LA BASILICA DI SAN VITALE A RAVENNA

A cura di Francesca Strada

 

Introduzione

“Oro e argento fine, cocco e biacca,

indaco, legno lucido e sereno,

fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,

da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno

posti, ciascun saria di color vinto,

come dal suo maggior è vinto il meno”

(Purgatorio, VII, 73-78)

 

Correva l’anno 1321 quando Durante degli Alighieri, meglio noto come Dante, spirava nella città di Ravenna, luogo che offrì al Sommo Poeta molteplici spunti per la realizzazione del suo capolavoro: la Commedia. È nei suoi versi che ritroviamo il racconto delle terre di Romagna e con esso la grandiosità dei mosaici bizantini, tra i quali spiccano le opere della Basilica di San Vitale, forse ispiratrice di alcuni versi del canto settimo del Purgatorio.

 

Contesto Storico

Alla morte dell’imperatore Teodosio, l’Impero Romano venne spartito tra gli eredi, concedendo al figlio maggiore, Arcadio, l’impero romano d’Oriente e al minore, Onorio, la parte occidentale con capitale Milano; la sede lombarda si rivelò inadeguata a fronteggiare le invasioni e si scelse di spostare la corte alla ben più facilmente difendibile Ravenna.

 

La città romagnola, infatti, possedeva una posizione strategica, che le consentiva sia un maggior riparo dalle incursioni, che una notevole vicinanza all’oriente. La nuova capitale non si poteva considerare tale senza un’opera di valorizzazione urbana, che portò all’innalzamento di svariati monumenti, i cui ori risplendono oggi come allora, regalandoci la possibilità d’immaginare un’epoca ormai distante. È con l’imperatore Giustiniano, nel VI secolo, che nell’ottica di un’ambita Renovatio Imperii, si volle dar maggior lustro alla sede occidentale; emblematica di questo periodo è la Chiesa di San Vitale.

 

L’opera presenta notevoli somiglianze con la contemporanea arte bizantina in Oriente. La pianta è ottagonale e viene dato notevole risalto al presbiterio, sviluppato su due ordini. Il luogo di culto è un continuo sfavillare d’oro e marmi, in cui l’architettura bizantina incontra tecniche edilizie italiche, come nel caso della cupola.

 

L'abside della Chiesa di San Vitale

La trama decorativa è talmente fitta da non consentire allo sguardo del visitatore di riposarsi nemmeno un istante, poiché ogni dettaglio sembra progettato per richiamare l’attenzione; tuttavia, è nell’abside che si collocano due dei ritratti più famosi di tutta l’arte medievale. Due pannelli raffiguranti l’imperatore Giustiniano e la consorte Teodora mostrano la presenza dei sovrani, i quali non giunsero mai nella città.

 

L’imperatrice regge un calice per l’eucarestia tempestato di gemme, la sua veste è ornata dalla raffigurazione dei Re Magi, i quali potrebbero rappresentare il sacrificio eucaristico.

 

Nell’altro pannello, il consorte reca in dono una patena per il pane, mentre il corteo si prepara all’ingresso in chiesa in processione con le offerte. Accanto a lui si trova il vescovo Massimiano, riconoscibile da una scritta, il quale regge la croce.

 

Nel catino absidale, i quattro fiumi del paradiso scorrono ai piedi di Cristo, il quale, vestito di una tunica bruna, siede sul globo terracqueo, mentre dona a San Vitale la corona del martirio.

 

Clipei

 

Uno dei dettagli più significativi della basilica è gruppo di clipei situato nell’intradosso dell’arco di accesso al presbiterio. I volti sono definiti con una certa attenzione al dettaglio; si noti l’apostolo Pietro, il cui viso è delineato da un contrasto tra luci e ombre.

 

Il Sacrificio

 

Al centro della volta, l’immagine dell’Agnello di Dio appare sorretta da quattro angeli; la scelta iconografica non è casuale, la raffigurazione non mira a rappresentare Cristo in forma umana, bensì in forma sacrificale, enfatizzando un tema riproposto in altri punti della basilica: il sacrificio.

 

All’interno del presbiterio, infatti, è presente una lunetta affiancata all’altare, nella quale è riprodotta la figura di Abramo. Il patriarca riceve la visita di tre angeli, che gli annunciano l’arrivo dell’agognato figlio, accanto figura il sacrificio di Isacco.

 

La scena si dispone all’interno della cornice in maniera irrealistica: i rami dell’albero assumono una posizione innaturale per rimanere all’interno dello spazio delimitato, mentre le montagne si piegano al medesimo scopo.

 

Unesco

 

La meraviglia della basilica è tale, che nel 1996 è stata insignita del titolo di patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, insieme al Battistero degli Ariani, al Mausoleo di Galla Placidia, alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, al Battistero degli Ortodossi, alla Cappella Arcivescovile, al Mausoleo di Teodorico e alla Basilica di Sant’Apollinare in Classe. Un patrimonio unico al mondo, che riflette la storia di una città antica e testimone dell’incedere del tempo, che nulla è riuscito a sottrarre della bellezza della “glauca notte rutilante d’oro”[1].

 

 

 

Bibliografia:

Byzantine Art, R. Cormack, Oxford University Press, 2018


LA CHIESA MADRE DI GELA

A cura di Adriana d'Arma

 

 

 

Percorrendo il centro storico della città di Gela, corso Vittorio Emanuele, ci si ritrova su piazza Umberto I, dove erge maestosa e solenne la Chiesa Madre dedicata a Maria Santissima Assunta in Cielo (Fig. 1).

La chiesa Madre, simbolo e  Duomo della città, custodisce lunghe tradizioni e folklore tra cui l’antica denominazione in gergo locale la “Matrici”, espressione ancora oggi adottata dalla popolazione.

 

L’attuale chiesa Madre di Gela, la cui costruzione risale intorno al 1766, sorge sui ruderi di un’altra chiesa edificata nel XIII secolo denominata Santa Maria de Platea. Tuttavia, quest’ultima, piccola e unica chiesa della città fino a quel tempo, fu elevata a parrocchia nel 1230 e gravemente danneggiata durante il terremoto del 1693. L’abbattimento, infatti,  fu necessario e tale da poter dare vita ad una nuova e più grande chiesa, l’odierna chiesa Madre.

Si suppone che, dal ritrovamento di diversi ruderi risalenti al periodo greco di Gela, alcune colonne portanti incorporate nel nuovo edificio potrebbero appartenere ad un antico tempio greco. Da ciò si potrebbe, inoltre, supporre che l’edificio anticamente occupasse lo stesso spazio della chiesa attuale.

 

Tra il 1779 e il 1798, circa dopo tredici anni dall’inizio della costruzione, l’edificio grazie al parroco Giovanni Mallia, subì alcuni ampliamenti: la realizzazione di due arcate (ad ovest verso la piazza principale), la cupola e l’abside. Tale rifacimento donò ampio spazio e respiro a tutto l’edificio di culto (Fig. 2).

 

Successivamente, nel 1837, su progetto dell’architetto Emanuele Di Bartolo venne edificata la torre campanaria (Fig. 3) - con ingresso anche da via Matrice in direzione ovest-est - la quale possiede in sommità una cella campanaria con sette campane che presentano delle decorazione  e iscrizioni.

 

Durante alcuni lavori di restauro, al di sotto del pavimento delle navate della chiesa sono state rinvenute alcune cripte, diverse sepolture gentilizie e reperti di epoca greca.

La facciata esterna è in stile architettonico neoclassico, opera dell’architetto, artista fine e geniale,  Giuseppe Di Bartolo Morselli. Essa si articola in due ordini architettonici sovrapposti: il piano inferiore con colonne doriche e quello superiore con colonne ioniche. I due ordini della facciata sono divisi da una fascia continua caratterizzata da metope in rilievo (Fig. 4)

 

Nel piano inferiore della facciata vi sono il grande portale d’ingresso centrale e due porte laterali sulle quali sovrastano due lapidi marmoree con un’iscrizione.

La lapide di sinistra riporta la seguente iscrizione: “Alla Gloria di Dio ottimo massimo, al culto della Beatissima Vergine Maria assunta in Cielo. Questo principe tempio è sagro”.

Invece in quella destra “La pietà dell’arcidiacono cavaliere Luigi Mallia dei Marchesi di Torreforte. Questo prospetto su disegno dell’artista concittadino Giuseppe Di Bartolo di sue largizioni dell’anno 1844, innalzava”.

L’ordine inferiore della facciata termina con due paraste, rispettivamente una a destra e una a sinistra, collocate all’estremità della parete.

È invece al piano superiore che in corrispondenza del portone centrale si colloca un grande finestrone e lateralmente due profonde nicchie, entrambe occupate da due vasi.

Sul prospetto della chiesa, sopra il doppio ordine sovrapposto, si eleva il timpano sopra il quale sono collocati degli acroteri del periodo greco a coronare il vertice e gli angoli del timpano – esattamente come avveniva per il frontone dei templi antichi a scopo simbolico o ornamentale – e due gruppi di statue: a sinistra quello della Fede e a destra quello della Speranza.

Al centro del frontone troneggia lo stemma della Madre di Dio, sormontato della corona che La indica come Regina del Cielo e della Terra; in sommità culmina una croce che domina l’interno edificio.

 

Per la costruzione della chiesa Madre di Gela occorsero più di trent’anni: l’impianto dell’edificio presenta una pianta a croce latina con schema basilicale a tre navate e la cupola.

La configurazione degli spazi interni è ampia e molto luminosa con pilastri e arcate in stile tardo-barocco e decorazioni in oro zecchino (Fig. 5). Lungo la navata centrale vi si trova un ordine composito con alti capitelli e lesene scanalate,  numerosi affreschi e iscrizioni latine; le navate laterali, inoltre, presentano delle volte a vela.

 

La navata laterale destra della chiesa Madre comprende la cappella del SS. Sacramento (che è la maggiore), la cappella di Gesù, delle anime del Purgatorio, della Sacra Famiglia e di Santa Teresa; Segue dunque l’ingresso sud della chiesa.

Invece la navata laterale sinistra comprende la cappella della Passione, la cappella della Madonna di Lourdes, di S. Antonio, della SS. Trinità e di Santa Lucia.

Nella cappella della Passione, che è la maggiore della navata, si trova un altare su cui sovrasta la statua dell’Addolorata e al sotto di essa vi è un’urna con la statua del Cristo Morto. Entrambi i simulacri sono noti e  importanti nella tradizione locale, perché gli stessi, come ogni anno, vengono portati in processione al Calvario durante della settimana Santa.

