SILVESTRO LEGA IN ROMAGNA

A cura di Francesca Strada

Introduzione: Silvestro Lega                                                              

"Chi è quest'oscuro?” Domanderanno. “Egli è di quelli che vissero di pensiero, che al pensiero accoppiarono l'azione ed a questa congiunsero la coscienza intemerata e l'affetto costante; che vissero poveri e che morirono all'ospedale".

(Martelli, Corriere italiano, necrologio)

Fig. 1 - Autoritratto. Credits: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Silvestro_Lega_-_autoritratto_-_1861.jpg.

La vita

Silvestro Lega nasce il giorno dell’Annunciazione dell’anno 1826 a Modigliana, un piccolo borgo sull’appennino tosco-romagnolo nella provincia di Forlì-Cesena. La madre, di bassa estrazione sociale ma con una forte inclinazione culturale, lo iscrive al collegio degli Scolopi, dove la vena artistica di Lega emergerà con forza attraverso i suoi scarabocchi, i quali verranno notati dai docenti che lo indirizzeranno allo studio della storia dell’arte. Nel 1845 è registrata la sua iscrizione all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, città in cui conoscerà Telemaco Signorini e Giovanni Fattori; i tre pittori sono oggi riconosciuti come i maggiori esponenti del gruppo dei Macchiaioli. Dopo essere stato volontario nella guerra d’Indipendenza del 1848 e aver fatto ritorno a Firenze, Lega decide di ritirarsi per due anni a Modigliana, dove riceverà svariati incarichi per il Duomo. Al suo ritorno a Firenze, verrà ospitato da Spirito Batelli, facendo la conoscenza di sua figlia Virginia Batelli, della quale si innamorerà. Virginia e le sue sorelle saranno spesso modelle del pittore, ne è un esempio la celeberrima opera Il canto dello stornello. Con la morte dell’amata nel 1870 l’artista, già noto come un uomo dal carattere difficile, si incupirà ulteriormente e tornerà a Modigliana per ritirarsi; nonostante i costanti successi ottenuti in questo periodo, Lega non si riprenderà mai dal lutto e non intreccerà più relazioni con altre donne. Morirà in un ospedale di Firenze il 21 settembre del 1895.

 

Le opere conservate nella pinacoteca di Modigliana

Le opere di Silvestro Lega si possono trovare nei maggiori centri artistici della Penisola, come Firenze, Milano e Genova; tuttavia, una cospicua percentuale di quadri si trova nel suo paese natale ed è conservata nella Pinacoteca Comunale Silvestro Lega. Quivi possiamo trovare L’incredulità di San Tommaso, che fa parte del periodo giovanile a e rappresenta il Santo nell’atto di toccare il Salvatore, avvolto solo da un manto. È un’opera cardine per comprendere l’arte di Silvestro Lega, caratterizzata da una certa solidità formale.

Fig. 4 - L'incredulità di San Tommaso. Credits: www.deartibus.it.

Alla Pinacoteca appartiene anche Ritratto di Bartolomeo Campi, datata 1853: è un olio su tela del periodo giovanile e vede come soggetto il sacerdote modiglianese, seduto e a braccia conserte. Si nota una forte attenzione alla luce e alla resa dei dettagli, specialmente nella piuma d’oca alle spalle del curato.

Fig. 5 - Ritratto di Bartolomeo Campi. Credits: www.deartibus.it.

Ritratto di Giuseppe Garibaldi è forse il ritratto più celebre del generale e risale al 1861; l’eroe dei due mondi viene rappresentato con la camicia rossa e sullo sfondo si stagliano le colline dell’appennino toscano. L’opera è frutto del periodo a casa Batelli ed è di tre anni successiva all’incontro con Garibaldi a Modigliana.

Fig. 6 - Ritratto di Giuseppe Garibaldi. Credits: www.deartibus.it.

Paesaggio è un olio su tavola di piccole dimensioni, probabilmente un regalo per l’amico Don Giovanni Verità, sacerdote garibaldino che aiuterà Garibaldi nella sua fuga, probabilmente anche l’artefice del pensiero anticlericale di Silvestro Lega. Nel quadro si nota l’influsso della “macchia”, e secondo una tradizione orale il luogo dipinto esisterebbe realmente, collocato sulla strada che da Modigliana porta a Tredozio.

Fig. 7 - Paesaggio. Credits: www.deartibus.it.

Nella Pinacoteca è conservato lo Studio di testa per ’Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini” che servirà per la celebre opera Gli ultimi momenti di Giuseppe Mazzini o Mazzini morente conservata al Museum of Art, Rhode Island School of Design negli Stati Uniti d’America. La bozza ritrae il repubblicano con una folta capigliatura e una posa austera, elementi che scompariranno nel quadro ultimato.

