richiamare l’impianto architettonico trionfale. L’edificio prevede due ingressi e sui lati sono poste alcune inscrizioni che accompagnano la presenza di finestre. Queste iscrizioni, le tabulae marmoree, riportano, in latino, con un’elegante scrittura all’antica, alcuni motti di tipo civico, scritti dallo stesso umanista, e aventi come modello la produzione e la filosofia liviana.

 

L’ingresso principale, spoglio ma estremamente elegante nella sua semplicità marmorea, prevede nella parte alta un’ulteriore inscrizione, con i nomi dei santi, del committente e dell’anno di costruzione, sormontati dagli stemmi di famiglia dei Pontano e dei Sassone, famiglia della moglie, venuta a mancare nel marzo del 1490 e a cui è intimamente connesso il progetto di questo edificio.

 

Passando all’interno, in linea con l’esterno, è presente un unico grande vano rettangolare con copertura a botte. Anche qui sulle pareti sono poste delle epigrafi, in questo caso sia in greco che in latino, tanto di mano propria dell’umanista quanto citazioni di carattere funerario. Per quanto riguarda quelle ideate appositamente dal poeta, alcune di queste epigrafi furono pensate per familiari che sarebbero stati sepolti lì in futuro, tra cui lo stesso Pontano. Questi pensieri furono poi anche raccolti in un libro successivamente pubblicato, il De Tumolis.

In una generale tendenza armonica tra architettura e colori, il pavimento maiolicato crea un forte contrasto con le pareti bianche. Infatti, risulta costituito da formelle esagonali con motivi decorativi che vanno dai ritratti, agli stemmi, da altre iscrizioni a figure allegoriche, di cui è possibile apprezzare l’evidente influsso orientaleggiante.

 

Altra nota di colore si attesta nell’altare marmoreo contenente la reliquia pagana del braccio di Tito Livio e sormontato da un affresco della Vergine col Bambino e dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, attribuito alla mano di Francesco Cicino.

 

Abbandonata per molto tempo ed utilizzata nei modi più disparati, come abitazione o ancora come punto di vendita ortofrutticolo, la cappella solo nel XVIII venne sottoposta ad un primo intervento di restauro, per volere del re Carlo di Borbone, che permise il mantenimento delle forme dell’edificio originale e la possibilità di riportarlo alla sua funzione originaria. Utilizzata anche come deposito di bare durante la Seconda Guerra Mondiale, dal 1992 la cappella è entrata in custodia del Dipartimento Cultura del Comune di Napoli che ne ha permesso l’apertura e la fruibilità al pubblico.

 

L’opera, priva di paralleli analoghi sia in Italia centrale che settentrionale, si presenta come decisamente insolita, fondendo insieme elementi antichi e pratiche cristiane, nell’ottica di un rapporto quasi osmotico tra queste realtà. In più, il committente risulta essere un’umanista di prim’ordine che partecipa anche attivamente al progetto e alla sua decorazione lasciando una propria impronta e rendendo l’edificio, difatti, unico nel suo genere.

 

 

 

Bibliografia

Giancarlo Alfano, Paola Italia, Emilio Russo, Franco Tomasi, Letteratura Italiana. Dalle origini a metà Cinquecento, Mondadori Università, Milano 2018

Anthony Blunt, Architettura barocca e rococò a Napoli, edizione italiana a cura di Fulvio Lenzo, Mondadori, 2006

 

Sitografia

http://www.ilportaledelsud.org/cappella_pontano.htm

http://www.turismoanapoli.it/32-cappella-pontano-napoli.html

 

 

 


GIAMBOLOGNA: IL RATTO DELLE SABINE

A cura di Federica Gatti

 

 

Il fiammingo Jean Boulogne, noto in Italia come Giambologna, nacque nel 1529 a Douai, nel Nord della Francia, e compì il suo apprendistato in patria con lo scultore Jacques Dubroeucq. Dopo aver studiato ad Anversa ed aver avuto contatti con l’ambiente di Fontainbleau, compì un viaggio di istruzione a Roma, consueto per gli artisti europei, ma sulla via del ritorno, nel 1553, sostò a Firenze e lì si fermò definitivamente, entrando in sodalizio con il mecenate delle arti Bernardo Vecchietti, primo tramite con la corte del duca Cosimo e di suo figlio Francesco de’ Medici.

La sua capacità di restituire in forme plastiche la verità naturale e di scolpire corpi nudi all’antica, con particolari riferimenti alla scultura ellenistica, ma ricchi di bellezza vicine alla natura, resero Giambologna famoso nella rappresentazione di animali, ma fu con Il Ratto delle Sabine che raggiunse il suo maggior successo.

 

Era infatti la raffigurazione della figura umana in movimento e la relazione tra più figure ciò che lo interessava maggiormente. Questo gruppo scultoreo occupa un posto di rilievo sotto la Loggia dei Lanzi, collocata in posizione angolare vicino al Chiasso dei Baroncelli. Completato nel 1582, è l’incarnazione perfetta del gusto sofisticato per la composizione complessa e per un’arte destinata al piacere di pochi iniziati che piaceva al Granduca Francesco de’ Medici.

Le circostanze dell’inizio della realizzazione dell’opera e della sua commissione sono sconosciute, ma si sa che il progetto deve essere stato già in corso quando, in una lettera al Duca di Urbino datata 17 ottobre 1581, Simone Fortuna scrisse «presto uscirà fuori un gruppo di tre statue opposto alla Giuditta di Donatello nella Loggia dei Pisani»[1], dove verrà collocato nell’agosto del 1582.

La procedura che seguiva Giambologna per le sue sculture prevedeva la realizzazione di un piccolo bozzetto in cera, realizzato attorno ad un’armatura di fil di ferro. Successivamente, per offrire un’immagine più accurata della futura statua, realizzava un modello di terra[2], il quale concentrava una maggior attenzione sulle proporzioni. A questa fase potevano essere associati studi separati di dettagli del corpo, come ad esempio gli studi dei volti.

 

Infine, veniva realizzato un modello in gesso della stessa grandezza dell’opera, che veniva usato dagli assistenti della bottega come modello per la trasposizione in marmo. Uno dei suoi assistenti per le sculture in marmo, a partire dal 1574 circa, fu Pierre de Franqueville (italianizzato in Pietro Francavilla): proprio Il Ratto delle Sabine fu scolpito con l’aiuto di Francavilla, così come Ercole e il Centauro, collocato anche esso sotto la Loggia dei Lanzi, e le sei statue collocate nella cappella Salviati, all’interno della chiesa di San Marco a Firenze.

 

«E così finse, solo per mostrar l’eccellenza dell’arte, e senza proporsi alcuna istoria, un giovane fiero, che bellissima fanciulla a debil vecchio rapisse et avendo condotta quasi a fine questa opera maravigliosa, fu veduta dal Serenissimo Francesco Medici Gran Duca nostro, et ammirata la sua bellezza, diliberò che in questo luogo, dove or si vede, si collocasse»[3].

 

Come scrive Raffaello Borghini nel Riposo, l’intenzione originaria dell’artista fu quella di scolpire tre figure interagenti e in movimento, non quella di rappresentare il leggendario episodio romano del rapimento delle donne dei Sabini da parte dei compagni di Romolo: si tratta quindi della raffigurazione di un uomo maturo, un giovane e una donna, che il più giovane sottrae all’uomo più vecchio e meno forte di lui[4].

Solo grazie a Raffaello Borghini si arriva a definire l’episodio narrato dall’artista:

«gli fu detto, non so da cui, che sarebbe stato ben fatto, per seguitar l’istoria del Perseo di Benvenuto, che egli avesse finto per la fanciulla rapita Andromeda moglie di Perseo, per lo rapitore Fineo zio di lei, e per lo vecchio Cefeo padre d’Andromeda. Ma essendo un giorno capitato in bottega di Giambologna Raffaello Borghini, et avendo veduto con suo gran diletto questo bel gruppo di figure et inteso l’istoria, che dovea significare, mostrò segno di maraviglia; del che accortosi Giambologna, il pregò molto che sopra ciò gli dicesse il parer suo, il quale gli concluse che a niun modo desse tal nome alle sue statue; ma che meglio vi si accomoderebbe la rapina delle Sabine; la quale istoria, essendo stata giudicata a proposito, ha dato nome all’opera.»[5]

 

Per Giambologna il rapimento era metafora universale dell’amore che vince su tutto: aveva quindi dato forma a un soggetto eterno, di facile comprensione, che poteva alludere a vari episodi letterari (basti pensare, oltre al ratto delle Sabine, al rapimento di Elena oppure a quello di Proserpina), ma che veniva espresso senza l’utilizzo in un lessico troppo volgare.