E ancora in occasione del venerdì santo che viene adoperata una “vara”, ovvero un’urna in legno dorato chiuso da vetrate per il trasporto di Cristo Morto dal Calvario alla chiesa Madre. Tale monumento è custodito e coperto da un telone presso la navata centrale della chiesa Madre. In quest’ultima, completata nel 1784, comprende la cappella dell’Assunta, il transetto con la cupola e la cantoria con un grande organo con doppio filare di canne, ormai in disuso, dono dell’allora Capo del Governo Benito Mussolini in occasione della visita a Gela, avvenuta il 14 agosto dell’anno 1937.

Inoltre, all’interno della chiesa è custodita l’icona di Maria SS. Di Alemanna con fondo oro, veste marrone e manto blu; il dipinto, firmato dal pittore Giacomo Furnari di Gela, durante la celebrazione della Patrona la cui festa  ricorre  l’8 settembre, viene posto nel finestrone esterno della facciata principale.

All’interno dell’edificio sono ubicati numerosi dipinti del Settecento e dell’Ottocento di diversi autori, in particolare un notevole dipinto su tavola del 1563 che raffigura il Transito di Maria attribuito a Deodato Guinaccia.

 

La chiesa Madre di Gela si configura come una costruzione armonica, un esemplare di architettura neoclassica che primeggia nel cuore della città che al suo interno custodisce tradizione, devozione, arte e cultura (Fig. 6).

 

 

 

Le immagini sono fotografie scattate dalla redattrice, ad esclusione dell’immagine n. 5.

 

 

 

Bibliografia

Mulè, La chiesa Madre di Gela e il culto di Maria SS. D’Alemanna, Aliotta, Gela, 1985.

Vicino, Gela-Monumenti antichi, Raccolti di studi sui beni culturali e ambientali, Vaccaro editore, Caltanissetta, 1992.

A. Alessi, Gela. Città greca della Sicilia. Storia-Archeologia-Monumenti-Ambiente, Associazione Culturale “Archeo-Ambiente” di Gela con il contributo della Camera di Commercio della Provincia di Caltanissetta, Coop. C.D.B., Ragusa, 1997.

Mulè, Dell’Antico Centro Storico di Gela, E-Solution di A. Tandurella, Gela, 2017.


IL BORGO DI MONTERUBBIANO: DALLE ORIGINI A VINCENZO PAGANI

A cura di Arianna Marilungo

 

 

Origini e vicende storiche di Monterubbiano

Monterubbiano è un paese della provincia di Fermo che sorge a circa 10 km dalla costa adriatica e ad un’altitudine di 463 metri sul livello del mare. Le sue origini sono assai remote: reperti archeologici trovati durante campagne di scavo nel territorio monterubbianese, ora esposti nel Polo Culturale San Francesco [1], testimoniano che vi furono insediamenti umani già a partire dalla prima Età del Ferro. Nella seconda metà del III sec. a.C. i Romani occuparono il territorio Piceno impossessandosi anche di Monterubbiano, imponendogli il nome di Urbs Urbana o Urbana Civitas. Dopo la caduta dell’Impero romano, anche Monterubbiano fu oggetto delle invasioni barbariche. Tra le più devastanti si ricorda quella dei Goti nel V secolo: dopo aver devastato il nucleo abitativo ne diedero alle fiamme tutta la zona che includeva la fortezza principale.

Lentamente il borgo prendeva a rinascere e nel 1000 gli venne dato il nome di Urbiano o Orviano, da cui deriva l’attuale Monterubbiano.

A partire dall’XI secolo i monaci benedettini di Montecassino vi stabilirono vari possedimenti, sostituiti poi dai monaci di Farfa[2].

Il castrum Montis Robiani si è formato nell’ultimo trentennio del secolo XII mediante la fusione degli abitati dei due precedenti castelli di Monterubbiano e di Coccaro a cui fu assoggettata la popolazione di un terzo insediamento castrense, quello di Montotto.

Il 2 settembre del 1200 Monterubbiano si sottomise alla giurisdizione di Fermo, ma cinque anni più tardi riconquistò la sua libertà. Nel 1237, con il prevalere della fazione ghibellina, riconobbe il governo di Federico II. Dal 1244 l’incastellamento si pose sotto il dominio della Chiesa, ma dal 1258 al 1266 soggiacque al re Manfredi. Seguirono secoli di instabilità governativa caratterizzati da guerriglie per il potere politico del castello di Monterubbiano. Per tredici anni a partire dal 1433 cadde sotto il potere di Francesco Sforza, che ne intuì l’importanza strategica e lo circondò di baluardi e alte mura difensive che si estendevano per circa 2 km e di cui tuttora rimangono monumentali ruderi. Il XVI secolo fu caratterizzato dalla fine delle guerriglie e da un periodo di relativa pace. Il paese era suddiviso in 6 quartieri, chiamate contrade: Montis Rubiani, Sancti Nicolai, Sancti Bassi, Turni, Cuccari e Sancti Johannis[3].

Nel XVI secolo Monterubbiano, nonostante la vicinanza con una città potente come Fermo, si governò con i propri statuti, stampati nel 1547 per i tipi di Astolfo de Grandis. Il potere legislativo fu affidato al Consiglio Generale, composto da 64 membri divisi in quattro gradi, che rappresentava l’intera popolazione, ma il potere reale fu invece nelle mani del Consiglio di Credenza, composto da 32 membri appartenenti ai primi due gradi del Consiglio Generale. Nel corso del Cinquecento un gruppo di famiglie acquisirono maggior potere politico, conquistando il primo grado del Consiglio Generale ed arrivando a costituirsi “nobiltà di reggimento”, monopolizzando cariche e magistrature di più alto rango. Il potere della “nobiltà di reggimento” derivava dall’esercizio in via ereditaria del potere amministrativo a livello locale[4]. Tra queste famiglie spicca il nome dei Pagani, noti non solo per la loro attività pittorica, ma anche per le alte cariche politiche che rivestirono nella comunità monterubbianese.

 

Vincenzo Pagani: L'Assunzione di Maria nella chiesa di santa Maria dei Letterati

In questo contesto socio-politico si formò uno dei personaggi che segnarono più profondamente la vita culturale, artistica e politica del borgo: il pittore Vincenzo Pagani, probabilmente figlio unico del pittore Giovanni di Domenico (circa 1465-1545). In base ai documenti d’archivio, la famiglia Pagani risiedeva nella contrada Turni di Monterubbiano sin dalla fine del Duecento ed era nota per l’attività artistica non solo di Giovanni di Domenico e suo figlio Vincenzo, ma anche per quella del figlio di quest’ultimo, Lattanzio. Grazie a questo attivismo politico, la famiglia Pagani era riuscita ad accumulare un modesto patrimonio fondiario e a rivestire un alto rango sociale.

Vincenzo Pagani nacque a Monterubbiano alla fine del secolo XV e qui morì nel 1568. Uno dei suoi biografi più autorevoli, Luigi Centanni, fissa la data di nascita intorno al 1490. Trascorse la sua esistenza prevalentemente a Monterubbiano, rivestendo numerose cariche nella vita amministrativa e pubblica del comune. Il Pagani fu un artista molto produttivo in grado di aggiornare la sua arte traendo suggestioni da opere di artisti provenienti da altre culture, mantenendo però integri la sua personalità artistica ed il suo stile pittorico. Le sue opere manifestano un curioso connubio tra cultura veneta, umbra e romagnola ed indubbia è l’influenza crivellesca nella sua identità di pittore. Vincenzo Pagani, infatti, conobbe e studiò direttamente le opere di Carlo Crivelli. La sua formazione si basò anche sugli insegnamenti del pittore austriaco Pietro Alamanno (Choetbei, tra il 1430 ed il 1440 – Ascoli Piceno, 1499), che visse ed operò nella Marca Fermana a metà del XV secolo.

Tra gli artisti studiati da Vincenzo Pagani si annovera anche Raffaello, di cui ammirò dal vivo le opere conservate a Perugia e a Città di Castello, ma che conobbe soprattutto grazie alle incisioni realizzate da Marcantonio Raimondi e dai suoi collaboratori con la riproduzione degli affreschi raffaelleschi della Stanza della Segnatura in Vaticano[5].

Nell’abside della chiesa di Santa Maria dei Letterati[6] (fig. 1) entro un’elegante cornice barocca è conservata una tela di mano del Pagani: l’Assunzione di Maria (fig. 2-3). La tradizione vorrebbe che la tela fosse stata commissionata per la chiesa dell’Annunziata di Firenze, dove tuttavia non arrivò mai a causa del mutare delle condizioni contrattuali.

 

La composizione della tela si basa su un doppio registro (fig. 4): quello inferiore, che rappresenta il momento in cui gli apostoli scoprono la tomba vuota della Madonna, e quello superiore, dove la Madonna è assunta in paradiso tra la gloria degli angeli.

 

Il modello da cui il Pagani attinse ispirazione per l’intera composizione del registro inferiore, ma anche per la figura di San Giovanni che guarda nella tomba, è l’Incoronazione della Vergine (detta Madonna di Monteluce)[7] (fig. 5) eseguita da Giulio Romano e da Giovanni Francesco Penni nel 1525 su disegno di Raffaello per il convento delle clarisse di Perugia.

 

È ipotizzabile che il Pagani ebbe modo di studiare questa tavola durante il suo soggiorno a Perugia nel 1547, quando il dipinto era ancora conservato nel convento delle clarisse di questa città. Pertanto la data di esecuzione della tela monterubbianese del Pagani può essere fissata in epoca successiva, ma prossima, al viaggio dell’artista a Perugia[8].

La scena dell’Assunzione del Pagani si apre su un paesaggio rurale che dilata lo spazio pittorico e nel cui sfondo, a sinistra, si nota un incastellamento. Il registro inferiore (fig. 6) è caratterizzato da una forte concitazione: gli apostoli sono sbalorditi, stupefatti nel trovare la tomba della Vergine vuota e l’esagitato movimento dei corpi e delle mani dimostra tutta la loro incredulità al miracolo appena avvenuto. Gli apostoli sembrano essere tutti concentrati nel capire cosa sia successo e solo la figura di San Giovanni Battista, che secondo la tradizione sarebbe un autoritratto dell’artista (fig. 7), è stata colta mentre guarda l’osservatore e con l’indice della mano sinistra indica il registro superiore dove è dipinta la Madonna assunta. Un cartiglio attaccato all’estremità del bastone del santo recita: “Ecce Mater Dei”, ovvero “Ecco la Madre di Dio”, sottolineando il soggetto della tela.