 

Un’altra opera conservata nella Pinacoteca di Modigliana è Ritratto di Don Giovanni Verità, un olio su tavola il cui soggetto, il sacerdote già precedentemente citato, figura di profilo. Egli fu il cappellano di Garibaldi e dell’esercito regio nel 1866; date le sue idee rivoluzionarie e anticlericali il Papa non gli concesse la sepoltura con rito religioso. Fu amico e ispiratore di Lega, che lo ritrae nel 1885, come ci dice la data che il quadro reca a destra.

Fig. 10 - Don Giovanni Verità. Credits: www.deartibus.it.

L’ultima opera conservata nella Pinacoteca è un acquerello ritraente il volto della contessina Elisabetta Savelli.

Fig. 11 - Elisabetta Savelli. Credits: www.deartibus.it.

Le lunette per il Duomo di Modigliana

Nel 1857 Silvestro Lega venne incaricato di riprodurre quattro lunette per il Santuario della Madonna del Cantone, e che oggi si trovano nella Cattedrale di Santo Stefano a Modigliana; esse rappresentano i quattro flagelli da cui la cittadina, secondo la credenza, venne risparmiata per volere della Madonna, ossia il Terremoto, la Carestia, la Guerra e la Peste. Le opere vennero terminate nel 1863.

La lunetta del terremoto rappresenta una famiglia che fugge dalle case pericolanti, rifugiandosi dietro a una roccia con i pochi averi superstiti.

Fig. 12 - Lunetta del Terremoto (dettaglio). Credits: www.deartibus.it.

Nella lunetta della carestia un uomo porge un tozzo di pane alla moglie, le cui occhiaie pronunciate e il pallore ne presagiscono la morte, incarnata nel bambino dormiente, che presto o tardi perirà per la fame. Accanto a loro una donna solleva le braccia al cielo invocando l’aiuto divino, mentre sullo sfondo si nota il corpo di un uomo prossimo alla morte.

Nella lunetta della guerra un giovane soldato giace morto sul selciato, mentre appoggiati a un edificio si trovano i corpi di altri caduti. La drammaticità della scena è resa dalla scelta di mostrare il giovane nitidamente, mentre gli altri personaggi non hanno un volto. L’occhio dello spettatore sembra attirato dal candore degli edifici su cui nota i corpi esanimi, per poi far confluire la vista sulla figura centrale e infine sul corpo del soldato.

Fig. 15 - Guerra. Credits: www.deartibus.it.

La lunetta della peste rappresenta la benedizione al corpo di una defunta prima della sepoltura. In un paesaggio così oscuro, probabilmente al crepuscolo, il candore dell’abito della defunta attira l’occhio dello spettatore. Ella pare quasi una Madonna scomposta; il ciondolo a crocifisso le ricade sul seno, mentre i due uomini di chiesa la benedicono. Non c’è speranza nei loro occhi, come non ce n’è in nessuno dei personaggi delle lunette, che affranti paiono accettare l’amaro destino.

Modigliana per Silvestro Lega

Nel mese di settembre, per celebrare il noto artista, Modigliana organizza la Festa dell’800 con i quadri viventi di Silvestro Lega, un’occasione che ogni anno porta centinaia di turisti nel piccolo paesino del forlivese.

 

Sitografia:

https://www.treccani.it/enciclopedia/silvestro-lega_%28Dizionario-Biografico%29/

https://bbcc.ibc.regione.emilia-romagna.it/pater/loadcard.do?id_card=7630

https://www.deartibus.it/drupal/content/il-terremoto


ADRANÒN, IL SUO DIO E LA CITTA’ ANONIMA DEL MENDOLITO

 A cura di Mery Scalisi

La nascita di Adranòn

Adranòn, definita dallo stesso Plutarco Città Sacra e Città Fortezza, sulle pendici occidentali dell’Etna (Catania), fu fondata da Dionigi I il Vecchio nel 400 a.C.

Essa si presenta cinta da poderose mura ciclopiche (fig.1), realizzate con conci di pietra squadrate e messe in opera con tecnica poligonale, presso il luogo di culto del dio Adranòs, in cui sorgeva un tempio-santuario indigeno.

Fig. 1 - Antica veduta del tratto della cinta muraria di contrada Difesa (J. Houel, fine XVIII secolo). Credits: http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/museoadrano/ita/pagina.aspx?i=64.

Nell’area interna della città dionigiana di Adranòn, alcuni scavi archeologici iniziati nel 1959 restituirono fondazioni di case che dimostrano un assetto urbanistico decisamente avanzato, risalente al periodo dionigiano, in cui le cui abitazioni appaiono dotate di condotte idriche, di sistema di canalizzazione delle acque, vasche da bagno, pavimenti musivi, realizzati in cocciopesto o con tessere policrome, testimoniando, dunque, una civiltà inserita in quella che era la cultura media del periodo (fig.2).