L’opera è stata più volte messa a confronto con il precetto michelangiolesco della

 

«figura piramidale, serpentinata e moltiplicata per uno, doi e tre […] imperocchè la maggior grazia e leggiadria che possa avere una figura è che mostri il moversi, il che chiamano i pittori furia de la figura […] e per rappresentare questo moto non vi è forma più accomodata, che quella de la fiamma del foco […] si che, quando la figura avrà questa forma, sarà bellissima»[6],

 

anche se è molto lontana dalla tormentata spiritualità dei marmi michelangioleschi. Questo gruppo scultoreo, infatti, è concepito come risposta a un problema di natura formale: l’intrecciarsi delle tre figure, che sono anche tre tipi della scultura. In una lettera lo stesso Giambologna dichiara proprio di aver soltanto voluto «dar campo alla sagezza et studio dell’arte»[7], disinteressandosi al soggetto.

Il focus dato dall’artista all’opera è sulla naturalezza espressiva, veicolata dal corpo nudo, a esprimere la forza del giovane innamorato, la bellezza della donna e la perdita del vecchio marito. Nel tardo Cinquecento un rapimento d’amore era un tema dove il nudo era accettato anche dalla sensibilità religiosa della Riforma cattolica: esso vinceva ogni eccessivo erotismo grazie alla sua rappresentazione che rimandava ai modelli neoclassici e grazie alla riproduzione esatta dei lineamenti delle tre figure.

Una caratteristica che rende quest’opera uno dei maggiori successi di Giambologna è che le tre figure sono state realizzate a partire da un unico blocco di marmo, caratterizzate per una composizione che si sviluppa, ruotando, in maniera ascensionale, anche se le tre masse non si staccano troppo dal basso del volume, dove è concentrato il peso.

Solo successivamente all’attribuzione del soggetto dell’opera, Giambologna provvide a porre sulla base un rilievo bronzeo che permettesse di riconoscere il soggetto della scultura, ricollegandosi con il rilievo posto da Benvenuto Cellini alla base del Perseo.

 

La particolarità di questo gruppo scultoreo è esplicitata nella possibilità di poterlo osservare da più punti di vista. Il fuoco dell’opera è il giovane romano, al quale spetta la funzione di unione e intreccio: è infatti l’unica figura che ha punti di contatto con le altre due, essendo il vecchio e la fanciulla fisicamente scollegati. L’unico legame tra queste ultime due figure si può riscontrare nel gesto del sabino, il quale quasi si copre il volto con la mano, turbato dal rapimento della fanciulla.

 

Se osserviamo il gruppo con Palazzo Vecchio sullo sfondo possiamo notare come l’andamento dell’opera sia dato dalla postura del romano, quasi ad arco di circonferenza, la cui concavità viene ripresa proprio nella postura della schiena dello stesso. Il punto di forza della statua cade nella stretta delle braccia del giovane attorno ai fianchi della fanciulla, punto in cui può essere sintetizzato tutto l’episodio del rapimento. La stessa stretta di braccia, collegandosi alla rotazione della donna, con le gambe rivolte alla destra del romano, e del suo braccio destro che passa sopra il rapitore, definisce il movimento rotatorio del gruppo ma anche una vera e propria rappresentazione di forza.

 

Se si osservano le figure dando le spalle a Palazzo Vecchio si possono osservare tutte e tre le teste: gli uomini rivolgono entrambi lo sguardo verso l’alto, alla fanciulla, la quale guarda anche essa verso l’alto, al cielo.

 

I corpi delle figure, collegati tra di loro attraverso un incrocio di linee, si legano a formare due archi che curvano a destra. Da questo lato si può vedere come il fianco della fanciulla compensi il vuoto spaziale dettato dall’inarcamento del giovane. La giovane donna cerca di allontanare la testa dal romano, divincolandosi anche con le gambe, le quali risultano piegate. Una posizione più statica è, invece, quella assunta dal vecchio, seduto sopra ad una roccia.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Giambologna. Il Ratto delle Sabine e il suo restauro, a cura di Susanna Bracci e Lia Brunori, Sillabe, Livorno, 2016.

[2] Il modello di “terra cruda” di quest’opera è attualmente collocato all’interno della Galleria dell’Accademia, sempre a Firenze.

[3] R. Borghini, Il Riposo, appresso Giorgio Marescotti con Licenza de’ Superiori, Firenze, 1584.

[4] All’indomani della fondazione di Roma, Romolo si preoccupò inizialmente di fortificarla per poi passare, successivamente, al suo ripopolamento. Si rivolse quindi alle popolazioni vicine per stringere alleanze tramite le quali ricevere donne, ma nessuno rispose all’appello. Romolo decise quindi di istituire dei giochi detto Consualia ai quali invitò i popoli vicini. Ad un segnale che venne precedentemente stabilito, effettuato durante i giochi, i soldati romani presero in ostaggio le donne non sposate, lasciando il resto del popolo libero di fuggire.

[5] R. Borghini, Il Riposo, appresso Giorgio Marescotti con Licenza de’ Superiori, Firenze, 1584.

[6] G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte de la Pittura, 1584, tratto da É. Passignat, Il Cinquecento. Le fonti per la storia dell’arte, Carocci, Roma 2017

[7] Si tratta di una lettera scritta da Giambologna al duca di Parma Ottavio Farnese il 13 giugno 1579.

 

 

 

Bibliografia

Adorno, L’arte italiana. Le sue radici medio-orientali e greco-romane. Il suo sviluppo nella cultura europea. Dal classicismo rinascimentale al barocco, volume secondo, tomo secondo, Casa editrice G. D’Anna, Firenze, 1993.

Gasparotto, Giambologna, in Grandi Scultori vol. 12, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma, 2005.

Francini, Il Giambologna a Firenze, a cura di, testi di Francesco Vossilla, Firenze, 2009.

Giambologna. Il Ratto delle Sabine e il suo restauro, a cura di Susanna Bracci e Lia Brunori, Sillabe, Livorno, 2016.

Cricco, F. P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte. Dal Gotico Internazionale all’età barocca, vol. 2, Zanichelli, Bologna, 2017.

 

Sitografia

https://www.artesvelata.it/ratto-sabina-giambologna/ 


STRATIFICAZIONE STORICA DI CAPUA E LA BASILICA DI SANT’ANGELO IN FORMIS

A cura di Alessandra Apicella

 

 

 

Tra la seconda metà del VI e dell’VIII secolo, l’Italia si ritrovò divisa in due aree di influenza: quella che faceva capo alla popolazione dei Longobardi e quella dell’esarcato, sottoposta al protettorato dell’Impero d’Oriente con sede a Costantinopoli. Per quanto concerne i primi, questi discesero in Italia dalla Germania Orientale nel 568 e i loro domini nella penisola interessarono due ampie aree: la Langobardia Maior, estesa dalle Alpi alla Toscana e la Langobardia Minor, concentrata prevalentemente nell’area centro-meridionale, importante centro politico dopo la sconfitta del re longobardo Desiderio da parte di Carlo Magno (771). Dopo la battaglia, una delle figlie di Desiderio, Adelperga, sposò il nobile longobardo di origine friulane, Arechi, che divenne principe di Benevento nel 774 con il nome di Arechi II.

Una volta spostato l’asse di interesse politico e sociale verso il meridione, i principali insediamenti longobardi principali di quest’area, Benevento, Salerno e Capua, divennero centri di irradiamento culturale di prim’ordine fino all’arrivo della popolazione normanna che si fece promotrice dell’unificazione dei territori sotto il medesimo dominio, quello di Ruggero II, nel 1130.

Tra i suddetti centri meridionali, la città di Capua divenne ben presto crocevia e polo culturale, sia per la sua posizione strategica che per la sua origine romana. La storia di questa città si caratterizza per molte fasi di stratificazione storica che hanno permesso lo sviluppo di realtà culturali differenti, in perfetta armonia tra loro, attraverso l’usuale tendenza di guardare al passato e alle proprie radici.

L’antico nucleo originario della città di Capua, chiamata altera Roma da Cicerone, corrisponde all’attuale Santa Maria Capua Vetere. Distrutta dalle incursioni saracene per una guerra interna al ducato di Benevento, la popolazione fu costretta alla fuga e si rifugiò nella zona di Triflisco, per poi collocarsi, a distanza di breve tempo, su un’ansa del fiume Volturno.