 

Il contrasto tra il registro superiore ed il registro inferiore non si evince solamente dalla differenza nei gesti e nei movimenti, cioè dall’agitazione dei discepoli che si contrappone al ritmo armonico e simmetrico delle figure nel registro superiore, ma anche dalla differenza coloristica delle due parti. L’Assunta (fig. 8), infatti, poggia i piedi su un candido manto di nubi bianche che, trainato da angioletti, la eleva in paradiso affiancata da due gruppi di angeli adoranti vestiti di vivaci colori. La figura della Vergine è rappresentata in preghiera e con le mani giunte. Questa immagine ci rimanda a figure analoghe di mano del Pagani, come la Madonna della Misericordia di Montalto delle Marche e la Madonna di Montedinove. La Madonna di Monterubbiano (fig. 9), però, manca di autentica espressività e non si può annoverare tra le migliori dipinte dal Pagani, forse anche a causa dei numerosi rimaneggiamenti di cui l’opera è stata oggetto.

 

 

Desidero ringraziare il sindaco di Monterubbiano, dott.ssa Meri Marziali, per avermi rivolto l'invito a scrivere un articolo relativo a questo borgo.

Ringrazio, inoltre, lo staff dell'Ufficio Turistico di Monterubbiano per avermi guidata alla scoperta del suo patrimonio artistico.

Ed infine ringrazio di cuore la mia cara amica Cristina Offidani per essersi resa disponibile a scattare le fotografie.

A tutti va il mio più sentito e sincero ringraziamento.

 

 

Note

[1] Il Polo Culturale San Francesco sorge all’interno del complesso conventuale di San Francesco e comprende un auditorium, il museo civico-archeologico, la biblioteca, la sala espositiva “Rosa Calzecchi Onesti”, un centro di educazione ambientale ed un orto botanico.

[2] Luigi Centanni, Guida storico-artistica di Monterubbiano, Industrie Grafiche Pietro Vera, Milano, 1927, p. 7

[3] Walter Scotucci, Paola Pierangelini, Vincenzo Pagani, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 1994, pp. 55-58

[4] Marco Moroni, Fermo e il suo Stato al tempo di Vincenzo Pagani, in Vittorio Sgarbi (a cura di), Vincenzo Pagani: un pittore devoto tra Crivelli e Raffaello. Fermo, Palazzo dei Priori, 31 maggio – 9 novembre 2008, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2008, p. 22

[5] Stefano Papetti, La diffusione del raffaellismo nelle Marche meridionali: il caso di Vincezo Pagani, in Vittorio Sgarbi (a cura di), cit., p. 57

[6] Ricostruita entro il 1716 sulle fondamenta della Chiesa di S. Maria della Misericordia crollata durante un terremoto. Nel 1728 fu elevata a rango di Collegiata da Benedetto XIII. Presentava la pianta a navata unica coperta da volta a botte, ma nel 1856 si aggiunsero un’abside ed un transetto trasformandola in pianta a croce latina.

[7] Si tratta di un olio su tavola (354x232 cm), oggi conservato ed esposto nei Musei Vaticani.

[8] Walter Scotucci, Paola Pierangelini, cit., pp. 165-166

 

 

Bibliografia

Maurizio Mauro, con il particolare contributo di Gabriele Nepi, Fermo e i suoi castelli, Istituto Italiano dei Castelli Adriapress, Ravenna, 2001

Walter Scotucci, Paola Pierangelini, Vincenzo Pagani nel territorio di Ascoli e Fermo, in Stefano Papetti (a cura di), Beni artisitici: pittura e scultura, Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, Fermo, 2003, pp. 97-98

Walter Scotucci, Paola Pierangelini, Vincenzo Pagani, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI), 1994

Vittorio Sgarbi (a cura di), Vincenzo Pagani: un pittore devoto tra Crivelli e Raffaello. Fermo, Palazzo dei Priori, 31 maggio – 9 novembre 2008, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2008

Luigi Centanni, Guida storico-artistica di Monterubbiano, Industrie Grafiche Pietro Vera, Milano, 1927


LA CATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA DI ATRI

A cura di Valentina Cimini

 

 

Atri e la sua storia

Atri, comune di 10 119 abitanti in provincia di Teramo, costituisce un’importante città artistica del medio Adriatico, collocandosi tra le più antiche città d’Abruzzo. Situata su tre colli e affacciata sul mare Adriatico, grazie alla sua favorevole posizione ebbe sin dall’epoca romana un’accesa attività di scambio e commercio con gli Etruschi, i cui monili rinvenuti negli scavi qui compiuti sono ora conservati al British Museum di Londra (Fig.1).

 

La sua storia in epoca imperiale non si arresta, seppur risultando minore a causa della perdita dell’autonomia nel 289 a.C. divenendo colonia romana. Ciò nonostante ebbe l’onore di avere sul trono romano un suo cittadino, l’imperatore Elio Adriano. Egli di fatti si considerava tale poiché proprio in questo luogo esercitò la carica censuaria di quinquennale, motivo per cui ancora oggi il corso principale della città è a lui intitolato. I reperti dell’antica città romana “Hatria-Picena” sono numerosissimi e provengono dagli scavi di Piazza Duomo e delle Necropoli Colle della Giustizia e Pretara del VI-V sec. a.C.

Dopo un periodo di crisi durante le invasioni barbariche, Atri si costituì in libero comune nel 1251 per opera di Innocenzo IV e da quel momento in poi la città cominciò ad acquisire quel senso estetico che tuttora in parte conserva. Della seconda metà del Duecento, di fatti, è la Basilica Cattedrale, chiesa maggiore della città e al contempo importante testimonianza del Medioevo e del Rinascimento abruzzese coi magnifici affreschi di Andrea De Litio.

 

La storia della Cattedrale di Santa Maria Assunta di Atri

La Cattedrale di Santa Maria Assunta si erge su una delle zone più importanti del nucleo storico di Atri, piazza Duomo, lungo l’asse viario principale del paese, dove un tempo sorgevano le terme di Hatria Picena (Fig.2). La chiesa originaria, di fatti, fu eretta sui resti di una conserva d’acqua d’età romana adibita a cripta nel Medioevo, facendo sì che le possenti mura della piscina limaria servissero da fondazione per l’edificazione della nuova struttura sacra.

 

Una prima testimonianza effettiva della presenza ad Atri di una chiesa dedicata all’Assunzione della Vergine, a cui è tuttora intitolata la Cattedrale, risale al XII secolo e si tratta del contenuto di una bolla pontificia in cui Innocenzo II menziona proprio una “ecclesia Sancte Marie de Atria”.

L’odierna struttura è opera di Raimondo di Poggio e Rainaldo d’Atri che la iniziarono intorno al 1260, dando atto ad un progetto ambizioso che trasformò quasi del tutto la precedente chiesa romanica a cinque navate, eretta nella seconda metà del XII secolo, per adeguarsi alla dignità episcopale acquisita nel 1251. I lavori si protrassero fino agli inizi del Trecento con la decorazione del fianco destro e della facciata, mentre l’ottagono superiore del campanile, la cui edificazione iniziò nel 1268, venne apposto da Antonio da Lodi nel 1502.

La storia della Cattedrale, inoltre, è supportata e confermata dalle epigrafi che datano e firmano l’esecuzione dei portali, sul lato meridionale e della facciata, da parte di due artisti abruzzesi. Le iscrizioni, scolpite in caratteri gotici, attribuiscono la prima parte dell’edificio, dal coro fino al campanile, a Raimondo de Podio (1288), mentre la seconda, dal campanile alla facciata, a Rainaldo d’Atri (1305).

L’esecuzione della Cattedrale si concludeva, almeno nella sua parte esterna, nel primo decennio del Trecento con l’inserimento del portale sulla facciata antistante Piazza Duomo, mentre negli anni seguenti furono compiute opere di ornamento che sono testimoniate da due diverse Bolle pontificie risalenti al 1292 e 1294. Successivamente nella prima metà del XIV secolo proseguirono i lavori del chiostro annesso alla chiesa ed ebbe inizio la vasta decorazione pittorica dell’interno, che culminò con gli affreschi del coro realizzati da Andrea De Litio a partire dal 1450. Ai primi del Cinquecento risalgono invece il battistero e l’altare votivo realizzati dal maestro comacino Paolo de Garvis, testimonianza della penetrazione in Abruzzo dello stile rinascimentale lombardo, e il tamburo ottagonale cuspidato posto a coronamento del campanile medievale a pianta quadrata, che si apre in bifore e finestre circolari ornate di maioliche, opera di Antonio da Lodi secondo un modello che avrà particolare seguito nell’area teramana (Fig.3).

 

L’edificio successivamente non subì notevoli cambiamenti nel corso dei secoli e venne dichiarato monumento nazionale nel 1899, ma a seguito di gravi lesioni subite nel terremoto del 1915 fu oggetto di numerosi interventi di restauro da parte della Soprintendenza, causandone la chiusura al culto per lunghi periodi. La Cattedrale, infine, venne elevata a Basilica Minore nel 1964 da papa Paolo VI e riaperta definitivamente alle funzioni religiose.

 

La facciata

La Cattedrale di Atri rappresenta una delle espressioni più rilevanti dell’architettura abruzzese dei secoli XIII e XIV con la sua maestosa facciata, dal volume chiaro ed unitario, a terminazione rettilinea in conci di pietra d’Istria. Di fatti, questa singolare tipologia di facciata, a coronamento orizzontale, ebbe una larga diffusione in Abruzzo nei suddetti secoli, tanto da qualificare la produzione architettonica della regione con numerosi esempi a L’Aquila, Lanciano, Sulmona fino a Celano. Tale scuola, così consolidata, permane nel corso del XV secolo giungendo, in forme rinnovate, fino al Rinascimento ed oltre.