Fig. 2 - Abitato di Adranòn - particolare del sistema di canalette di scarico. Credits: http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/museoadrano/ita/pagina.aspx?i=64.

Dagli studi effettuati dallo stesso archeologo siracusano e sovraintendente nei territori della Calabria e della Sicilia, Paolo Orsi, emerge che con molta probabilità, Adrano, sotto il nome di Adranòn, fu fondata da Dionisio I, detto anche il Vecchio, tra il 404-400 a.C.; qui fece trasferire gli abitanti di Piakos, cittadina indigena, anche se verosimilmente qualche altra popolazione risiedeva da tempo attorno al tempio del dio Adranòs; secondo le intenzioni di Dionisio il centro avrebbe dovuto svolgere funzione prettamente politica, al fine di favorire gli interessi militari ed economici dell’alleata Siracusa.

Il culto del dio Adranòs

Il dio Adranòs (a lungo ritenuto di provenienza orientale) era un’antica divinità sicula vulcanica, che venne associato dagli greci oltre che alla guerra al fuoco, identificandolo con Efesto (nella mitologia greca esso rappresenta il dio del fuoco, della tecnologia, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia), divinità a cui si presume si rivolgessero i siculi che abitavano la città. Sembra, infatti, che Dionisio, fondando la città volle darle il nome di Adranòn, proprio in riferimento alla divinità autoctona Adranòs.

Secondo lo storico tedesco Adolf Holm furono attribuite ad una sola divinità le funzioni simboliche di tutti questi dei; per questo motivo, Adranòs riunì in sé sia il carattere del dio guerra, indicato dalla lancia, che quello del dio del fuoco, tipico di Efesto, divenuto per la popolazione quasi personificazione dello stesso monte Etna dove si trovava il tempio.

All’interno del luogo sacro situato nei pressi del laghetto di Naftia, lago in territorio del comune di Mineo, in contrada Rocca, vi era una statua che raffigurava il dio armato con una lancia. Presso questo tempio accorreva una gran folla di fedeli, provenienti da ogni parte dell’isola; inoltre, l’edificio veniva custodito da una schiera di cani cirnechi, cani da caccia tipici dell’Etna e forse di origine egizia (in associazione alla divinità Anubi (fig.3). Si suppone che tali cani fossero così intelligenti da mostrarsi accoglienti nei confronti di coloro i quali accorrevano al tempio con molti doni e aggressivi e spietati, avventandosi contro quanti si avvicinavano al luogo di culto con cattive intenzioni, fino a sbranarli senza pietà. Risalirebbe a questo aneddoto la nascita dell’espressione siciliana di imprecazione, contro chiunque abbia intenzioni malvagie, ‘’chi ti pozzanu manciari li cani’’ (che ti possano mangiare i cani) (fig.4).

Con l’avvento del Cristianesimo, il culto del dio Adranòs è stato sostituito dagli etnei e dai siciliani con il culto di San Vito, festeggiato il 15 giugno.

Il centro abitato, dopo essere stato chiamato Adranòn, prese il nome di Hadrànumo Adrànum in età romana-latina; in età saracena la sua denominazione passò ad Adarnu o Adarna; nel periodo normanno Adernio e infine in età angioina Adernò.

Fu solo nel 1929, con Regio Decreto del 27 giugno 1929 n.1355, che il centro prese definitivamente il nome attuale, Adrano.

Negli anni, il nucleo urbano si è articolato in una disordinata cinta di isolati che si è allargata a macchia d’olio senza rispettare il piano regolatore disegnato da Roberto Calandra nel 1962.

Nell’attuale centro storico insistono le architetture storiche artistiche ben visibili nel loro insieme dal cosiddetto Torrione normanno, luogo più alto e belvedere della cittadina etnea (fig.5,6,7).

La città di Adrano, con molta probabilità, fu abitata fin dalla preistoria e le sue origini rientrano nel quadro della preistoria etnea, anche se non è da escludere una fase più antica coincidente con la preistoria siciliana

Il Mendolito: l’anonima area archeologica.

A 8 km dal centro di Adrano, venne individuata dall’adranita Salvatore Petronio Russo[1] una città siculo-greca, ubicata nelle contrade del Mendolito, Mendolitello e Sciare Manganelli, unanimemente ritenuta la più importante città sicula della Sicilia.

La sua fondazione risalirebbe con molta probabilità al XI-IX secolo a.C., anche se si suppone sia stata abbandonata in coincidenza con la fondazione di Adrano. La sua nascita si fa corrispondere con la formazione dello stile dell’arte greca che prende il nome di arcaismo e di arcaismo maturo (VII-V a.C.). Il suo abbandono invece si suppone fu dovuto all’arrivo di ulteriore popolazione, che non consentiva la difesa della città; a eventi naturali legati all’Etna, o addirittura alla necessità di dar vita ad un nuovo centro abitato che rispettasse l’organizzazione a scacchiera importata dai coloni greci, ideata da Ippodamo da Mileto, architetto e urbanista della Grecia antica, primo architetto di cui ci sia giunto nome ad utilizzare e teorizzare schemi planimetrici regolari nella pianificazione delle città nel V secolo a.C..