 

Il sito di questa rifondazione era in piena pianura, sul luogo di quella che era stata Casilinum, il porto della Capua antica, rispetto a quella più arroccata precedente, ma altrettanto inespugnabile grazie alla naturale difesa data dal fiume. La nuova città si pose subito in assoluta continuità con il suo passato romano e alto medievale, ereditandone nome, cittadinanza e tessuto sociale. Mentre il sito antico finiva in un decadimento progressivo a causa di mancanza di attenzione, la nuova città divenne capitale del principato di Capua, e riuscì ad estendere il proprio controllo anche su altre cittadine e territori limitrofi, come nel caso della frazione di Sant’Angelo in Formis. Quest’ultima, ai piedi del monte Tifata, è attualmente parte integrante della provincia di Caserta, nell’ambito del comune di Capua, e particolarmente famosa per l’omonima chiesa.

 

Edificata in epoca longobarda e dedicata al culto di San Michele, molto diffuso presso la popolazione, ricostruita e decorata nel 1072, per volere dell’abate Desiderio, come attestato dall’inscrizione in facciata, la basilica sorge sugli antichi resti di un tempio preesistente pagano, dedicato alla divinità preromana di Diana Tifatina. L’interpretazione etimologica del termine “in Formis” risulta ancora in dubbio, molteplici sono le ipotesi come quella che deriverebbe dal termine latino forma (acquedotto), che potrebbe indicarne la vicinanza ad un condotto o anche la derivazione dalla parola informis (senza forma), alludendo, invece, ad una condizione più spirituale.

 

L’edificio riprende lo schema paleocristiano basilicale con nartece e tre navate, terminanti in tre absidi, inoltre, è priva di transetto. La navata centrale è il doppio delle laterali in ampiezza ed è anche più alta, come si evince anche dell’esterno, riprendendo il modello benedettino-cassinese. La divisione tra le navate è marcata da colonne di spoglio, con capitelli corinzi che sorreggono archi a tutto sesto. Sia nelle colonne che nel tessellato del pavimento è possibile identificare materiali di spoglio provenienti dall’edificio pagano precedente, rinvenuto nel 1877 e di cui la basilica ne ripercorre il perimetro con l’aggiunta poi delle tre absidi finali. L’edificio presenta una strutturazione al suo interno in arcate, finestre monofore nella parte alta ed un tetto a capriate lignee.

 

La chiesa è celebre soprattutto per un importantissimo ciclo di affreschi, di cui è possibile datare la produzione entro l’epoca dell’abate Desiderio, rappresentato in atto di omaggio dell’edificio a Cristo nell’abside. L’abate è rappresentato con l’aureola quadrata, simbolo utilizzato per le persone ancora in vita, ma già con fama di santità, ed è descritto con minuta attenzione nelle vesti e nel volto, tanto da risultare quasi un ritratto. Nel modellino della chiesa, tenuto dall’abate, si sono invece riscontrate delle differenze rispetto all’edificio vero e proprio, sia nella resa degli archi del nartece che nella posizione del campanile: gli archi nell’edificio sono a sesto acuto, mentre nell’affresco a tutto sesto, e il campanile, che nell’edifico si trova a destra, è spostato a sinistra nella raffigurazione. Questa differenza potrebbe essere riconducibile tanto a delle modifiche avvenute poi nell’edificio quanto ad una tendenza semplificatoria della raffigurazione nella resa dell’affresco. Nel ciclo di affreschi, che culmina con la rappresentazione di Cristo in trono circondato dai tetramorfi e dalla volta celeste, nell’abside centrale, si dispiega la rappresentazione della storia dell’umanità.

 

Nella navata centrale si possono osservare scene del Nuovo Testamento, come compimento dell’Antico, raffigurato invece nelle navate laterali, secondo la considerazione per cui il ciclo veterotestamentario si pone come una sorta di previsione del nuovo. Il ciclo è suddiviso in tre registri per ogni parete, per cui il primo registro della parete di destra si concludeva in maniera continua nel primo registro della parete di sinistra, avendo nella posizione del coro il punto privilegiato di visione. Ogni scena, per sottolinearne l’indipendenza dalle altre, è dipinta all’interno di finti riquadri delimitati da colonne. Nella zona dei pennacchi, tra la fine della colonna e l’inizio del registro, sono rappresentati perlopiù Profeti con cartigli o Sibille, che si rifanno alla scena poi rappresentata nel registro sovrastante. L’attenzione al dettaglio della resa volumetrica e naturalistica dei personaggi si evince dalle particolari scocche rosse sul viso, elementi usuali nella pittura romanica-bizantina dell’epoca.

 

Data la prestigiosa committenza (l’abate Desiderio) e la vicinanza di questo luogo alla sede di Montecassino, è probabile che le maestranze fossero le stesse della sede abbaziale, che rappresentava un vero e proprio crogiolo artistico in cui erano presenti sia maestri italiani di tradizione latina, sia maestri di origine orientale, depositari della tradizione greco-bizantina. Il ciclo nella sua organizzazione presenta un forte impatto narrativo, enfatizzato anche dalla presenza di didascalie, quasi come se fosse una trasposizione di un codice miniato. In più è importante la lettura delle singole scene, oltre che quella complessiva, nell’ottica di analizzare il punto preciso in cui sono poste e della visibilità di cui godevano verso i fedeli e i monaci.

Per quanto riguarda l’esterno dell’edificio, la facciata è preceduta da un portico a cinque arcate ogivali, di cui la centrale è più alta delle altre e presenta elementi marmorei di reimpiego. Immediatamente visibile è anche l’altezza maggiore della navata centrale, che si mostra all’esterno con una resa a salienti e l’aggiunta di tre monofore. Le arcate sono rette da colonne di marmo cipollino a sinistra e granito grigio a destra, e presentano capitelli differenti tra loro, in quanto elementi di spoglio. Alla destra della facciata è presente il campanile, con un basamento in blocchi di reimpiego ed un fregio con decorazioni zoomorfe; al secondo piano si attesta una fila di bifore.

 

L’atrio presenta alcune decorazioni in corrispondenza delle lunette degli archi, di cui quella centrale presenta una particolarità: è visibile, infatti, una doppia lunetta, dovuta ad un innalzamento della volta. La più bassa presenta una maestranza maggiormente bizantina, più grafica e meno volumetrica; al contrario, quella più in alto, databile ad un intervento successivo, oltre a presentare una gamma cromatica più sgargiante, prevede anche una resa più dinamica delle figure di Cristo e degli angeli.

 

La basilica di Sant’Angelo in Formis riesce a racchiudere in sé secoli di storia che si sono propagati nel corso del tempo e che si mostrano attraverso dettagli e riusi di elementi di spoglio in perfetta armonia tra di loro, come parte integrante di una storia comune che racconta e mostra la natura caleidoscopica e artistica del meridione italiano.

 

 

Bibliografia

Bertelli C., Invito all’arte 2. Il Medioevo, edizione azzurra, scolastiche Bruno Mondadori, 2017

Bonelli R., Bozzoni C., Franchetti Pardo V., Storia dell’architettura medievale, editori Laterza, 2012


LA MASSERIA BRUSCA, IL GIARDINO DEL TEMPO SOSPESO

a cura di Letizia Cerrati

 

 

 

La Masseria Brusca sorge nel territorio di Nardò, ai bordi della strada vicinale che porta dalla città alla litoranea ionica, in direzione di Torre Inserraglio, Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

Potrebbe sfuggire allo sguardo distratto del visitatore di passaggio, protetta dall’anonimato di una piccola rientranza sul ciglio della strada.

La si raggiunge percorrendo un’ampia strada, immersa in un paesaggio rude e selvatico di terra rossa, punteggiato di orticelli, muretti a secco e pale di fichi d’india,

I panorami salentini evocano nell’immaginario collettivo una peculiare tipologia architettonica, quella della masseria.

Talune di un bianco abbacinante spiccano tra le zolle rosse di terra salentina, comprendendo al loro interno ampi cortili, fecondi terreni coltivabili, aree destinate al pascolo, che coesistono in armonia con sobrie dimore private.

La dimensione agreste della Masseria Brusca echeggia nel suo toponimo, che parrebbe derivare dall’omonima erba spontanea, nota anche come erba cavallina, anticamente utilizzata per strigliare il manto dei cavalli, da cui in seguito prese il nome la moderna spazzola con la medesima funzione.

La struttura fu costruita nel Cinquecento come abitazione rurale, costituita da una grande torre, utile anche per l’avvistamento degli invasori turchi, da stalle, fienili e aie, circondata da un alto recinto di pietre munito di paralupi[1].

A quel tempo la masseria era di proprietà della famiglia Carignani, nel 1721 passò nelle mani della famiglia Dell’Abate, in particolare del chierico Gian Vincenzo e poi del nipote Francesco Maria.

Seguendo una tendenza tipica della metà del Settecento i possidenti decisero di apportare notevoli modifiche all’edificio.

Si assistette in quel periodo ad un mutare della destinazione d’uso delle masserie: l’originaria funzione difensiva permaneva come mera reminiscenza, mentre acquisiva rilievo la volontà dei proprietari di rendere la costruzione più graziosa e confortevole.