Nella struttura presa in esame, la facciata presenta una terminazione rettilinea con cornice ad archetti pensili trilobati e risulta tripartita da lesene, mentre nella parte centrale il portale, sormontato da sottili incorniciature cuspidate, e il rosone a ruota risultano inseriti in un'unica incorniciatura a timpano tagliata orizzontalmente da una fascia a foglie geminate. La tradizione che vorrebbe la terminazione originaria di Santa Maria Assunta cuspidata, di netto stile gotico, costituirebbe, in realtà, solamente un malinteso derivante da un’interpretazione soggettiva del Necrologio della Cattedrale. Di fatti quel documento, risalente al terremoto che vi fu nel 1563, riferisce[1] che il violento sisma lesionò gravemente la facciata provocando la caduta di alcune pietre collocate sulla sommità, senza però citare in alcun modo quale fosse il tipo della terminazione dell’edificio. Per questo motivo non sussiste la possibilità che il restauro cinquecentesco abbia modificato il disegno originario del prospetto. In questa struttura semplice e lineare, caratterizzata da una forte prevalenza dei pieni sui vuoti, si vanno ad inserire gli elementi scultorei del portale maggiore e del rosone, sopra al quale troviamo un’edicola trilobata che ospita la statua della Vergine con il bambino in braccio, seduta su un trono finemente lavorato.

 

I portali

I portali della Cattedrale, importanti esempi del Gotico in Abruzzo, costituiscono un ulteriore elemento caratterizzante non solo per la loro testimonianza dell’evoluzione costruttiva dell’edificio con le loro epigrafi riportanti date e nomi dei loro artefici, ma anche per la loro significativa funzione decorativa (Fig.4).

 

Partendo dal prospetto meridionale il portale più antico, posto in posizione mediana, è quello attribuito a Raimondo de Podio e datato 1288. Collocato tra due lesene che ne diventano parte integrante, presenta una decorazione molto sobria con un elemento nastriforme che ne delimita la parte superiore costituita da un frontone a timpano. Al di sotto invece, l’arco, ornato al suo interno da figure floreali a punta di diamante, è disegnato da una cornice sottile. In posizione centrale, sopra l’arco, è posto l’agnello crucifero contornato agli angoli da quattro cigli di Francia, simbolo della famiglia d’Angiò al tempo regnate.

Il secondo portale, sulla destra rispetto al precedente, è attribuito per sua stessa epigrafe al medesimo artista che, seppur seguendo un disegno analogo, mostra qui la sua piena maturità artistica[2] che si concretizza in un linguaggio molto originale caratterizzato da ricchi ornamenti negli archivolti. Vi è infatti un ampio uso della foglia di palma che viene lavorata radialmente attorno alla curvatura dell’archivolto, in modo tanto singolare da essere definita “palmetta atriana”. Ogni spazio, quindi, presenta una ricca decorazione dimostrando non solo l’attitudine creativa del suo autore, ma anche l’eccellente maestria marmoraria acquisita.

Sempre sul fianco, il terzo ed ultimo portale anche per cronologia, essendo la sua costruzione datata nel 1305, è stato realizzato da Rainaldo d’Atri, il quale viene considerato dall’iscrizione sulla lapide collocata sulla lesena di sinistra anche come il progettista dell’intera opera del Duomo. Lo schema è nuovamente a timpano ottenuto con decorazione a fiori a punta di diamante, mentre negli ornamenti concentrici dell’archivolto domina la palmetta atriana.

Infine il portale maggiore (Fig.5), contemporaneo all’ultimo del fianco, pur presentando i medesimi stilemi dei precedenti, li rielabora in dimensioni grandiose. È qui presente il repertorio scultoreo dei portali minori, ulteriormente arricchito, in un succedersi di motivi mai interrotti: le colonnine con diversi motivi a spirale, sormontate da sei capitelli, fungono da base ad altrettanti archi concentrici a tutto sesto che degradano fino all’affresco centrale dell’Assunzione della Vergine.

 

L’interno

Proseguendo verso l’interno della Cattedrale, ci troviamo di fronte ad una pianta a tre navate che presenta un discreto slancio verticale ed un ritmo regolare grazie alla divisione dello spazio operata da archi diaframma su pilastri quadrilobati, che creano una commistione tra la severa semplicità dell’architettura precedente e il contenuto slancio gotico degli archi a sesto acuto impostati su semplici capitelli in pietra (Fig.6). L’ampio spazio viene poi interrotto da una serie di pilastri polistili, alcuni dei quali risultano fasciati da un rivestimento ottagonale di rinforzo per esigenze statiche già nel Trecento.

 

Inoltre, è proprio al suo interno che la Cattedrale di Atri racchiude un’altra delle sue meraviglie: il ciclo pittorico che corre lungo le superfici dello spazio interno, dalle pareti ai rinforzi ottagoni delle colonne. Gli affreschi furono iniziati alla fine del Duecento e conclusi circa due secoli dopo con la decorazione del coro. Ma oggi delle pitture più antiche rimane solo una parte, dato che la maggior parte di esse fu irreparabilmente danneggiata dagli intonaci sovrapposti nel XVII secolo, nonostante ciò gli interventi di restauro del 1895 riuscirono a restituirne un numero discreto.

Uno dei dipinti più antichi, risalente al 1270 circa, è situato sulla navata sinistra ed è denominato Incontro dei vivi e dei morti (Fig.7), esso ritrae tre scheletri apparsi inaspettatamente a tre nobili signori vestiti con ricchi abiti e accompagnati da cavalli. Questo affresco, che presenta una struttura molto semplice con un modellato privo di profondità che lo fa collocare proprio tra le prime sperimentazioni del periodo gotico, risulta ancor più interessante per il tema della raffigurazione; il quale ci riporta direttamente alla tradizione dei poemi francesi del XII secolo in cui ricorre tale singolare incontro che vede tre giovani cavalieri al cospetto di altri e tanti cadaveri che li ammoniscono con un memento mori. Infatti, anche nell’opera presa in esame è ancora visibile la prima parte dell’ammonizione, situata al di sopra dei cavalieri e scritta in caratteri gotici: “Nox quae liquescit gloria sublimis mundi […]”[3] che potrebbe costituire un riferimento alla vittoria della morte sulla vita.

 

Un carattere notevolmente diverso si ritrova invece nelle immagini del coro, la cui raffinatezza mette in luce un’importante attenzione per la spazialità e la prospettiva che sottolineano fin da subito una collocazione temporale successiva della mano di Andrea De Litio, artista nato nell’aquilano e formatosi a Firenze nel XV secolo (Fig.8).

 

Tali affreschi, che costituiscono una delle opere più importanti del Quattrocento in Abruzzo, si sviluppano sulle tre pareti dell’ultima campata, nella parte centrale dell’abside, e nella volta, dove in alto, sulle quattro vele della crociera costolonata, troviamo su uno sfondo azzurro disseminato di stelle le ampie figure degli Evangelisti e Dottori della Chiesa (Fig.9), disposti nella stessa modalità di Giotto ad Assisi nella chiesa di San Francesco. Nelle pareti del coro, invece, si possono ammirare le scene tratte dal Nuovo Testamento composte in riquadri e delimitate da archi e colonne finemente decorati. Queste vicende, seppur divise architettonicamente, sono tra loro comunicanti e narrano le storie dell’infanzia della Vergine, le leggende e momenti della vita di Cristo e la vita della Vergine dopo la morte di Gesù Cristo, per un totale di 101 pannelli, che lo rendono uno dei cicli di affreschi più grandi d’Abruzzo.

 

È da notare, inoltre, l’importante elemento di collegamento con la cultura e la tradizione regionale che si stabilisce all’interno delle raffigurazioni del maestro De Litio, evidenti in particolar modo nelle scene della Vita di Maria e di Gioacchino, dove non mancano riferimenti alla società e cultura atriana del tempo, ad esempio con la raffigurazione di donne e fanciulle nelle loro acconciature e costumi tipici, e paesaggi che riportano sia a quelli della Marsica che a quelli atriani con i tipici calanchi.

Quanto detto non può che farci guardare alla città di Atri e al suo duomo (Fig.10) come un prestigioso scrigno della storia e della cultura abruzzese, che non può non essere scoperto e visitato.

 

 

 

Note

[1] “[…] frontispitium huius Ecclesiae sub portam magnam vi diruptum est, et lapides cacuminis dicti parietis ceciderunt…”.

[2] Ci troviamo qui nel 1302.

[3] “E la notte svanisce: la gloria del mondo…”.

 

 

 

Bibliografia

Trubiani Bruno, Atri: città d’arte, Edizioni Menabo, Ortona, 1996.

Palestini Caterina, Cattedrale di Santa Maria Assunta: Atri, BetaGamma, Viterbo, 1996.


L’ABBAZIA DI SAN MERCURIALE

A cura di Francesca Strada

 

 

 

Introduzione

L’abbazia è da sempre nell’immaginario collettivo un luogo di culto e di sapere, dove la religione e lo studio caratterizzano le giornate di coloro che la popolano. Nella città di Forlì è possibile ammirare una badia dalle origini assai antiche, il cui aspetto l’ha resa uno dei simboli della località: l’Abbazia di San Mercuriale. Ferita ma sopravvissuta ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, è un piccolo gioiello nel cuore della Romagna, insignita del titolo di “Basilica minore” nel 1958.

 

Storia

 

L'abbazia sorge sui resti di un'antica pieve, presumibilmente dedicata al protomartire, distrutta nel XII secolo da un incendio scatenato da disordini politici interni alla città, per poi essere ricostruita in nuove forme e dedicata a San Mercuriale, colui che, secondo i racconti, avrebbe impedito a un drago di continuare a terrorizzare gli abitanti con le sue empietà. Nel basso Medioevo, l’abbazia forlivese acquistò prestigio e divenne un punto di riferimento.

 

Il campanile

 

Con un’altezza di 72 metri, il campanile dell’abbazia svetta sulla città di Forlì, mostrandosi in tutta la sua imponenza. La sua importanza non è circoscritta alla provincia romagnola, ma si estende ben oltre, infatti, fu il modello studiato per la ricostruzione del Campanile di San Marco a Venezia dopo il crollo del 1902.

 

La facciata

La facciata del tempio è di stampo romanico, decorata da un rosone volto ad alleggerire la massiccia arcata centrale, nella quale spicca il portale in pilastri marmorei, sovrastato dalla lunetta dell’Adorazione dei Magi del XIII secolo, probabilmente ad opera del Maestro dei Mesi di Ferrara, che comprende, non solo l’incontro con la Vergine, ma anche il Sogno dei Magi, riportando alla memoria la celebre immagine del Capitello di Autun. Le figure presentano un rilievo estremamente marcato, parendo, a un occhio distratto, statue a tutto tondo.