Il sito venne alla luce grazie al già citato Poalo Orsi, che dal 1898 al 1910 lo visitò a più riprese, esplorandolo e indagando sul luogo, arrivando a definirlo nei suoi taccuini da viaggio uno dei massimi centri dell’archeologia indigena della Sicilia.

Del centro abitato sono ancora visibili alcuni tratti della cinta muraria, il più importante dei quali è quello meridionale, realizzato con una doppia schiera di conci in pietra lavica riempiti a secco, nel quale è ricavata una delle porte di accesso alla città, definita Porta Urbica (fig.7). Questa costituisce l’ingresso sud, fiancheggiato da due torri alte 5 metri a forma di ferro di cavallo e rivolte verso il territorio di Centuripe. Dallo stipite orientale di questa porta è possibile individuare un blocco di pietra arenaria, in cui è contenuta un’iscrizione che costituisce il più lungo e importante testo in lingua sicula: un’epigrafe formata da 48 lettere in dialetto siculo-greco, oggi conservata presso il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi di Siracusa. Si tratta di una scriptio continua graffita, da destra a sinistra, sulla faccia esterna del blocco (fig.8).

Le teorie riguardo la nascita del sito nel corso dei secoli sono state differenti. C’è, infatti, chi come Jenkins, accademico e saggista statunitense, presume che tale anonima città sia l’antica e già citata Piakos; chi, come Bernabò, uno tra i maggiori archeologi del XX secolo, ritiene si possa trattare dell’antica Paline, sede dell’antico culto del dio. Quest’ultima osservazione è stata forse quella più seguita, in quanto il sito del tempio, supposto in diversi luoghi, non è mai stato realmente ritrovato, forse perché inghiottito da qualche colata lavica. Dunque non è da escludere che tale zona sia stata adibita come un tempio a temonos (recinto sacro), costituito da un’area impetrale contenente solamente altari per il rito al dio e priva di un reale apparato architettonico.

 

Note

[1] Salvatore Petronio Russo fu personaggio di spicco nella seconda metà dell’Ottocento, storico, archeologo, poeta e socio di varie Accademia italiane ed estere.

 

Bibliografia

Antonino Bua, Adrano, storia, cultura e tradizioni, Direzione didattica statale I° circolo, s.d.

Pietro Scalisi, ADRANO La storia, Edizioni cinquantacinque, 2009.

Barbaro Conti, I castelli di Paternò, Adrano, Motta S.Anastasia, Stampa Sud-Editrice, 1991.

Giovanni Palazzo e Guido Valdini, Adrano, Kalòs – luoghi di Sicilia, Edizioni Ariete.


LA SALA DEL MAPPAMONDO A PALAZZO FARNESE

A cura di Andrea Bardi

 

Introduzione

In seguito alla descrizione della storia e della struttura del palazzo, argomenti già trattati nel corso del progetto Discovering Italia, il seguente articolo vuole essere il primo di una serie di approfondimenti su specifici ambienti del palazzo. La Sala del Mappamondo, pur essendo tra le ultime sale del palazzo ad essere stata completata, ne costituisce – al di fuori di ogni dubbio – una delle punte di diamante.

Ubicazione e cronologia della Sala del Mappamondo

La Sala del Mappamondo [fig. 1] è collocata sul lato meridionale del Piano Nobile di palazzo Farnese. Afferente all’insieme di stanze facenti parte del cosiddetto “Appartamento d’Inverno”, è, insieme alla Sala dei Fasti Farnesiani, ad essa speculare, il singolo vano più grande dell’intera villa.

Fig. 1 – La Sala vista dall’ingresso dell’Anticamera degli Angeli.