Le masserie diventarono così luoghi di villeggiatura, connotate da caratteristiche architettoniche che le resero rifugi riposanti in cui i proprietari potevano ripararsi dal frastuono della quotidianità.

Lontani dai doveri, immersi in una rigenerante dimensione panica che coincideva con un nostalgico ritorno alle origini, alla genuina vita campestre, vi trascorrevano le loro giornate, anche se spesso soltanto per il periodo estivo, nei mesi della vendemmia o della mietitura.

Fu quindi coi Dell’Abate che la masseria acquisì note signorili, impreziosita da un sistema composito di giardini chiusi.

Nuovi ambienti vennero accorpati alla torre originaria ed il prospetto si arricchì di sette imponenti archi a tutto sesto sostenuti da pilastri, sui quali fu innalzata una vistosa loggia.

Gli archi sono tutti chiusi, ad eccezione di uno che, aperto su un lungo androne, conduce agli ambienti interni della masseria posti al piano superiore e di un altro che porta ad un cortile di servizio: corredano la facciata sette porte finestre.

Restauri e interventi di manutenzione sono sempre stati condotti nel rispetto delle caratteristiche originarie e delle peculiarità architettoniche della masseria, che conservandosi intatta si presta ad essere utilizzata come set cinematografico.

 

Il paramento murario esterno prosegue sulla sinistra con una piccola cappella palatina in onore della Madonna Immacolata, edificata nel 1736.

La facciata della cappellina è stata di recente restaurata, recuperando i tenui colori originari, che si accordano opportunamente al resto del complesso.

Le due zone, inferiore e superiore, di cui è composta sono raccordate da eleganti volute laterali; il portale è di modeste dimensioni, sobrio, ed è sovrastato da una altrettanto modesta nicchia ospitante la statua della Madonna.

Coppie di colonne libere su alti basamenti scandiscono la parte inferiore e distanziandosi dalla parete retrostante creano un delicato effetto di concavità.

Al di sopra della trabeazione, con un fregio decorato di rosette e quadriglifi, in corrispondenza delle due colonne estreme poggiano pinnacoli sferici.

Il gioco della concavità continua nella zona superiore con una trabeazione sporgente che poggia su due colonne con capitelli corinzi; il fregio è qui ornato con un motivo a piccoli festoni vegetali.

La struttura termina con un timpano triangolare fiancheggiato da un campanile a vela ruotato di 45°, rivolto nella direzione dei visitatori che accedono alla masseria, contenente una campana databile al 1636.

 

Proseguendo, all’estremità sinistra s’incontra il portale d’ingresso al Giardino delle Api che, scandito da quattro lesene e sormontato da cinque pinnacoli, ricorda nella forma una porta urbica e dà l’illusione di poter scorgere al di là il centro storico di un paesino.

È provvisto di recinto, rettangolare e diviso in quattro parti proprio come gli altri giardini della masseria, collocati sul lato opposto, ai quali si accede varcando un piccolo portale ad arco, chiuso da un cancello.

 

Il luogo che si schiude oltrepassata l’inferriata è un’anticamera incantata, un recinto circolare che funge da atrio al mandorleto, al frutteto ed al Giardino delle Statue.

Appare come una corte lussureggiante, fitta di vegetazione e rigata da qualche spiraglio di luce.

Uno dei giardini a cui si accede dall’anticamera verde è quello che contiene la torre colombaia.

Attorniata di mandorli, carichi di fiori con l’affacciarsi della primavera, ha una pianta quadrata e risale al XVI secolo.

Le torri colombaie sono strutture rurali, solitamente edificate insieme alle masserie, dall’aspetto imponente, massicce, simili a fortezze, ma nella realtà atte ad ospitare e ad allevare i piccioni, la cui carne era ritenuta una prelibatezza per palati più raffinati, nonché un’importante fonte proteica.

La torre inoltre fungeva da centro di raccolta delle deiezioni dei volatili, impiegate come concime naturale per i campi.

 

Il luogo di maggior interesse dell’intera struttura è il Giardino delle Statue, che accoglie i visitatori attraverso un’alta parete concava, sulla quale si spalanca un portale ad arco, sovrastato da un fascione formato da rettangoli recanti motivi geometrici e floreali.

Al di sopra l’architrave è interrotto dall’emblema in pietra della famiglia Dell’Abate, verso cui sono rivolti due dei busti scolpiti nel fregio.

 

Una selva lussureggiante trabocca dalle aiuole: piante sempreverdi ed esotiche, canne d’India con fiori scarlatti, rigogliosi cespugli di acanto crescono nella penombra di palme torreggianti.

Con la famiglia Zuccaro, attuale proprietaria della masseria, sul finire dell’Ottocento gli alberi da frutto furono sostituiti da piante ornamentali e fu modificato l’impianto del giardino anche mediante la risistemazione dei vialetti interni.

L’assetto è quadripartito, i due passaggi principali terminano con nicchie provviste di sedute sui lati, quelle collocate a destra ed a sinistra presentano sul fastigio lo stemma dei Gorgoni (le tre rose) e quello degli Orlandi.

Un pozzo seicentesco, meccanizzato nel Novecento, si trova al congiungimento dei due viali.

 

All’interno della nicchia corrispondente all’asse principale si legge, logorato dal tempo e dall’umidità, una pittura parietale della Madonna col Bambino entro un clipeo sorretto da angeli e svelata dietro una tenda dipinta come una quinta teatrale, fermata da due coppie di colonne disegnate simulando il marmo verde.

Su queste ultime si arrampicano delle roselline, attributi della Madonna e simboli di rinascita.

La Madonna è la rosa mistica delle Litanie Lauretane, la rosa priva di spine perché esente da ogni macchia di peccato originale.

Seguendo quell’asse si può interpretare il giardino come hortus conclusus, ritrovandone alcune caratteristiche tipiche tra le quali: l’essere delimitato da quattro mura, munito di una fonte d’acqua centrale come allegoria di Cristo e fonte di vita, abbellito con piante di rose (rimando alla Verginità di Maria e al sangue di Dio) e palme (simbolo di giustizia e gloria divina).

Il recinto che delimita il giardino potrebbe rappresentare il limite tra mondo fuori e mondo entro quelle mura, con la funzione di isolare ma anche di preservare.

La parete concava munita di portale d’ingresso potrebbe invece rimandare alla soglia d’entrata dell’hortus conclus medievale: il varco, il passaggio attraverso cui si accedeva al luogo simbolo del Paradiso Terrestre.

 

Intorno al pozzo, in ogni quarto del cerchio e divise a gruppi di tre, sono posizionate, le statue dei Quattro Continenti (l’Oceania non era ancora stata scoperta) affiancate ciascuna da una divinità mitologica femminile e una maschile.

Sono le figure leggendarie scolpite ad irretire il visitatore che, accomodandosi sui sedili in pietra frapposti tra di esse, può meravigliarsi davanti alle minuziose rifiniture con cui sono stati realizzati gli attributi che li contraddistinguono.

Le figure mitologiche sono ricorrenti e non sorprende la loro presenza nel giardino, mentre inconsueta è la scelta del gruppo dei Quattro Continenti; di frequente, infatti, i committenti optavano per le personificazioni dei Quattro Elementi della natura o delle Quattro Stagioni.

Ogni continente gode della compagnia di personaggi mitologici ascritti a temi campestri o pastorali, in quanto essi ricreano un clima bucolico e si ricollegano alle attività tipicamente praticate nelle masserie.

Sembra tuttavia non esserci un legame definito o definitivo tra i Continenti e le rispettive antiche divinità.

L’Africa è accompagnata da Diana e Silvano, l’Asia da Cerere e Bacco, l’Europa da Flora e Fauno, l’America da Vertumno e Pomona.

Fu l’insigne Iconologia di Cesare Ripa a fornire la dettagliata descrizione delle personificazioni dei Continenti, soprattutto grazie alla seconda edizione del 1603 che, essendo corredata di illustrazioni, divenne la fonte principale su cui si basarono le rappresentazioni iconografiche dei Continenti per i secoli a venire.

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] Una sorta di lunga mensola di pietra che correva per tutto il muro di cinta, con la funzione di sbarrare il passo ai predatori capaci di arrampicarsi; costituita da lastre di pietra infilate nella parete, sistemate in orizzontale una accanto all’altra.