 

Il Monumento funebre a Barbara Manfredi

 

Entrando nella chiesa, una giovane donna accoglie il visitatore, giace dormiente con il capo adagiato su un morbido cuscino, è Barbara Manfredi, moglie di Pino III Ordelaffi, signore di Forlì. Morta all’età di ventidue anni, la figlia del signore di Faenza fu tumulata nella chiesa di San Biagio, distrutta durante i bombardamenti; il monumento funebre venne quindi trasportato nell’abbazia. La straordinaria opera è frutto del lavoro dell’artista fiesolano Francesco di Simone Ferrucci.

 

La cappella dei Ferri

Fig. 9 - Cappella dei Ferri. Credits: Di Sailko - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=72352344.

 

Un nome del tutto singolare è quello della Cappella dei Ferri, forse in riferimento alle inferiate presenti nella cancellata marmorea al suo ingresso. Nella cappella possiamo trovare l’Immacolata col Padre Eterno in gloria e i santi Anselmo, Agostino e Stefano, una pala d’altare presentante una tavola centrale e una lunetta superiore, ad opera del celebre artista forlivese Marco Palmezzano, che qui lasciò alcuni dei suoi capolavori, conservati nel Museo Civico, ma anche nella basilica. Nella tavola i santi Anselmo e Agostino sono rivolti alla Madonna, che assorta contempla l’Eterno, mentre, alla destra di lei, Santo Stefano regge il Vangelo. Sullo sfondo, incastonata in uno splendido paesaggio montuoso, si scorge la città di Forlì con il campanile dell’abbazia.

 

La cappella Mercuriali

 

La navata di destra termina con una suntuosa cappella: la Cappella Mercuriali, richiesta da Girolamo Mercuriali, padre della fisiatria, per seppellire degnamente il figlio Giovanni. La personalità illustre di Girolamo valse al figlio una cappella altrettanto maestosa; uomo colto e ben istruito, il Mercuriali scrisse il primo trattato al mondo sulle malattie della cute e fu teorico della medicina sportiva, venne insignito del titolo di conte palatino dall’imperatore Massimiliano II.

 

La decorazione ad affreschi della cappella è di incerta attribuzione, ma si riconosce la mano di Ludovico Cardi nella pala di San Mercuriale che doma il drago e quella di Domenico Cresti nella Madonna e i Santi Girolamo e Mercuriale. Con un successivo restauro, la cappella fu destinata a uso famigliare e, per suo volere, quivi fu sepolto anche l’illustre medico, ricordato con una lapide commemorativa.

 

Il Chiostro dei Vallombrosani

 

Il complesso presenta un elegante chiostro, noto come il Chiostro dei Vallombrosani, costruito intorno al XV secolo, presenta al centro ancora uno splendido pozzo seicentesco, sfuggito ai danni bellici. Sul finire degli anni ’30, venne proposto il suo abbattimento per consentire un più agevole passaggio alla piazza retrostante; tuttavia, l’ingegnere Gustavo Giovannoni si oppose, proponendone il restauro e l’abbattimento del muro esterno per creare una via d’accesso senza distruggere quest’opera secolare.

 

Bibliografia

Marco Viroli e Gabriele Zelli, Forlì. Guida alla città, Diogenebooks, 2012


LA BASILICA DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CARIGNANO A GENOVA

A cura di Alice Perrotta

 

 

Introduzione

A Genova, nel quartiere di Carignano, sorge la splendida basilica di Santa Maria Assunta (fig.1), risalente alla metà del Cinquecento. Al suo interno, sono custodite opere di artisti di notevole rilevanza: tra i nomi spiccano quelli di Filippo Parodi, Pierre Puget, Claude David, Luca Cambiaso, Domenico Fiasella e Guercino.

Fig. 1 - La basilica di S. Maria Assunta di Carignano a Genova. Credits: Wikimedia commons, By Davide Papalini - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10676616.

 

Cenni storici

Sul colle di Carignano, prima ancora che la basilica venisse concepita, esisteva una piccola cappella intitolata a San Sebastiano, costruita forse in seguito all’epidemia di peste che colpì la zona nel 1430.

Nel 1481 Bendinelli Sauli volle erigere una nuova chiesa, ma le sue volontà vennero messe in atto solo nel 1552 da un altro membro della famiglia. Il progetto architettonico fu affidato al perugino Galeazzo Alessi e i lavori si protrassero a lungo, anche dopo la sua morte avvenuta nel 1572. Nel 1588 si tenne la prima messa solenne, ma l’edificio venne ultimato solo nel 1612 quando fu innalzata la cupola centrale.

Verso la metà dell’Ottocento, l’architetto Carlo Barabino si occupò della ristrutturazione della facciata e dell’inserimento delle scalinate di accesso, mettendo in atto così il disegno cinquecentesco dell’Alessi.

Il 14 agosto 1951 la chiesa venne insignita del titolo di basilica minore.

Nel corso del tempo, l’edificio fu visitato da alcuni grandi nomi come Stendhal, Charles Dickens e Goethe, i quali espressero parole di gran lode per tale luogo. Nella sua opera degli anni ‘30 dell’Ottocento, Mémoires d'un touriste, Stendhal si esprimeva così circa la chiesa di Genova: «un capolavoro di gravità e di nobiltà»[1].

 

 

L’esterno

Per quanto riguarda l’aspetto architettonico, Galeazzo Alessi si ispirò molto al progetto elaborato da Bramante per la basilica di San Pietro a Roma. Infatti, l’intento della famiglia Sauli era proprio quello di riproporre a Genova, seppur in misura minore, la sontuosità e spettacolarità di ciò che si poteva ammirare a Roma.

La basilica di S. Maria Assunta presenta una pianta a croce greca. La cupola centrale è posizionata su un imponente tamburo decorato da serliane. Alle due estremità della facciata principale si ergono due campanili, anche se il progetto originario dell’architetto perugino, tramandatoci attraverso un disegno cinquecentesco, ne includeva quattro in totale.

Ogni lato della struttura è dotato del medesimo fronte con una trabeazione timpanata e una porta d’accesso (eccetto che nella facciata posteriore).

Al di sopra dell’ingresso anteriore, entro un’elaborata decorazione di gusto barocco, si colloca la statua dell’Assunta scolpita dallo scultore francese Claude David e ultimata dal genovese Bernardo Schiaffino. In realtà, in origine l’opera era stata pensata per essere collocata all’interno della chiesa, come coronamento di un baldacchino che però non venne mai realizzato. Anche quest’ultimo doveva inserirsi in quell’ambizioso progetto secondo cui la chiesa genovese avrebbe dovuto riproporre le sembianze della basilica di San Pietro a Roma. Proprio i Sauli, infatti, commissionarono a Pierre Puget la realizzazione di quattro sculture destinate alle nicchie dei pilastri della cupola [2] e del baldacchino che avrebbe dovuto richiamare (e forse addirittura superare!) quello di Gian Lorenzo Bernini della basilica romana.

 

L’interno

A differenza delle altre chiese locali del tempo, dove gli spazi interni pullulavano di affreschi barocchi, nella basilica di Carignano la decorazione venne lasciata agli elementi architettonici, ad opere di scultura e ad alcune prestigiose pale d’altare. Per quanto riguarda i capolavori in marmo, si possono ammirare i quattro imponenti personaggi che abitano le nicchie dei pilastri della cupola. Il San Sebastiano (fig.2) e il Beato Alessandro Sauli (fig.3) vennero eseguiti da Pierre Puget durante il suo soggiorno genovese negli anni sessanta del Seicento; il San Bartolomeo (fig.4), databile al 1695, fu realizzato da Claude David; infine, il San Giovanni Battista (1667) (fig.5) di Filippo Parodi, con cui lo scultore si guadagnò notevole fama.

 

Anche per quanto concerne la pittura, la basilica custodisce alcune preziosità: una Pietà di Luca Cambiaso (1571 ca.), San Francesco d’Assisi che riceve le stimmate (1665) del Guercino, il Martirio dei Santi Biagio e Sebastiano (1680) di Carlo Maratta, La visione di San Domenico e Il Beato Alessandro Sauli che fa cessare una pestilenza (1630) di Domenico Fiasella, la Madonna fra i Santi Carlo e Francesco d’Assisi di Giulio Cesare Procaccini e databile agli anni venti del Seicento.

 

 

La Pietà di Luca Cambiaso

Dipinta intorno al 1572, la Pietà (fig.6) del pittore genovese Luca Cambiaso (1527-1585) venne destinata alla cappella Sauli dove tuttora si trova.

Fig. 6 - Luca Cambiaso, Pietà, 1572 circa, Genova, Basilica di S. Maria Assunta di Carignano. Credits: wikimedia commons, By Sailko - Own work, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48581699.

 

L’opera, un suggestivo notturno, costituisce uno dei suoi ultimi capolavori eseguiti in Italia prima della partenza per la Spagna.

In primo piano campeggia il corpo esanime di Cristo, sorretto dalla Vergine Maria e attorniato da altri personaggi (la Maddalena, S. Giovanni, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea). All’estremità destra del dipinto, la figura in piedi venne letta da Federico Alizeri come il committente (dunque un membro della famiglia Sauli), ma esistono pareri discordanti a riguardo. Sullo sfondo, infine, si staglia il drammatico paesaggio con la scena del Calvario.

L’opera esemplifica bene la fase artistica avanzata di Cambiaso, contraddistinta da una continua ricerca di semplificazione delle forme. Tale linguaggio, conforme allo spirito gesuitico a cui il genovese si era avvicinato in quegli anni, portò poi il pittore a produrre sempre di più delle «immagini capaci di svolgere la funzione di strumenti e di punto di partenza per la meditazione» [3]. Anche la scelta del “notturno” contribuisce a veicolare lo spettatore verso un atteggiamento più contemplativo.

Considerando il soggetto rappresentato da Cambiaso, è possibile che con tale opera i committenti volessero ricordare Cristoforo Sauli, un parente ucciso nel 1571 e che aveva trovato sepoltura in tale cappella.

 

 

 

Note

[1] www.fosca.unige.it

[2] L’artista francese ne eseguì due (San Sebastiano e Beato Alessandro Sauli) mentre quelle raffiguranti San Bartolomeo e San Giovanni Battista vennero scolpite rispettivamente da Claude David e Filippo Parodi.