Come riportato nel Libro delle misure della fabbrica dell’Ill.mo e Rev.mo Farnese a Caprarola, rinvenuto da Loren Partridge presso l’Archivio Camerale di Roma, la sala, rettangolare, è lunga circa ventuno metri, larga undici e portata, al cornicione, ad un’altezza di sette metri[1]. La misura (fattura dettagliata sui lavori di costruzione) relativa alla Sala del Mappamondo è datata 14 dicembre 1574[2]. L’inizio dei lavori però deve essere anticipato all’anno precedente. Stando ad una lettera inviata da Fulvio Orsini, segretario di Alessandro Farnese, al “Gran Cardinale” stesso, al 4 marzo del 1573 ci si stava infatti già muovendo per ingaggiare il pittore della “Cosmographia della Sala di Caprarola”. In un’altra lettera, quest’ultima datata 21 luglio 1575, sappiamo poi che i lavori, a quell’altezza cronologica, dovevano essere ancora completati. La sala fu, tuttavia, pronta e ben visibile nel suo parato decorativo a papa Gregorio XIII, il quale poté ammirarla il giorno 10 settembre 1578 nel corso di una visita pastorale alla Madonna della Quercia[3]. La sala, totalmente ricoperta da pitture a fresco e da stucchi dorati, era stata concepita come ambiente pubblico, cerimoniale: era qui, infatti, che il cardinal Alessandro teneva udienza. In pieno accordo con la tradizione cinquecentesca, poi, il programma iconografico di un ambiente così centrale all’interno di un palazzo principesco doveva essere organico, ben strutturato, e soprattutto leggibile iconologicamente solamente da parte di quel pubblico colto a cui l’accesso alla sala era d’altronde riservato.

L’apparato decorativo

La volta

Inserita all’interno di un cornicione decorato a motivi geometrici e priva di intelaiatura architettonica, la mappa celeste [fig. 2] campisce nella sua interezza la superficie della volta a schifo[4] della Sala del Mappamondo.

Fig. 2 – La volta celeste.

All’interno di un cielo centrato sul Solstizio d’Inverno trovano spazio cinquanta costellazioni: alle quarantotto canoniche dell’Almagesto[5] di Tolomeo (150 d.C. ca.) si aggiungono i Canes Venatici (Cani da Caccia, riconosciuti come costellazione autonoma solo nel 1687) e Antinoo (amante dell’imperatore Adriano). Tra le figurazioni astrali più rappresentative, la Capra vuole essere tanto un richiamo al paese di Caprarola quanto un’allusione ad Amaltea, nutrice del piccolo Giove, qui rappresentato sul dorso di un’aquila [fig. 3]. Puntando lo sguardo verso un Fetonte in caduta libera [fig. 4], il padre degli dei era il perno assoluto dell’armamentario simbolico che Paolo Giovio aveva costruito per papa Paolo III (nonno del cardinal Alessandro).

Nel Dialogo delle imprese militari e amorose (1555) Giovio aveva coniato il termine impresa in riferimento ad un dispositivo linguistico costituito da un’immagine che, evitando la rappresentazione dell’uomo, avesse bella vista, cioè rappresentasse cose gradevoli all'occhio, come astri, fuoco, acqua, alberi, strumenti, animali, uccelli fantastici.

Tale immagine doveva essere accompagnata da un motto, ovvero una breve formula solitamente

d’una lingua diversa dall'idioma di colui che faceva l'impresa, perché il sentimento fosse alquanto più coperto, e [...]breve, ma non tanto da essere oscuro o dubbioso.

Il motto di Paolo III (Hoc Uno Iuppiter Ultor) venne coniato da Giovio nel 1546 e trasmesso per delega al cardinal Alessandro, inviato dal pontefice come legato presso Carlo V. Alessandro, da quel momento in poi, fece suoi i poteri tradizionalmente riservati al papa[6] e l’associazione con Giove. Insieme alla Navicella, altra immagine presente sulla volta e tradizionalmente associata alla Chiesa, Giove diveniva, fuor di metafora, la guida spirituale della Chiesa, ovvero il papa, pronto a punire la hybris incarnata proprio da Fetonte che, nella versione del mito contenuta nel Poeticon Astronomicon di Igino, aveva perso il controllo del carro del padre Helios, cadendo rovinosamente tra le acque del fiume Eridano. Il significato fortemente controriformistico di alcune figurazioni della volta viene ribadito con forza anche nella scelta degli episodi mitologici descritti nel fregio sottostante.

Il fregio

Tra le pareti perimetrali e il grande ovale della mappa celeste dipinta sulla volta corre infatti un fregio dipinto con dodici scene mitologiche, inquadrate in cornici geometriche e ripartite in gruppi di tre per lato. Fondate anch’esse sul Poeticon Astronomicon di Igino, esse narrano la genesi dei dodici segni dello Zodiaco. La ripartizione delle scene sui vari lati segue, nonostante alcuni cambi di posizione dovuti all’assegnazione di posizioni centrali a segni particolarmente significativi per il cardinale, un andamento di tipo stagionale. Sul lato nord, il lato “invernale” d’ingresso, troviamo il riquadro del Capricorno al centro fiancheggiato da Acquario e Sagittario [figg. 5-7].  

I riquadri “autunnali”, con la Bilancia al centro e gli episodi di Vergine e Scorpione [figg. 8-10] ai lati, corrono sul lato lungo parallelo;

i lati corti invece sono riservati alla “Primavera”, con il riquadro centrale raffigurante l’Ariete e le scene laterali con i Pesci e il Toro [figg. 11-13] e all’“Estate”, con i Gemelli al centro e Cancro e Leone [figg. 14-16] ai lati.