 

 

 

Bibliografia

Vincenzo Cazzato, Il giardino di Statue della masseria Brusca a Nardò, teatro del Mondo e degli Dei, in Interventi sulla “questione meridionale”, Saggi di storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale “Giovanni Previtali”, Donzelli, Roma, 2005

Scheda Brusca Guida ADSN

Robert Graves, I miti greci, Longanesi & C., 2020

Licia Ferro e Maria Monteleone, Miti romani il racconto, Giulio Einaudi editore, Torino, 2010


BIAGIO D’ANTONIO TUCCI: UN MAESTRO FIORENTINO A FAENZA

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione storica

Nel corso del quindicesimo secolo la signoria di Faenza cominciò ad aprirsi verso nuovi orizzonti, entrando in contatto progressivamente con la città di Firenze, allora sotto il comando della famiglia Medici e siglando con essa una solida alleanza. I contatti sempre più frequenti tra il piccolo centro romagnolo e la Nuova Atene portarono alcuni degli artisti più influenti del periodo a spostarsi tra Faenza e la Toscana; è questo il caso di personalità come Giuliano da Maiano, i Della Robbia e di Donatello, che lasciarono importanti testimonianze disseminate per la città manfreda. Il linguaggio del Rinascimento fiorentino sarà però veicolato sapientemente dalle mani del maestro Biagio d’Antonio Tucci, che giungerà in Romagna negli anni ’70 del Quattrocento.

 

Biagio d’Antonio

Figura assai operosa è quella di Biagio d’Antonio, la cui produzione artistica incarna perfettamente i nuovi ideali proposti dall’Umanesimo; nelle sue pale la rappresentazione dei committenti comincia ad assumere un ruolo centrale, creando così un legame tangibile tra la sfera del sacro e l’umanità. Il maestro si formò presso la bottega del Verrocchio e in quella di Domenico Ghirlandaio, dal quale gli deriva quel ricercato naturalismo che è divenuto tratto distintivo di molte delle sue opere. Sebbene alcuni dei suoi lavori siano sparsi tra i musei della Francia e degli Stati Uniti d’America, Faenza conserva nella sua pinacoteca la testimonianza del passaggio dell’artista “de Florencia populi Sancti Laurentii” [1].

 

Le opere nella pinacoteca di Faenza

La produzione artistica del Tucci per la città manfreda è estremamente significativa; è possibile trovare quadri e affreschi del maestro fiorentino e della sua bottega non solo nella pinacoteca cittadina, ma anche nel Museo Diocesano e nel Duomo, segno della grande portata del suo intervento nell’area.

 

La lunetta dell’Annunciazione è uno dei capolavori più celebri del Tucci, si tratta di un’opera del 1476 dalla forte inflessione fiorentina, rassomigliante all’omonima leonardesca, prodotta negli stessi anni. Sembra esserci un riferimento a Filippo Lippi nei due angeli a sinistra, spettatori passivi della scena, uno dei quali mostra la sua fisicità allo spettatore tramite un panneggio svolazzante, sapientemente modellato sul corpo della creatura celeste. La lunetta coronava probabilmente un polittico.

 

Al 1483 risale uno sfarzoso trittico commissionato dai domenicani della chiesa di Sant’Andrea. Da quest’olio su tavola traspare un forte realismo, evidente nelle dettagliate fisionomie, dove anche i segni dell’anzianità vengono minuziosamente riprodotti. Il pannello di sinistra mostra San Domenico, riconoscibile dalla veste dell’Ordine, e Sant’Andrea con la croce simbolo del martirio e il pallio verde elegantemente rifinito in oro. La tavola centrale si presenta con un’accentuata spazialità creata dal trono marmoreo e dalle figure angeliche ai lati di esso. Il Bambino stringe nella mano sinistra una rondine, mentre con la destra compie un gesto di benedizione. Nel terzo pannello vengono rappresentati San Giovanni Evangelista e San Tommaso d’Aquino, il quale regge un libro aperto, recante la scritta: “Veritatem meditabitur guttur meum,et labia mea detestabuntur impium”. Si tratta del settimo versetto del libro di Proverbi, utilizzato da Tommaso come introduzione della Summa contra Gentiles, un testo volto a spiegare la verità della fede cattolica.

 

Nella produzione del Tucci si può annoverare un Cristo in Pietà, la cui composta bellezza rimane inalterata nonostante la morte. Il pittore riprende l’idea dell’omonima opera per il Duomo di Faenza, di cui si è parlato in un precedente articolo, ma la arricchisce con un’architettura accennata da una colonna di richiamo classico alle spalle dell’angelo di destra. A differenza della tavola sorella, questo Cristo presenta perdite di sangue dalle ferite sulle mani e al costato.

 

Una tavoletta a scopo devozionale di un privato è giunta in pinacoteca: si tratta della Madonna col Bambino tra San Giovannino e Sant’Antonio da Padova. L’opera, databile intorno al 1480, mostra la Vergine assorta nella lettura di un libro, accompagnata dai due santi e dal bambinello, seduto su un cuscino rosso e recante una rondine nella mano sinistra.

 

Un’altra opera di pregevole fattura è la Pala dei Camaldolesi, che presenta una Madonna seduta in trono con fondo oro e santi; ai lati del seggio due angeli paiono intenti a spostare un drappo per mostrare allo spettatore la Vergine colta in un tenero gesto d’affetto materno con il Bambino. Il quadro, una tempera su tavola, è arricchito da altre sei personalità: a destra, i santi Girolamo, Giovanni Evangelista e Romualdo; a sinistra, un santo vescovo, forse San Maglorio, San Giovanni Battista e San Benedetto. La scena si svolge al difuori del tempo e dello spazio, non è quindi presente quella ricercata spazialità che avevamo trovato in opere come l’Annunciazione del 1476.

 

La carriera faentina di Biagio si conclude con la Madonna col Bambino per la vedova Bazzolini, databile al 1504 e inquadrabile nella pittura contemporanea della Romagna. Il Giovanni Evangelista, accompagnato dall’aquila, è raffigurato a mani giunte mentre attende il dono della croce da parte del bambinello; a destra, Sant’Antonio da Padova, raffigurato con una forte carica patetica, si porta la mano al petto. Le opere di Biagio d’Antonio, pur mantenendo un’ottima qualità artistica, avevano ormai perso la carica innovativa che aveva caratterizzato il suo primo periodo, finendo per assumere un’impostazione troppo classica per il tempo. Venne dunque ben presto superato da Marco Palmezzano, artista richiestissimo che con le sue opere era riuscito a dare nuovo impulso al Rinascimento romagnolo, consentendo alla città di Faenza di rimanere aggiornata sulle novità artistiche. Palmezzano e molti altri artisti forlivesi trovarono però davanti sé un sentiero, almeno in parte, già battuto dal maestro fiorentino, che aveva preparato la strada ai grandi personaggi che si susseguirono nella storia dell’arte romagnola.

 

 

 

Le foto sono state scattate dall'autrice dell'articolo.

 

 

Note

[1] www.pinacotecafaenza.it/collezioni-e-storia/artisti/d-antonio/

 

Bibliografia

Storia delle arti figurative a Faenza, volume III, Il Rinascimento; Anna Tambini, Edit Faenza.

 

Sitografia

www.pinacotecafaenza.it/collezioni-e-storia/artisti/d-antonio/


UN CASO PARTICOLARE: LA CHIESA DI SANTA MARIA FORIS PORTAS A CASTELSEPRIO

A cura di Beatrice Forlini

 

 

La chiesa di S. Maria Foris Portas oggi si trova immersa in un grande parco archeologico nel piccolo paese di Castelseprio, oggi in provincia di Varese (fig.1), che comprende anche i resti di un antico castrum costruito su preesistenze militari del IV-V secolo d.C. e il monastero di Torba, a poca distanza, oggi bene FAI. Il nome, tradotto letteralmente, significa «fuori dalle porte», perché la  piccola chiesa sorgeva proprio fuori dalle mura dell'antico borgo fortificato di Castelseprio, ed era probabilmente un luogo di sosta per i pellegrini che scendevano lungo il corso del fiume Olona).

 

La chiesa risale probabilmente al IX secolo, anche se non si hanno riferimenti precisi, ed è l'unico edificio rimasto intatto dell'antico borgo fortificato, forse grazie alla devozione legata al luogo di culto; dopo che il castello e il modesto nucleo urbano circostante sono andati definitivamente in rovina, la piccola chiesa oggi rimane pressoché isolata e sospesa nel tempo.