[3] L. Magnani, Luca Cambiaso “pintor famoso”, “facilisimo en el arte”, 2004, In: AA.VV. Espana y Gènova. Obras, artistas y colecionistas. p. 99-112, MADRID:Fernando Villaverde Ediciones, p.109

 

 

 

Bibliografia

Luigi Alfonso, Aldo Padovano, Le chiese genovesi, De Ferrari, 2014

Lauro Magnani, Luca Cambiaso “pintor famoso”, “facilisimo en el arte”, 2004, In: AA.VV. Espana y Gènova. Obras, artistas y colecionistas. p. 99-112, MADRID:Fernando Villaverde Ediciones

Stefano Pierguidi, “Fatta per essere locata non qui, ma in Roma”: Francesco Maria Sauli e le pale d’altare per Santa Maria Assunta in Carignano, Ligures, 7, 2009

 

Sitografia

www.basilicadicarignano.it

www.fosca.unige.it


LA CAPPELLA CERASI IN SANTA MARIA DEL POPOLO

A cura di Andrea Bardi

 

I prossimi due elaborati vorranno fornire al lettore un approfondimento sulla cappella di Tiberio Cerasi nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, ristrutturata in maniera decisiva agli inizi del XVII secolo. A un primo elaborato, maggiormente focalizzato sugli aspetti storico – documentari di tale riconfigurazione, ne seguirà un secondo, all’interno del quale verranno invece presentati gli interventi pittorici veri e propri.

 

Introduzione

La cappella di Tiberio Cerasi, tesoriere della Camera Apostolica, nella chiesa di Santa Maria del Popolo entra a buon diritto nel novero dei luoghi d’elezione dell’arte romana del Seicento, fornendo indicazioni utilissime a comprendere quale fosse, a cavallo dei due secoli, lo stato della pittura nell’Urbe. Nell’ultimo decennio del Cinquecento, infatti, la scena culturale romana era stata scossa dall’arrivo di due forestieri, Michelangelo Merisi e Annibale Carracci. Se quest’ultimo tentò di fondere i particolarismi locali (la Parma di Correggio, la Venezia di Veronese) in un linguaggio pittorico “nazionale” che – dopo aver metabolizzato, dalla metà degli anni Ottanta del Cinquecento in poi, stimoli eterogenei – aveva bisogno degli ultimi tasselli (Michelangelo e Raffaello) per giungere alla suprema sintesi figurativa, per il primo non è peregrino affermare che l’assoluta fedeltà al vero naturale – che connotava, del resto, in maniera preponderante anche l’indagine grafico-pittorica di Annibale – non poteva, e non doveva in alcun modo giungere a compromessi con la storia. I due artisti, entrambi reduci da commissioni di assoluto livello (La cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi per Caravaggio, con tre episodi della vita dell’apostolo Matteo; la volta a fresco della galleria di Odoardo Farnese per Annibale) furono messi l’uno di fianco all’altro, in una sorta di “sfida” implicita tra due diverse concezioni di “vero naturale” che apre il secolo cambiando per sempre la storia dell’arte italiana ed europea. Un rinnovato interesse per il vero che conviveva, però, con il linguaggio “ufficiale”, come notava correttamente Rudolf Wittkower (Arte e architettura in Italia. 1600-1750). Solo dalla consapevolezza di una simile convivenza si può spiegare il tono enfatico che l’anonimo estensore dell’avviso del 2 giugno 1601 riserva tanto alle pale Cerasi quanto agli affreschi del Cavalier d’Arpino, esponente di spicco del tardomanierismo romano, nella Sala degli Orazi e dei Curiazi al Campidoglio:

“hora si scorge che Roma fiorisce nella pittura, più che habbia fatto à tempi a dietro; attendendosi hora à finire le tele di Campidoglio dal Cavaliere Giuseppe, li dua quadri che fa il Caravaggio per la Capella del già Mons.r Ceraseo, Tesauriero. Il quadro Principale in essa Capella di d.o Caraccio, essendo insomma quei tre quadri di tutta l’eccellenza, et bellezza”[1]

 

Storia

Le vicende legate alla cappella vanno fatte risalire alla seconda metà del XV secolo, quando, in concomitanza con la risistemazione dell’intero edificio ecclesiastico promosso da papa Sisto IV, il cardinale veneziano Pietro Foscari decise di stabilire lì il suo monumento funebre. Circa un secolo più tardi, la suddetta cappella fu al centro di una trattativa tra l’allora “tesauriero” della Camera Apostolica, monsignor Tiberio Cerasi, e i padri dell’ordine agostiniano, a cui la chiesa apparteneva dalla metà del Duecento. L’intenzione di Tiberio, riportata nel testamento redatto nel 1598, era di farsi tumulare

“nella Chiesa del Popolo nella sepoltura dove è sepolto mio Padre Madre et Fratello”[2]

Due anni dopo (la proposta arrivò a Cerasi l’8 luglio 1600) furono gli stessi agostiniani ad offrire la cappella,

“existentem in parte superiori versus et iuxta altare maius sub invocatione eiusdem sanctissimae Virginis Mariae, sitam inter cappellam subtus chorum a sinistra, et cappellam illustrissimorum dominorum de Theodolis a dextera manibus, ut illam arbitrio suo ornari curet et faciat”[3]

“scambiandola” con una casa nei pressi di Montecitorio.

Una volta acquisito il vano, Tiberio Cerasi provvide a dotarlo di un apparato architettonico e pittorico moderno (tale libertà di azione gli era stata concessa dagli stessi padri[4]). In primo luogo, egli rimosse l’iscrizione commemorativa al cardinal Girolamo Foscari[5]. Nel settembre dello stesso anno, Cerasi concretizzò i contatti avviati con il Caravaggio pattuendo col pittore una somma di quattrocento scudi, cinquanta dei quali sarebbero stati versati come anticipo dal marchese Vincenzo Giustiniani (grande protettore dalla prima ora del Merisi). L’artista, da parte sua, si impegnava a consegnare, “infra octo menses” (entro otto mesi),

“duo quadra cupressus longitudinis palmor[um] decem et latitudinis octo”

(due quadri in legno di cipresso lunghi dieci palmi e larghi otto)

Le due tavole (223 x 178 cm ca.) avrebbero dovuto illustrare gli episodi centrali della vita degli apostoli Pietro e Paolo, ai quali la cappella era dedicata, ovvero il martirio per crocifissione del primo e la conversione “sulla via di Damasco” per il secondo.

Circa la pala d’altare, non abbiamo testimonianze documentarie del contratto stipulato con Annibale Carracci, autore di un’Assunzione della Vergine. L’unica testimonianza posteriore al contratto con Caravaggio è costituita da una piccola aggiunta al testamento originario, vergata da Cerasi il 2 maggio 1601 (un giorno prima della sua morte[6]) che ci è utile in quanto ci consente di conoscere il nome dell’architetto scelto per la risistemazione architettonica della cappella, Carlo Maderno[7]. Gli ultimi cinquanta scudi vennero versati a Caravaggio – il cui compenso finale venne decurtato di cento scudi per il ritardo nelle consegne – il 10 novembre 1601 dall’Ospedale della Consolazione, ente nominato erede universale della fortuna del Cerasi.

La cappella venne consacrata nel 1606[8], e, sebbene non si abbia una data precisa per la sistemazione dei dipinti al suo interno, questo anno può fornire un prezioso ante quem.

 

 

Note

[1] L’avviso è stato pubblicato da R. Zapperi, Per la datazione degli affreschi della Galleria Farnese, p. 821.

[2] Le parole del testamento sono riportate anche in L. Spezzaferro (La cappella Cerasi e il Caravaggio, in Caravaggio, Carracci, Maderno, p. 108) e poi in C. Viggiani, La cappella Cerasi, p. 514.

[3] Le parole dell’atto notarile di Luzio Calderini sono state pubblicate nel 1951 da Denis Mahon (Egregius in Urbe pictor: Caravaggio revised, p. 226).

[4] “Concedono detti Padri […] la suddetta Cappella con facoltà et autorità che sua Sig.ria Ill.ma possa à suo libero arbitrio et beneplacito, et quando à Lei piacera fabricarla, alzarla, […] la in dietro et ornarla in modo et forma che à lei accomoderà et sarà di soddisfatione tanto in vita et mentre egli viverà, come dopo la sua morte, et quando sua Sig.ria Rev.ma ordinerà et non altrimente” (anche questa parte dell’accordo tra Cerasi e gli agostiniani è riportata in D. Mahon, Egregius in Urbe pictor, p. 226, nota 33).

[5] C. Viggiani, La cappella Cerasi, p. 512.

[6] La notizia della morte di Tiberio Cerasi è contenuta nell’avviso del 5 maggio 1601 (“Di roma li 5 di Maggio 1601. Mecordi notte Mons.r Cerasio, Tesauriero Generale di S. ta Chiesa passò all’altra vita, et datoli sepultura nella sua bellissima Capella, che faceva fare nella Madonna della Consolatione, per mano del famosissimo pittore Michel Angelo da Carravaggio; primo che morisse, intendesi habbia giunto un codicillo al suo testamento, fatto un pezzo fa, lasciando Herede delle sue facultà li Padri della Mad.na della Consolatione, con obbligo che debbino far finite la sudetta Capella” (testo contenuto in D. Mahon, Egregius urbe pictor, p. 227, nota 41).

[7] C. Viggiani, La cappella Cerasi, p. 514.

[8] Ivi, p. 515.

 

 

Bibliografia

AA.VV., Caravaggio, Carracci, Maderno. La cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma, Milano, Silvana, 2001.

Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma, Andrea Fei, 1642.

Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma, per il success. al Mascardi, 1672.

AA.VV., The Drawings of Annibale Carracci, Washington, National Gallery of Art, 1999.

Daniele Benati, Eugenio Riccomini (a cura di), Annibale Carracci, Milano, Electa, 2006.

Maurizio Calvesi, Caravaggio, “Art Dossier”, Firenze, Giunti, 1986.

Denis Mahon, Egregius in Urbe pictor: Caravaggio revised, in “The Burlington Magazine”, vol. 93, no. 580, Londra, Burlington Magazine Publications, pp. 222-235.

Orietta Rossi Pinelli (a cura di), La storia delle storie dell’arte, Torino, Einaudi, 2014.

Claudia Viggiani, La cappella Cerasi, in Maria Richiello, Ilaria Miarelli Mariani (a cura di), Santa Maria del Popolo. Storia e restauri, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009, pp. 511-531.

Rudolf Wittkower, Arte e Architettura in Italia. 1600 – 1750, Torino, Einaudi, 2018.