Lungo i lati lunghi quattro Profeti, due per ogni lato, fiancheggiano i riquadri mitologici. In corrispondenza degli angoli, coppie di satiri [fig. 17] (alternativamente maschi e femmine) sorreggono lo stemma araldico farnese (sei gigli azzurri su campo oro) avviluppato a sua volta da stucchi che, trasformandosi in figure femminili alate, circondano quattro grandi medaglioni [figg. 18-21] raffiguranti figure simboliche strettamente connesse con la personalità del cardinale (la nave Argo, la Vergine con l’Unicorno, la Freccia nel Bersaglio e il cavallo alato Pegaso).

Fig. 17 - Satiri.

I significati celati dietro le imprese farnesiane (i cui motti erano solitamente scritti in greco) erano, è giusto ribadirlo, fortemente connessi al clima di tensione religiosa che seguì la chiusura del Concilio di Trento. La nave Argo, in primis, era emblema della Chiesa Cattolica Romana[7]. La figura dell’Unicorno, invece, in grado di purificare l’acqua avvelenata, si legava inestricabilmente al concetto di salvazione mediante il sacrificio del Battesimo, dogma fortemente osteggiato dai riformisti nordici. L’eresia protestante era, assieme al nemico turco – ben vivo nonostante l’epocale sconfitta subita nella battaglia navale di Lepanto (7 ottobre 1571) – il principale ostacolo alla realizzazione di un’Europa unita sotto il segno dell’ortodossia cattolica. La Freccia nel Bersaglio lasciava infine intendere la fermezza e la precisione con le quali tali spinose questioni andavano affrontate. Per ciò che riguarda Pegaso, infine, così scriveva Annibal Caro:

significa l’eloquenza e la poesia, e [...]la cognizione ch’egli [Alessandro Farnese] ha de le dottrine e per la protezione che tiene de’ letterati

Ognuna delle raffigurazioni nel fregio, dunque, si faceva portatrice – da sola o in connessione con altre immagini – di un preciso significato iconologico. I “calcolati rimandi da una scena all’altra”[8] che Antonio Pinelli e Lucio Gambi individuavano anche nella volta della Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano, costituivano invece una cifra fortemente identificativa della stagione tardomanierista italiana.

Le pareti laterali

Il ciclo pittorico prosegue sulle pareti laterali con le sette grandi mappe geografiche che danno il nome alla Sala del Mappamondo. Sul lato d’ingresso, le due mappe dipinte sono quelle dell’America e dell’Asia [figg. 22-23].

Proseguendo sul lato corto che dà sull’adiacente Anticamera degli Angeli, le mappe di Italia e Giudea [fig. 24] sono sovrastate da quattro figurazioni allegoriche: alle due personificazioni di Italia e di Roma [fig. 25] fanno da pendant quelle della Giudea e di Gerusalemme [fig. 26].

 

Sul lato corto opposto, le personificazioni dei quattro continenti allora conosciuti circondano un grandioso mappamondo [fig. 27]. L’ultimo lato presenta invece le carte di Europa ed Africa [figg. 28-29]. Concludono la decorazione cinque ritratti-clipeo di grandi esploratori (Amerigo Vespucci, Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano, Hernan Cortes e Marco Polo) fiancheggiati da putti suonanti e da festoni floreali. Da un punto di vista storico, per le grandi carte geografiche Roberto Almagià e George Kish identificarono i modelli nei coevi esempi di Gastaldi, Camocio, Duchet, per le allegorie dei continenti gli esempi più recenti potevano arrivare dagli Ommegang[9] fiamminghi, specialmente da quello di Anversa del 1549[10].

Fig. 27 – Il Mappamondo con le Allegorie  continentali.

Attribuzioni

All’interno della sopracitata corrispondenza epistolare tra Alessandro Farnese e Fulvio Orsini, una lettera in particolare, datata 2 settembre 1573, fornisce un identikit chiaro del pittore responsabile degli affreschi geografici. Si tratta di

quel Giovanni Antonio che dipinse la cosmografia nella loggia di Palazzo a tempo di Pio quarto et col quale s’è già convenuto di consenso a V.S. Ill.ma che si debba fare quella della sala nuova di Caprarola.

Giovanni Antonio Vanosino da Varese (1535-1593) era all’epoca uno tra i massimi pittori specializzati nella decorazione geografica. Chiamato da papa Paolo IV a dipingere venticinque carte geografiche (su cartoni di Etienne Duperac prima e di Egnazio Danti poi) nella Terza Loggia Vaticana, suo è il Globo celeste Altemps del 1567 oggi ai Musei Vaticani.  Nella missiva del 6 settembre, Orsini svela anche il preparatore dei cartoni, il suo amico “messer Orazio Marii”, il quale si rivelò essere anche l’uomo dietro alla scelta di Igino come fonte primaria. Marii, infatti, scriveva Orsini nella lettera del 4 marzo,

tiene anco un Hygino scritto a mano antichissimo con le sue figure colorite, come devono stare[11].