La piccola costruzione si trova infatti su un'altura distante duecento metri dalla cinta muraria dell’antico castrum ed è orientata da Ovest a Est. La chiesa si presenta esternamente molto semplice e rustica, ed è preceduta da un nartece con grande arco a tutto sesto, aggiunto successivamente e datato al XVII secolo anche se originariamente doveva essere scandito da numerose aperture. La chiesa presenta una pianta trilobata a croce greca con un'unica navata rettangolare (fig.3), non molto lunga, anche se questo semplice schema planimetrico è arricchito dalle tre absidi ad arco oltrepassato (dette anche «a ferro di cavallo»), ritmate esternamente da quattro contrafforti di rinforzo, in stile orientale (forma che prende il nome di triconco).[1] (Fig.2)

 

Le tre absidi sono uguali tra loro tranne che per la disposizione delle finestre. All'esterno, esse sono rinforzate da contrafforti e coperte da bassi spioventi semiconici. Internamente la chiesa doveva essere intonacata e coperta da affreschi e stucchi, mentre il pavimento presenta intarsi di marmo.

La testimonianza più prestigiosa della chiesa però è al suo interno perché l'abside principale è decorata da pitture murali di straordinario valore scoperte nel 1944 dallo storico Gian Piero Bognetti (che è sepolto, su sua volontà, nell’abside sud della chiesa), in assoluto tra le testimonianze più importanti della pittura muraria europea dell'Alto Medioevo. Il ciclo, disposto su due registri, descrive episodi dell'Infanzia di Cristo; l'anonimo maestro che li realizza è probabilmente di origine orientale, perché ripropone i canoni di quella fase della cultura artistica bizantina ricordata come “Rinascenza Macedone”. Anche se deteriorati, ma ancora molto ben leggibili si trovano nella parte inferiore: la Presentazione al tempio, la Natività con l’annuncio ai pastori(fig.4) e l’Adorazione dei Magi; mentre nel registro superiore sono presenti l’Annunciazione, la Visitazione, la Prova delle acque amare (fig.6) il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme(fig.8). Sopra la finestra centrale della parete absidale è presente un medaglione che rappresenta Cristo Pantocratore(fig.7). Nella parte interna dell’arco trionfale invece corrisponde un analogo tondo che rappresenta un’Etimasia(fig.5).[2] Tutti questi soggetti riconducono al tema del mistero dell’incarnazione di Cristo, forse non casuale nella scelta in un’area che all’epoca era sotto il controllo dei longobardi, già convertiti al cattolicesimo ma ancora in qualche modo legati all’eresia ariana.

 

Gli elementi principali che distinguono questi affreschi da tutti gli altri esempi di pittura altomedievale sono, infatti, la complessità delle forme e l'attenzione al dato naturalistico, gli scorci prospettici, i legami con la pittura romana antica, tutte caratteristiche che li fanno entrare di diritto nella lista dei patrimoni dell'umanità dal 2011. Tutta quest’area fa, infatti, parte del sito Unesco “Longobardi in Italia: i luoghi del potere” con altre sei località che custodiscono i beni artistici e monumentali dell’epoca longobarda. In età post-carolingia la chiesa probabilmente diventa un edificio di culto privato, annesso a quelle che vengono identificate come residenze dei conti e gastaldi del Seprio; secondo degli studi archeologi a queste residenze è seguita poi la costruzione di un fossato e di una zona funeraria. Nel corso dei secoli pochi elementi hanno modificato l'aspetto della chiesa, tra questi solo la chiusura delle varie aperture presenti nel Nartece e, come già detto, la realizzazione nel XVII secolo della grande apertura ad arco a tutto sesto nella parete d'ingresso.

 

 

 

 

Note

[1] G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, pp. 576-577.

[2] Motivo iconografico cristiano di tradizione orientale consistente in un trono sormontato da una croce, simboli della presenza spirituale di Cristo (cit. G. Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016, p. 577).

 

 

Bibliografia

Cricco, F.P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte 2, Dall’arte paleocristiana a Giotto, versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2016.

 

Sitografia

Scheda SIRBeC: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/LMD80-00785/,/

http://www.unescovarese.com/code/15317/La-chiesa-di-Santa-Maria-foris-portas.

http://www.castelseprio.net/info_tur/monumenti/S.%20Maria/chiesa/S.Maria.htm.


LA “TORRE DI PIAZZA” E LE STORICHE CAMPANE DELLA CITTÀ DI TRENTO

A cura di Alessia Zeni

 

 

Piazza del Duomo, cuore della città di Trento, è considerata tra le più belle piazze d’Italia; a partire dal Duomo di San Vigilio, una successione di palazzi e case storiche affacciano su di essa incorniciandola. Tra questi edifici emerge il Palazzo Pretorio, ex sede dei principi vescovi di Trento, con la grande Torre di Piazza o Torre Civica (Fig. 1). La Torre è stata protagonista dei più importanti avvenimenti della città come l’incendio che nel 2015 ne ha distrutto gli apparati lignei e danneggiato per sempre la settecentesca campana della “Renga”. Nonostante ciò la Torre è rimasta integra in tutta la sua imponenza e ancora oggi la nuova campana e gli orologi delle sulle sue facciate scandiscono la vita quotidiana dei cittadini di Trento (Fig. 2).

La storia della Torre di Piazza

 

La data esatta della sua costruzione è ad oggi sconosciuta, ma sappiamo che la torre venne eretta prima del 1160 sull’antica Porta Veronensis[1], a difesa della piazza e del vicino Palazzo vescovile. La torre all’epoca era merlata e alta non più di 22 metri con uno spessore murario davvero imponente di quasi 2 metri, presentava una porta sopraelevata e una cinta muraria la univa a Palazzo vescovile proteggendola da eventuali attacchi esterni. Nel XIII secolo è stata aumentata l’altezza una prima volta, fino a quando nel XIV secolo l’aspetto architettonico ha raggiunto le attuali misure: la torre si presenta ancora oggi con 46,5 metri di altezza mentre la sommità venne fortificata con un solaio sporgente retto da un sistema di mensole in pietra e archetti in laterizio, e una merlatura a scalare. Inoltre venne dotata di finestrelle quadrate, feritoie, solai e scale in legno mentre è probabile che la parte esterna più alta sia stata protetta con una struttura in legno dalla quale si poteva effettuare il “tiro piombante” (Fig. 3, Fig. 4, Fig. 5).[2]

 

Già a partire dal Quattrocento fu luogo di detenzione in custodia al principe vescovo di Trento e fungeva da Torre Civica del Comune con orologio e campane che scandivano la vita della città. Successivamente sia le carceri che la torre passarono in gestione al Comune, il quale promosse all’apertura del Concilio di Trento un’importante opera di decorazione della facciata prospiciente la piazza con immagini raffiguranti San Vigilio e Santa Massenza. L’affresco venne commissionato al pittore Gerolamo Fontana ma col tempo purtroppo è andato perduto. Nel 1546 vi fu la sostituzione del vecchio orologio con uno nuovo, incarico affidato al frate Francesco da Lecco, mentre più di duecento anni dopo,  nel 1789, i consoli promossero la fusione della campana grande, la storica e importante campana conosciuta col nome di “Renga”.

Nell’Ottocento, alla fine del Principato vescovile e con il passaggio all’amministrazione austriaca, la torre mantenne la funzione di carcere del tribunale circolare di Trento, insieme a Torre della Tromba e Torre Vanga. Le celle vennero ampliate e a questo periodo risalgono le numerose scritte lasciate dai carcerati sulle pareti (Fig. 6, Fig. 7).

 

Nel secolo scorso sono stati eseguiti dei lavori di manutenzione, fino ad arrivare all’importante restauro del 2009-2011 che purtroppo è stato compromesso dall’incendio dell’agosto 2015. Gli antichi solai e le scale in legno sono andate completamente bruciate mentre la preziosa campana della “Renga” ha subito la fusione della lega metallica e svariate fessurazioni che ne hanno danneggiato per sempre la sonorità. Recentemente la “Renga” è stata musealizzata nella Torre e nel 2018 una nuova campana è stata fusa dalla fonderia Grassmayr di Innsbruck per tornare oggi a suonare e scandire la vita dei cittadini di Trento[3].

 

La “Renga” e la “Guardia” : le storiche campane della Torre Civica

Le storiche campane della città di Trento erano la “Renga” e la “Guardia”, nomi dati per ricordare il loro ruolo quando entrambe suonavano nella Torre Civica o Torre di Piazza. Sono state restaurate e la “Renga” è stata musealizzata all’interno della Torre, mentre la più antica campana della “Guardia”, in restauro all’epoca dell’incendio, attende ancora oggi di trovare una nuova collocazione museale.

 

La “Renga” aveva il ruolo di chiamare a raccolta i cittadini e il consiglio della città quando venivano convocate le pubbliche assemblee, infatti il suo nome deriva da “arengo”, un termine utilizzato nel Medioevo per indicare le sedute pubbliche. La campana veniva anche chiamata della “Rason” o “Rexon” (“Ragione”) per ricordare ai cittadini dove si svolgeva la funzione civica e amministrativa della città (Fig. 8).