Roberto Zapperi, Per la datazione degli affreschi della Galleria Farnese, in “Melanges de l’ecole francaise de Rome”, 93 – 2, Roma, Ecole Francaise de Rome, 1981, pp. 821 – 822.

 

Sitografia

http://www.smariadelpopolo.com/it/

https://www.treccani.it/enciclopedia/tiberio-cerasi_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-merisi_%28Dizionario-Biografico%29/

https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-battista-ricci_(Dizionario-Biografico)/

https://www.treccani.it/enciclopedia/innocenzo-tacconi_(Dizionario-Biografico)


LA CHIESA DI SANTA MARIA DI BETLEM

A cura di Alice Oggiano

 

 

Nel cuore del centro storico della città di Sassari, nei pressi dell’antica porta di Utzeri, sorse, nei primi decenni del XII secolo, la più antica chiesa della provincia: Santa Maria di Betlem. La Chiesa venne rifondata nel corso del secolo successivo per impulso dei frati francescani, i quali giunsero in città nel periodo della dominazione genovese, cui venne donato congiuntamente il monastero di Santa Maria di Campulongu.

 

La basilica fu fatta ricostruire secondo i dettami romanici d’estrazione lombarda: la pianta a croce greca presentava una capriata lignea lungo la navata unica, mentre all’incrocio con il transetto vi era una copertura a volte.

Nella seconda metà del XV secolo la chiesa fu sottoposta a ingenti interventi, dovuti principalmente al giuspatronato acquisito da alcune nobili famiglie ed alla conseguente costruzione di alcune sontuose cappelle in stile gotico-aragonese.

I lavori di ristrutturazione inclusero anche la realizzazione ex novo di un’enorme volta nell’area presbiterale.

Un’ulteriore fase costruttiva venne poi avviata nel 1823 dal devoto frate e architetto Antonio Cano, già precedentemente incaricato come sovraintendente al restauro dell’annesso edificio conventuale francescano.

Cano optò per la demolizione del transetto in modo tale da poter ingrandire lo spazio presbiteriale, per vedervi realizzato il suo progetto, che prevedeva l’innalzamento di una cupola ellittica neoclassica. Egli introdusse inoltre un nuovo linguaggio, decisamente più aggiornato secondo i gusti dell’epoca, introducendo stilemi propri del tardo barocco e, per conferire alla struttura sfarzo e luminosità, introdusse decorazioni a motivi arabeschi e floreali.

Alcuni decenni dopo l’intervento del Cano, tuttavia, l’antico campanile gotico crollò, rendendo imperativo un restauro. Nel corso del XIX secolo si aprì dunque nella basilica un nuovo cantiere, volto non solo alla restituzione del campanile – stavolta realizzato a canna cilindrica e non ottagonale come quello precedente - ma guidato altresì dalla volontà di rendere l’aspetto della chiesa ancora più magnificente. I frati francescani decisero, in questa occasione, di affidare i lavori all’architetto Antonio Cherosu.

 

Attualmente, la facciata originaria a capanna realizzata in arenaria è tripartita, presentando un maestoso portale architravato, un rosone tardogotico ed infine un oculo del XVIII secolo. Elementi gotici, nervature, rientranze e motivi floreali rendono la visione ancora più suggestiva.

 

All’interno di Santa Maria, è custodito un simulacro, risalente alla metà del XV secolo e realizzato in legno policromo, noto come Madonna della Rosa, dal nome dell’omonima cappella edificata durante l’ampliamento in stile gotico catalano. La Madonna, connotata da una posa dall’estrema naturalezza, siede assisa sul trono, mentre sorregge amorevolmente sul ginocchio sinistro il piccolo Gesù benedicente. Maria reca nella mano destra una rosa, prefigurazione della passione di Cristo. Entrambi i santi, ornati da sontuose vesti e tiare, volgono il loro sguardo in lontananza, verso il mondo ultraterreno.

La basilica fu considerata – e lo è tutt’ora -  un importante punto di riferimento per la comunità dei fedeli sassaresi, alla pari del Duomo.  Una prima motivazione è ravvisabile nel culto del martire Francesco Zirano, vissuto nel XVI secolo: d’umili origini ed orfano di padre dalla più tenera età, fin da piccolo fu devoto ai santi della sua città natale e della vicina Porto Torres, allora importante snodo marittimo-commerciale e di pellegrinaggio presso il quale egli stesso abitudinariamente si recava. In onore della sua beatificazione, avvenuta nel 2014, venne eretta una statua all’esterno della chiesa, attualmente custodita nel convento.

 

La basilica è però cara ai sassaresi soprattutto perché ricopre il ruolo di sede della festa annuale in onore dell’Assunzione della Vergine, costituendo la tappa finale della lunghissima processione, che si tiene ogni anno nella sera del 14 Agosto, dei sette gremi cittadini dei Candelieri. Al suo interno, infatti, sono custoditi i ceri lignei votivi. La Faradda di li candareri (“la discesa dei candelieri”), riconosciuta nel 2013 patrimonio immateriale dell’Unesco, trova la sua ragion d’essere in un importante avvenimento storico, il flagello della peste che colpì la popolazione nel 1652. I fedeli sassaresi in quell’occasione decisero di pronunciare un voto alla Madonna Assunta, pregandola di intercedere presso la comunità per liberarla dalla terribile piaga. Ogni anno, proprio per sciogliere tale voto, i gremi cittadini sfilano per le storiche strade della città, con il cuore infiammato da una spasmodica fede ed il calore di una folla proveniente da ogni parte del mondo. Durante il resto dell’anno, Santa Maria è la sede delle sette corporazioni dei mestieri.

 

Oggi la chiesa di Santa Maria domina incontrastata l’omonima piazza, mentre dialoga con la storica fontana cinquecentesca scolpita in pietra granitica del Brigliadore.

 

 

 

 

Bibliografia

Francesco Floris, La grande Enciclopedia della Sardegna, Cagliari, Della Torre, 2002.

 

 

Sitografia

https://www.icandelierisassari.it/

http://turismosassari.it/it/

http://www.ofssardegna.it/

https://www.lanuovasardegna.it/

https://www.sardegnaturismo.it/

https://mapio.net

Fig. 2. Credits: By Gianni Careddu - Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22260269.

LA CHIESA DEL SANTISSIMO CROCIFISSO A SALERNO

A cura di Rossella Di Lascio

 

 

La chiesa del Santissimo Crocifisso di Salerno è ubicata all’inizio di Via Mercanti, tra la fine del moderno corso cittadino e l’inizio del centro storico.

Non si hanno notizie certe della chiesa fino a circa il XIII secolo, tuttavia, secondo la tradizione, sarebbe stata fondata in epoca longobarda da un nipote dell’Imperatore Costantino. La sua denominazione originaria era chiesa di Santa Maria della Pietà Portanova”, in quanto annessa al monastero femminile “delle Clarisse di Santa Maria de Pietate” e per la sua vicinanza all’originaria porta della città, chiamata, appunto, Portanova. Successivamente associata al monastero di San Benedetto, fu ridedicata al SS. Crocifisso nel 1879, quando ospitò per un periodo un crocifisso ligneo del XIII sec. legato alla leggenda del mago e alchimista salernitano Pietro Barliario, oggi custodito nel Museo Diocesano cittadino.

 

La leggenda del crocifisso miracoloso

Secondo la leggenda, Pietro Barliario sin dalla gioventù nutrì una grande passione per le arti magiche e la medicina. Grazie a un patto con il diavolo divenne un potente stregone, capace di compiere opere straordinarie, come la costruzione, in una sola notte di tempesta e con l’aiuto dei demoni, dell’acquedotto medioevale della città, tuttora esistente. Un giorno i suoi due amati nipoti, Fortunato e Secondino, rimasti soli nel suo laboratorio, mentre giocavano rimasero uccisi da sostanze velenose o per lo spavento legato alle immagini o alle formule di un libro di magia. Barliario, sopraffatto dal rimorso e dalla disperazione, chiese perdono al crocifisso presente sull’altare della chiesa di San Benedetto, il quale, dopo tre giorni e tre notti di preghiera, chinò miracolosamente il capo in segno di perdono verso il mago. Da questo episodio, che attirò in città tantissimi pellegrini e curiosi, nacque la cosiddetta Fiera del Crocifisso”, che ancora oggi si svolge durante i quattro venerdì di Quaresima.

Il crocifisso, nonostante sia stato visibilmente danneggiato da un incendio nell’Ottocento, presenta ancora un viso fortemente espressivo e severo e due grandi occhi, profondi e penetranti, che sembrano fissare lo spettatore.

 

 

Gli spazi esterni della chiesa

 

La chiesa si affaccia su una piazzetta ricavata dalla demolizione di caseggiati fatiscenti alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, periodo a cui risale anche la facciata in stile barocco, poi rifatta dopo la terribile alluvione del 1956. Oggi è presente una semplice e moderna facciata, con tetto a spiovente, scandita ritmicamente in alto da sette monofore e da un oculo centrale, e con tre portali d’ingresso che corrispondono alla suddivisione interna in tre navate. Sulla destra svetta il campanile quadrangolare percorso verticalmente da strette finestre e alleggerito in alto da dieci monofore in corrispondenza della cella campanaria. All’esterno, la parete lungo via Mercanti mostra ancora alcune tracce dell’edificio originario, quali un portale in pietra, che costituiva un antico accesso laterale alla chiesa, e una bifora in stucco, oggi entrambi murati. La bifora è divisa in due scomparti da un architrave: la parte superiore risente di una chiara influenza arabeggiante, sia per la forma ogivale che per il motivo decorativo finemente traforato, caratterizzato da un’alternanza di croci e stelle a otto punte. Nell’ordine inferiore, invece, la bifora è divisa in due da una colonnina centrale, mentre altre due colonnine laterali sorreggono l’ogiva, delimitata da una fascia su cui sono parzialmente visibili sette scudi, stemmi di famiglie nobiliari. Attualmente si distingue solo l’insegna a sinistra, a bande orizzontali bianche e rosse, appartenente alla famiglia Carafa.

 

Gli spazi interni della chiesa

La chiesa presenta internamente una pianta basilicale, con tre navate e tre absidi semicircolari. Le navate sono divise da due file di arcate a tutto sesto sorrette da sei colonne e capitelli di spoglio, provenienti da edifici di epoca romana, come la prima colonna a sinistra che presenta una decorazione in rilievo a spirale. La navata centrale, più alta, è illuminata da monofore e coperta da capriate lignee, mentre quelle laterali sono coperte da volte a crociera.