Le due personalità individuate nelle lettere di Orsini sono, tuttavia, le uniche. Circa l’identità del pittore dietro “quella parte che s’aspetta alle figure” il segretario del Farnese non fa nomi precisi, limitandosi a specificare come al 15 ottobre 1573 l’artista prescelto fosse impegnato nella decorazione della palazzina di Giovan Francesco Gambara[12] a Bagnaia. Fu solo grazie all’ausilio della letteratura artistica seicentesca (le Vite del trattatista e pittore romano Giovanni Baglione, pubblicate nel 1642) che vennero individuate inequivocabilmente due personalità artistiche, Giovanni de Vecchi da Sansepolcro (1543-1614) e Raffaellino Motta da Reggio (1550-1578). Il Motta, già attivo per Alessandro Farnese nel romano Oratorio del Gonfalone (Cristo davanti a Caifa, 1573),

fu condotto da Gio. de’ Vecchi pittore al cardinal Alessandro Farnese in Caprarola per dipingere a quel principe, e vi fece alcune cose bellissime. E tra le altre imitò alcuni satiri in certi canti di una sala intorno ad alcune cartelle[13]

Essendo i satiri presenti solo nella Sala del Mappamondo, la presenza di Raffaellino è certa, ma non ancora delimitata. Giovanni de’ Vecchi è invece menzionato nell’epigramma 155 del poemetto La Caprarola di Ameto Orti (pseudonimo di Aurelio Orsi), come “Ioannes Vecchius Burghensius” e, dal Baglione, come autore di lavori “assai belli”[14] per la villa. La scarsità di documentazioni precise ha, nel corso del tempo, dato adito a numerose ipotesi di suddivisione del lavoro che, tuttavia, ancora oggi rimangono ad uno stato puramente congetturale.

La pittura geografica nel Cinquecento

Le pitture geografiche erano state oggetto di attenzione da parte della trattatistica morale sin dagli esordi del Cinquecento, quando, con il De Cardinalatu di Paolo Cortesi (1510), e nello specifico nel terzo libro (Liber Oeconomicus) ad esse veniva affidato il compito di incuriosire l’osservatore e di mostrare l’autorità del committente. Nella seconda metà del Cinquecento, poi, la chiesa di Roma, rinnovata nella sua dottrina in seguito al Concilio di Trento, trovò in uno dei suoi esponenti di spicco un fervente promotore della raffigurazione naturalistica. Nel Discorso sopra le imagini sacre e profane, pubblicato nel 1582, il bolognese Gabriele Paleotti, riconoscendo alle immagini scientifici i tre compiti fondamentali (docere, delectare, movere)[15] derivanti dalla tradizione ciceroniana, inserì tra le illustrazioni scientifiche anche “tavole di geografia” e “descrizzioni del cielo e delle stelle”[16]. Immagini, queste, che Juergen Schulz definisce un veicolo di idee non geografiche[17] e che trovarono, in Italia più che altrove, una grandissima diffusione.

 

Note

[1] Le misure riportate dal Libro sono in palmi, e non in metri.

[2] L. Partridge, The room of maps at Caprarola, p. 416, nota 5.

[3] F. Arditio, Viaggio di Gregorio XIII alla Madonna della Quercia, p. 387.

[4] Volta a padiglione intersecata da un piano

[5] La più importante opera astronomica del geografo Claudio Tolomeo (I sec. d.C.)

[6] “significasse la potestà che ‘l Papa le diede del governo, per essere il fulmine dedicato a Giove, il quale significa il Papa” (queste parole di Paolo Giovio sono contenute in M. Quinlan – McGrath, Caprarola’s sala della Cosmografia, p. 1061)

[7] Negli Emblemata di Andrea Alciati la Navicella era affiancata al motto spes proxima. Nei medaglioni di Caprarola la nave, attraversando due speroni montuosi (“Gli passeremo una volta questi monti, siccome gli hanno passati a salvamento”, scrive Giovio) allude al pontificato di Giulio III del Monte, visto da Alessandro Farnese come un ostacolo al normale percorso della nave-chiesa.

[8] A. Pinelli, L. Gambi, M. Milanesi, La Galleria delle carte geografiche in Vaticano, p. 12.

[9] Ommegang era il nome dato alle rievocazioni storiche che avevano luogo nelle Fiandre e nella Francia e che vedevano la presenza di tableaux vivants allegorici.