La campana più piccola, quella detta della “Guardia” o delle “Hore”, realizzata probabilmente nei primi decenni del Quattrocento scandiva le ore e soprattutto indicava in città la presenza di incendi.

Vi era un guardiano incaricato della custodia delle campane che le suonava a mano e in maniera differente a seconda del messaggio che si voleva comunicare ai cittadini; erano infatti molti i diversi modi in cui poteva essere suonata, come ad esempio il campanò per accompagnare le feste del patrono e le processioni o il suono per le feste in città.[4] La campana della “Guardia” veniva suonata in occasione delle udienze del Podestà di Trento e per chiamare in servizio coloro che dovevano prestare i turni di guardia presso le porte della città[5]. Il guardiano delle campane doveva sorvegliare la città giorno e notte per avvistare gli eventuali incendi, frequenti nel tardo medioevo; nel caso di un incendio doveva far suonare la campana delle “Hore” o della “Guardia” e segnalare sulla sommità della Torre Civica con una lanterna da quale parte fosse  l’incendio.

Non conosciamo l’anno in cui vennero sistemate le campane nella Torre Civica di Trento, ma sappiamo che nel 1499 il fonditore Bartolomeo da Rimini[6] venne chiamato a rifondere le due campane. La “Renga” di Bartolomeo oggi non esiste più perché rifusa nel 1789, mentre la “Guardia” porta ancora oggi la firma di Bartolomeo da Rimini. Questa storica e importante campana è oggi conservata nei depositi della Soprintendenza per i beni storico-artistici di Trento in attesa di una sua adeguata collocazione; è una campana molto preziosa in quanto richiama le forme dei bronzi medievali, stretti e alti, e porta interessanti rilievi in bronzo[7]. Sulla superficie della “Guardia” trova spazio l’immagine del Simonino da Trento con la testa raggiata, rappresentato con vessillo e gli strumenti del suo martirio (cinque spilloni, la tenaglia e il bacile).[8] Segue una Madonna coronata con il Bambino, la figura di un vescovo benedicente con mitra e pastorale[9] e, infine, l’episodio evangelico di Gesù nell’orto degli ulivi. Il corpo della campana è liscio tranne per alcune importanti scritte che ricordano i consoli e i procuratori di Trento allora in carica e la firma di Bartolomeo da Rimini.

Per quanto riguarda la campana della “Renga” sappiamo che questa venne realizzata nel 1789 con la rifusione della vecchia e il lavoro venne affidato a Leonardo Maffei, figlio di Pietro Maffei, fonditore di molte campane trentine, tra cui il Campanone del Duomo di Trento. Leonardo Maffei realizzò per la Torre Civica di Trento una campana imponente – 133 cm di diametro per 114,5 di altezza – con poche decorazioni, ma con l’indicazione dell’anno di fusione, il fonditore e lo stemma Maffei, i consoli della città in carica in quell’anno e il committente dell’opera (Fig. 8).

Entrambe le campane hanno sulla loro superficie il grande rilievo dell’aquila di San Venceslao, stemma dell’allora Principato vescovile di Trento e oggi stemma del Comune di Trento.

 

L’orologio della Torre

 

Una breve parentesi la merita l’orologio della Torre Civica, o meglio i vari quadranti sistemati sulle facciate della Torre. La consuetudine di sistemare strumenti per la misurazione del tempo in punti elevati della città prese piede dalla fine del Duecento, nonostante ciò la prima testimonianza di un orologio meccanico azionato da pesi sistemato sulla Torre di Piazza a Trento risale al 1448, quando il custode delle carceri, delle campane e sentinella della città aveva anche il compito di caricare l’orologio e del periodico riposizionamento delle lancette.[10]

Fu solo nel 1869 che si arrivò alla sistemazione dell’attuale orologio per opera di Carlo Zanoni, orologiaio originario di Cavalese e residente a Trento. Si occupò della realizzazione di un orologio moderno che ovviasse agli errori dovuti alla dilatazione del pendolo e delle corde e che fosse in grado di battere le ore, ma anche i quarti d’ora, secondo l’uso tedesco essendo allora Trento e il Trentino sotto la dominazione austriaca (Fig. 9).

 

 

 

Note

[1] L’antico ingresso alla città romana di Tridentum risalente al I secolo d.C.

[2] Gentilini, La torre di piazza a Trento,  2014, p. 44.

[3] Cfr. https://www.comune.trento.it/Aree-tematiche/Cultura-e-turismo/Visitare/Edifici-storici/Torre-civica-e-Palazzo-Pretorio

[4] Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, pp. 104-105.

[5] Cfr. https://www.cultura.trentino.it/Rubriche/Restauri-in-evidenza-fra-pubblico-e-privato/Per-chi-suonava-la-Campana-della-Guardia-di-Trento.

[6] Bartolomeo da Rimini faceva parte di una famiglia di origini venete o lombarde specializzata nella fusione di campane. Il padre, Battista, si era trasferito con la famiglia a Rimini, qui i quattro figli furono tutti dediti all’arte della fusione. Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, p. 105

[7] Cfr, https://www.cultura.trentino.it

[8] Per conoscere la storia di Simonino da Trento si rimanda al contributo: https://www.progettostoriadellarte.it/2020/03/27/linvenzione-del-colpevole-il-caso-di-simonino-da-trento-dalla-propaganda-alla-storia-recensione-mostra/

[9] Questo vescovo è stato individuato in Sant’Udalrico perché si scorge accanto alla mano del santo un pesce, suo attributo iconografico. Potrebbe essere stato raffigurato sulla campana della “Guardia” per celebrare l’allora vescovo di Trento Udalrico Liechtenstein in carica dal 1493 al 1505. Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza, 2014, p. 109.

[10] Le variazioni della temperatura, la struttura in ferro dell’orologio, l’allungamento e l’accorciamento delle funi che sostenevano i pesi potevano causare scarti sensibili del dispositivo di regolazione del tempo. Addomine, La diplomazia delle ore, 2014, p. 92.

 

 

Bibliografia

Cagol, S. Groff, S. Luzzi, La Torre di piazza nella storia di Trento. Funzioni, simboli, immagini. Atti della giornata di studio, Trento, 27 febbraio 2012, Trento, Temi, 2014

Gentilini, La torre di piazza a Trento. Conoscenza materiale e cantiere di restauro, in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 41-59

Moser, La “Renga” e la “Guardia” della torre di piazza. Le campane di Bartolomeo da Rimini e Leonardo Maffei, fonditori a Trento, in in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 103-123.

Addomine Marisa, La diplomazia delle ore. L’orologio della torre di piazza di Trento, in in Cagol, Groff, Luzzi, 2014, pp. 91-101.

 

Sitografia

www.comune.trento.it

www.cultura.trentino.it


IL CHIOSTRO DEGLI ARANCI PT II

A cura di Federica Gatti

 

 

L’organizzazione del secondo piano del Chiostro degli Aranci è difficile da determinare.

Il livello delle logge non corrisponde a quello dei piani interni, i quali vennero rimodellati molte volte dopo la loro costruzione. Le attuali scale e porta di accesso al Chiostro sono datate al XVII secolo; originariamente, una porta si apriva sulla campata più a nord della loggia orientale e conduceva alla loggia Nord, dove ha inizio il ciclo di affreschi con le storie di San Benedetto.

Le scale originali del coro probabilmente si collegavano a questa porta, la quale venne resa inutilizzabile una volta che le scale vennero demolite durante il XVII secolo. La nuova porta e le nuove scale vennero installate nella campata adiacente nella stessa loggia est e la porta originale venne riempita con la tomba di Francesco Valori, difensore di Savonarola ucciso nel 1489, che venne spostata dalla chiesa.

 

Quattro finestre forano la parte bassa del muro della loggia occidentale e danno luce a un piano intermedio, di sconosciuta funzione, tra il refettorio sottostante e i dormitori soprastanti. Queste aperture fanno parte del piano originale del chiostro, il che è dimostrato dal fatto che vennero incorporate negli affreschi dipinti attorno ad esse verso la metà degli anni Trenta del Quattrocento.

Nella campata situata a nord-ovest esisteva un’altra porta, che probabilmente conduceva agli alloggi dell’abate attraversando il lato nord del chiostro, per arrivare fino ai dormitori del lato ovest e agli alloggi degli ospiti e all’infermeria dietro il dormitorio.

 

Un passaggio conduce a una scalinata che permette di accedere al terzo piano terrazzato. La presenza di questa porta nel XV secolo è provata dalla sua incorporazione nella quinta scena del ciclo della vita di San Benedetto, dove l’artista ha dipinto un arco a sesto acuto depresso in finta pietra grigia con una faccia in finto rilievo nella chiave di volta per sormontare l’architrave della vera porta.