 

 

L’abside centrale è decorata con un mosaico moderno risalente al 1961, opera di maestranze ravennati, che riproduce l’affresco originario della Crocifissione situato nella cripta.

Nell’abside destra, al di sotto dell’altare, sono presenti affreschi tardomanieristi del XVI-XVII secolo, raffiguranti i Santi martiri Paolina Vergine, Clemente e Cassiano che recano con sé la palma, simbolo di martirio, e che circondano la teca che custodisce le loro reliquie.

 

La cripta

Dalla navata destra, tramite una piccola scala, si accede alla cripta, riferibile a una chiesa anteriore all’anno Mille e su cui sono state innalzate le fondamenta dell’attuale. Scoperta solo in epoca recente, negli anni ’50 del ‘900, ha una planimetria, anche se di dimensione ridotte, che ricalca quella della chiesa superiore, con tre navate separate da due archi con volte a crociera sorretti da pilastri che inglobano colonne romane di spoglio, chiuse da absidi semicircolari.

Nell’abside centrale è collocato un altare in travertino che riproduce quello originale ma giunto a noi frammentario.

 

Gli affreschi

Sulla parete occidentale, di fronte all’abside centrale, si staglia il grande affresco raffigurante la Crocifissione, databile tra il XIII e XIV secolo, che costituisce un interessante esempio Cristo Patiens, contrariamente al Cristo Triumphans del Barliario. In epoca romanica si afferma l’uso delle tavole dipinte aventi per soggetto principale il tema della Crocifissione, con la figura centrale di Cristo nell’atto del supremo sacrificio, alle cui estremità, orizzontali o verticali, sono raffigurati alcuni personaggi, come la madre Maria e l’apostolo ed evangelista Giovanni, o storie della vita di Gesù. Una prima tipologia di croce dipinta che si afferma è quella del Christus triumphans, secondo l’iconografia bizantina giunta in Occidente attraverso gli avori carolingi. Cristo è rappresentato trionfante, vincitore sulla morte, con il corpo eretto, privo dei segni della passione, e con gli occhi aperti, una figura solenne e maestosa che ne evidenzia la natura divina. Tra la fine del XII secolo e gli inizi successivo, si afferma, invece, la tipologia del Christus patiens. L’affresco della cripta è delimitato in alto da una grande cornice dipinta, in basso da un panneggio stilizzato a grosse fasce oblique. Il fulcro della composizione è costituita dall’immagine centrale di Cristo che divide simmetricamente la scena in due parti. Egli è rappresentato con la testa reclinata, gli occhi chiusi, il corpo abbandonato nella sofferenza e nella morte, una figura profondamente umanizzata e più vicina alla sensibilità e al coinvolgimento emotivo dei fedeli e che meglio permette di comprendere il Suo amore e il Suo sacrificio estremo per l’umanità. Sulla sinistra è presente il gruppo delle pie donne, dai volti addolorati, che sorreggono la Vergine accasciata e con le braccia protese verso il Figlio, mentre sulla destra, l’immagine deteriorata di S. Giovanni è affiancata da due figure maschili, probabilmente Giovanni d’Arimatea e Nicodemo, secondo i Vangeli. È presente un tentativo di resa prospettica della composizione attraverso le dimensioni minori di alcuni personaggi dipinti, a voler indicare la sovrapposizione di piani diversi su cui si articola la scena. Ai lati della croce sono ritratti i soldati, come Longino che trafigge il costato di Cristo, mentre nella parte superiore sono presenti quattro angeli, due in adorazione e due che raccolgono nelle coppe il sangue di Cristo che fuoriesce dalle mani e dal costato.

 

Nell’abside di destra un altro affresco raffigura un trittico di Santi inquadrati in archi a tutto sesto e separati da eleganti colonnine tortili: San Sisto Papa al centro, riconoscibile per l’abito e i paramenti liturgici, San Lorenzo a sinistra e un altro Santo pellegrino a destra. In entrambi gli affreschi sono purtroppo eventi le tracce di umidità e dominano le tonalità dei colori rossi, bianchi, gialli, bruni, che risaltano sui fondali scuri.

 

 

Bibliografia

Adorno P. e Mastrangelo A., Arte correnti e artisti, Casa editrice G. D’Anna 1998

 

Sitografia

La leggenda di Pietro Barlario, mago salernitano in www.irno24.it

www.lifeinsalerno.com

www.livesalerno.com

Mago Barliario a Salerno e la sua incredibile storia in www.salernodavedere.it


LA CHIESA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA A RAVENNA

A cura di Francesca Strada

 

 

Uscendo dalla stazione di Ravenna e proseguendo per Viale Farini vi capiterà di vedere una chiesa che sembra trovare una dimensione tutta sua, fuori dal tempo, tra le case e i negozi moderni di una delle strade più trafficate della città. È un luogo la cui vista trasmette immediatamente un senso di pace ed equilibrio, ricordando quasi un locus ameno. Si tratta della chiesa di San Giovanni Evangelista, o dei santi Nicandro e Marciano; l’anno della sua costruzione, risalente al 425 d.C., rende l’edificio il luogo di culto cristiano più antico di Ravenna. Nonostante i secoli, le intemperie e la guerra, la chiesa è ancora lì per sorprenderci con il suo fascino e per narrare un passato ormai lontano, che non smette mai di incuriosirci e stupirci.

 

La chiesa venne costruita per volere dell’imperatrice Galla Placidia, in seguito a un voto fatto all’Evangelista, in cambio della sopravvivenza al viaggio da Costantinopoli a Ravenna; il santo, infatti, veniva venerato come protettore dei navigatori. Giunta a Ravenna, Galla Placidia mantenne fede al suo voto e fece erigere lo splendido monumento. L’attuale aspetto dell’edificio è frutto di un attento restauro in seguito ai bombardamenti alleati nel 1944, che danneggiarono gravemente la struttura e l’abside, lasciando però in piedi il campanile, la cui vetta raggiunge i 42 metri.

 

 

A seguito di questo evento andarono perse le decorazioni a mosaico presenti nell’abside; tuttavia, possiamo oggi ammirare sulle pareti laterali i resti di una pavimentazione a mosaico del XIII secolo, voluta dall’abate Guglielmo, raffigurante la storia d’amore tra una giovane e un crociato, accompagnata da piante e animali.  Tra essi spiccano il lupo e il cervo, che rappresentano rispettivamente il demonio e l’anima purgante; la sirena tentatrice, come monito a non seguire le tentazioni, che portano l’uomo alla rovina; il grifone, che nel suo essere tanto terrestre quanto celeste raffigura Cristo stesso; i pesci, chiaro riferimento all’acrostico “Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr” = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Inoltre, la IV crociata, bandita da papa Innocenzo III per contrapporsi alla politica espansionistica del sultano egiziano, è un tema ricorrente nelle opere dell’epoca.

 

 

La decorazione esterna

Un contributo per la decorazione esterna della chiesa deriva dalla nobiltà cittadina. Infatti, a Lamberto da Polenta, signore di Ravenna, sopraggiunse la morte nel 1316 e grazie al suo lascito testamentario ai benedettini di san Giovanni Evangelista, il cui convento era adiacente alla chiesa, venne costruito un quadriportico di cui oggi rimane solo il magnifico portale gotico. Il portale, costituito da un arco a sesto acuto, è decorato con pregevoli bassorilievi raffiguranti l’Apparizione di San Giovanni a Galla Placidia, accompagnati da gruppi di angeli. La decorazione del timpano, invece, rappresenta San Giovanni e l’imperatore Valentiniano III, facilmente individuabili dall’aureola e dalla corona; sui lati troviamo da una parte Galla Placidia, accompagnata dai soldati, e dall’altra San Barbaziano, mentre il Cristo redentore sovrasta tutte le figure.

 

La decorazione interna

Attraversato il portale si accede all’ingresso della chiesa, il cui interno è costituito da tre navate; quella centrale conduce all’abside, quella di sinistra termine con il diaconicon e quella di destra con la prothesis, che presenta al suo interno un altare del V-VI secolo e un affresco del XV secolo.

 

Le navate sono scandite da due filari di colonne con capitello corinzio di chiara origine romana, sui pulvini vediamo la croce rappresentata come albero della vita. La fisicità che caratterizza il culto cristiano nelle sue prime fasi porta i credenti a pensare, che l’albero della vita non sia una metafora, bensì un albero fisicamente presente nell’Eden, dal quale fu strappato un ramo da un angelo e poi deposto nella bocca di Adamo durante la sepoltura. Secondo la leggenda, l’albero crebbe e venne trovato da Salomone, che ne ordinò l’impiego durante la costruzione del tempio di Gerusalemme, ignaro della vera natura di quel legno. Fu la regina di Saba ad accorgersi del valore inestimabile dell’albero e così Salomone lo fece seppellire, ma prima della crocifissione di Cristo venne ritrovato e impiegato per la costruzione della Croce.

Sul lato sinistro della chiesa troviamo una cappella gotica del XIV secolo della scuola giottesca di Pietro da Rimini; sulla volta sono rappresentati gli evangelisti e i dottori della chiesa, mentre sulla parete frontale è presente un affresco alquanto deteriorato con Maria Maddalena che tende il braccio alla croce.

 

Un’opera di straordinario valore, conservata nella chiesa, è Il convito di Assuero di Carlo Bononi, un olio su tela del 1620 dalla lunghezza di 7 metri. il tema religioso si contrappone alla laicità del dipinto, caratterizzato da un forte dinamismo e dal lusso sfrenato dei banchetti dell’epoca. Bononi mostre le conoscenze apprese dalla scuola carraccesca tramite il concreto realismo delle figure; le pose assunte dai personaggi sono tutt’altro che innaturali.

Fig. 13 - Convito di Assuero di Carlo Bononi. Fonte: https://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/?cn-reloaded=1.

 

La chiesa oggi

La chiesa è visitabile sette giorni su sette dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18; la sua vicinanza alla stazione la rende estremamente facile da individuare e da visitare. Nonostante le innumerevoli bellezze della città, molto più note, questo gioiello non va dimenticato, perché ha ancora una storia molto lunga da raccontarci.

 

 

Sitografia

http://www.guide-ravenna.it/2018/04/19/il-convito-di-assuero-di-carlo-bononi/

http://www.edificistoriciravenna.it/san-giovanni-evangelista/

http://www.livingromagna.com/service/la-basilica-di-san-giovanni-evangelista-a-ravenna/