 

Nel secondo piano del Chiostro, partendo dalla campata nord-est della parete settentrionale, troviamo un ciclo di affreschi che raffigura le storie di San Benedetto, leggibili in ordine antiorario, e che si conclude nella prima campata della parete meridionale.

Furono scelte appositamente delle scene simboliche della vita del santo che potessero mostrare a coloro che abitavano il monastero la sua vita esemplare. Nelle scene è enfatizzata in particolare l’autorità dell’abate, la cui autonomia è dettata dalla regola benedettina. Infatti, in tutto il ciclo San Benedetto appare come un leader fiducioso, legato molto alla disciplina, un efficiente amministratore, un padre amorevole ma anche severo. Le storie non solo celebrano la vita esemplare di Benedetto, ma creano plausibilmente anche un collegamento con la figura dell’abate Gomezio, uomo responsabile di aver salvato la Badia dal collasso attraverso la sua riforma spirituale e strutturale. Lo scopo degli affreschi era quello di ispirare i monaci a lavorare al servizio di Dio, contemplando ed emulando le virtuose abitudini del santo, ma anche quello di autenticare e difendere l’autorità dello stesso abate. Molti di questi episodi mostrano come l’autorità di Benedetto, associata all’obbedienza incondizionata dei suoi discepoli, gli consentì di effettuare i miracoli e conseguentemente di assicurare il successo del suo ordine. È anche per questo che spesso, in tutto il ciclo, la figura di Benedetto è raffigurata con un libro in mano per ricordare agli osservatori che la sua supremazia è autorizzata dalla regola benedettina.

 

Gli affreschi sono contenuti nelle lunette create sulle pareti delle volte a crociera di ogni campata, i cui peducci vengono inglobati negli elementi decorativi di ogni scena: essi servono come capitelli di pilastri fittizi, dipinti di grigio per intonarsi con le modanature in bugnato dell’edificio. I finti pilastri, corrispondenti alle colonne del loggiato, terminano su uno zoccolo dipinto che imita una ricca parete realizzata con intarsi marmorei.

 

La prima parte di questa zona è decorata con motivi vegetali intrecciati che si collegano ad un clipeo centrale con cornice rotonda oppure polilobata, nel quale a sua volta sono rappresentati i busti di personaggi benedettini di rilievo e altri santi. La posizione dei personaggi rappresentati cambia: alcuni sono visti frontalmente, altri sono posti di profilo, mentre altri sono raffigurati di tre quarti. In alcuni zoccoli non vengono rappresentati motivi vegetali ma geometrici. Al disopra e al disotto di questa prima parte dello zoccolo compaiono il più delle volte iscrizioni in caratteri gotici, spesso lacunose, che esprimono concetti legati alla vita monastica ed i nomi dei personaggi raffigurati. L’uso di elementi architettonici dipinti è comune nei cicli murali italiani, ma nel Chiostro degli Aranci le specifiche forme scelte e il modo in cui gli elementi vengono combinati fanno sì che si raggiunga un risultato armonioso e ingegnoso. Se si guardano le scene della loggia nord dall’opposta loggia sud, oppure la loggia ovest da quella orientale, è possibile vedere ogni scena dipinta e distinguere gli elementi che ne fanno da cornice. Il parapetto bianco del secondo piano del Chiostro, con al termine la cornice marcapiano di bugnato, serve come base visuale o cornice inferiore per ogni lunetta. Allo stesso modo le arcate del prospetto della loggia nord, oppure ovest, rappresentano la cornice superiore delle scene.

Gli affreschi sono ispirati da precise fonti scritte, ovvero dal Vita St. Benedictii scritta da San Gregorio Magno, e interpretati utilizzando ed aggiornando una tradizione iconografica che si apre a Firenze con un analogo ciclo di Spinello Aretino nell’abbazia di San Miniato al Monte, databile all’ultimo ventennio del XIV secolo, per rinnovarsi nella seconda metà del XV secolo nel ciclo dell’abbazia vallombrosana di Passignano.

 

All’autore dei dipinti di Badia non è ancora stato possibile dare un nome, ma si possono riassumere molto schematicamente le ipotesi avanzate dalla critica. Il ciclo, in massima parte unitario, – esclusa la quarta scena aggiunta da Agnolo Bronzino nel Cinquecento e le ultime due di un collaboratore – presenta una sintesi dei motivi desunti dalle maggiori personalità artistiche attive a Firenze tra gli inizi del Quattrocento e il 1436-1439, anni in cui sarebbero documentati dei rimborsi per le spese di colori ad un certo Giovanni di Consalvo. Nel ciclo sono tuttavia visibili anche caratteristiche individuali non fiorentine, come nell’ambientazione spaziale, nei paesaggi, nelle architetture e nella tavolozza cromatica. Tutte queste caratteristiche hanno diviso gli studiosi in due correnti: la prima, insistendo sulle presenze non fiorentine negli affreschi, ne individua l’autore in Giovanni di Consalvo, portoghese e compatriota dell’abate Gomezio; la seconda corrente ribadisce come fiorentina l’anonima personalità del pittore, qualitativamente eccellente, distinguendola con l’appellativo di “Maestro del Chiostro degli Aranci”. Le ultime due scene vengono attribuite da parte della critica a quello che viene chiamato “Il secondo Maestro del Chiostro degli Aranci”, perché vi si riconosce una mano diversa rispetto alle prime dieci scene e soprattutto una qualità inferiore.

Le scene ritratte negli affreschi sono: San Benedetto parte da Norcia, San Benedetto ripara il vaglio rotto della nutrice, San Benedetto a Subiaco, San Benedetto vince la tentazione della carne, San Benedetto rompe un bicchiere con il segno della croce, San Benedetto libera un monaco dal diavolo, il recupero del falcetto caduto nel lago, San Mauro cammina sull’acqua salvando Placido, Il miracolo del pane avvelenato, San Benedetto solleva una pietra tramite la preghiera, San Benedetto resuscita un monaco schiacciato dalla caduta di un muro, il mascheramento del finto re Totila, la profezia per re Totila.

 

Durante una campagna di restauri portata avanti da Leonetto Tintori, dal 1956 al 1958, vennero rimossi gli affreschi danneggiati con il metodo dello strappo che permise di scoprire le sinopie realizzate sull’arriccio sottostante. In queste sinopie si può vedere come ogni lunetta sia frutto di un intenso e complesso processo di creazione del quale rimane, negli affreschi, solamente la tappa finale. La composizione delle prime dieci sinopie è veloce: i tratti rapidi indicano la sicurezza e la competenza dell’artista e suggeriscono che la composizione venne prima lavorata tramite una serie di piccoli disegni che vennero poi ingranditi a mano libera sulla superficie dell’arriccio. Le ultime due, invece, sono molto lavorate, mostrano sperimentazioni ed alterazione e rivelano come l’artista sperimentò la sua composizione direttamente sulla superficie del muro. Le differenze che intercorrono tra le sinopie avvalorano l’ipotesi che il ciclo sia stato dipinto da due gruppi di artisti che avevano competenze e stili diversi.

Nelle pareti delle campate rimaste vuote sono ora esposte alcune delle sinopie ritrovate sotto gli affreschi: su dodici pezzi solo sei rimangono nel Chiostro, mentre gli altri sette sono nei depositi delle Gallerie.

 

 

 

 

Bibliografia

Magno, Dialoghi, manoscritto n. 215 S.78, Abbazia di San Gallo

Neumeyer, Die Fresken im “Chiostro degli Aranci” der Badia Fiorentina, Jahrbuch der Preuszischen Kunstsammlungen, 48. BD., Staarliche Museen zu Berlin, Preussicher Kulturbesitz, 1927, pp. 25-42

Tyszkiewick, Il Chiostro degli Aranci della Badia Fiorentina, Rivista d’Arte, gennaio 1, 1951, pp. 203-209

Procacci, Sinopie e affreschi, Milano, Electa per Cassa di Risparmio di Firenze, 1960, p. 66

R. Henderson, Reflection on the Chiostro degli Aranci, Art Quarterly 32, n. 4, inverno 1969, p. 395, p. 399

Guidotti, La Badia Fiorentina, Firenze, Becocci Editore, 1982

Leader, The Florentine Badia: Monastic Reform in Mural and Cloister, Ann Arbor, Umi Microform, 2000

Leader, Architectural Collaboration in the Early Renaissance. Reforming the Florentina Badia, Journal of the Society of Architectural Historian, Boston, University of Massachussets Boston, 2005, pp. 204-233

Leader, The Badia of Florence: Art and Observance in a Renaissance monastery, Indiana University Press, 2011, pp. 138-139

Salvestrini, P. D. Giovannoni, G. C. Romby, Firenze e i suoi luoghi di culto dalle origini a oggi, Pisa, Pacini Editore, 2017