[10] In quell’occasione vennero realizzate le allegorie di Asia, Africa e America (C. Le Corbellier, Miss America and her sisters: Personifications of the Four parts of the World, p. 209)

[11] A. Ronchini, V. Poggi, Fulvio Orsini e le sue lettere ai Farnese, p. 56.

[12] Il cardinal Gambara era cugino ed intimo amico del cardinal Farnese.

[13] G. Baglione, Le vite..., pp. 26-27.

[14] G. Baglione, Le vite..., p. 127.

[15] Insegnare, dilettare, emozionare.

[16] Le parole di Paleotti sono contenute in P. Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento (tomo I), p. 356.

[17] J. Schulz, Maps as metaphors: Mural cycles of the Italian Renaissance, p. 122.

 

Bibliografia

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Alessi, rivedendo Raffaellino da Reggio nei cantieri pittorici di Palazzo Farnese a Caprarola e alla Palazzina Gambara di Bagnaia, in “Biblioteca e Società”, 67, 2014, n. 1-4, pp. 28-39.

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De Mieri, Motta, Raffele, in Dizionario Biografico degli italiani, 77, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 359-363.

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Fiorani, Carte dipinte. Arte, cartografia e politica nel Rinascimento, Modena, Panini, 2010.

Kish, The ‘Mural Atlas’ of Caprarola, in “Imago Mundi”, 10, Leida, 1953, pp. 51-56.

Le Corbellier, Miss America and her sisters: Personifications of the Four parts of the World, in “Bulletin of the Metropolitan Museum”, 19, New York, 1961, pp. 209-223.

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Pinelli, L. Gambi, M. Milanesi (a cura di), La Galleria delle carte geografiche in Vaticano. Storia e iconografia, Modena, Panini, 1996.

Pinelli, A. Uguccioni, De’ Vecchi, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, 39, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 539-542.

Portoghesi (a cura di), Caprarola, Roma, Manfredi, 1996.

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Robertson, Il Gran Cardinale. Alessandro Farnese patron of arts, New Haven-Londra, Yale University Press, 1992.

Ronchini, V. Poggi, Fulvio Orsini e le sue lettere ai Farnese, in “Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria dell’Emilia”, 4, Bologna, R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna, 1880, pp. 37-106.

Rosen, The Mapping of Power in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 2014.

Schulz, Maps as metaphors: Mural cycles of the Italian Renaissance, in Art and Cartography. Six historical essays, a cura di D. Woodward, Chicago, Chicago University Press, 1987, pp. 97-122.

Voss, La pittura del tardo Rinascimento a Roma e a Firenze (1920), Roma, Donzelli, 1994.


GOTICO CALABRESE: L’ESEMPIO DELLA MADONNA DELLE PERE

A cura di Felicia Villella

 

Inquadramento storico e geografico

Il borgo medievale di Altomonte, in provincia di Cosenza, vanta una millenaria citazione in Plinio il Vecchio grazie ad un rinomato vino locale, il balbino.

È stato il luogo di importanti vicende storiche e scenario del susseguirsi di una serie di dinastie che con le loro scelte hanno contribuito a conferire la caratteristica struttura di borghetto attuale: sotto il conte e cavaliere Filippo Sangineto viene realizzata la chiesa di Santa Maria della Consolazione, raro esempio di arte gotica-angiona in Calabria, costruita su una preesistente cappella normanna. Questo edificio religioso è stato lo scrigno di opere realizzate dalla mano sapiente di artisti appartenuti alla scuola di Giotto, rendendolo unicum del trecento toscano.

Il fermento artistico e la presenza dell’ordine dei domenicani nel paese, fanno di Altomonte la meta di studiosi e intellettuali, tra i quali spicca la figura di Tommaso Campanella che, con molta probabilità, concepì ivi la sua celeberrima opera La città del sole. Degne di nota sono la chiesa bizantina di San Giacomo Apostolo e il complesso monastico di San Francesco di Paola, sede del municipio.

Tra gli edifici di carattere militare spiccano, invece, il castello normanno in seguito infeudato e la torre detta Pallotta dell’XI secolo.

Dalle antiche celle dell'ex Convento dei Domenicani, attiguo alla Chiesa di Santa Maria della Consolazione sono state ricavate le sale del Museo civico, inaugurato nel 1980 e alle quali si accede superando il chiostro del convento. Il monumento conserva i volumi che appartengono alla Biblioteca Civica e alla Biblioteca Storica, oltre una ricca collezione di opere che sono il fiore all’occhiello del gotico calabrese, prima fra tutte la tavola de La Madonna delle pere di Paolo Di Ciacio, allievo di Antonello da Messina.

La Calabria artistica del trecento e del quattrocento conferma sempre di più la sua vicinanza alle correnti artistiche napoletane, soprattutto nel passaggio tra la dinastia angioina e quella aragonese. Tra i poli maggiormente produttivi da un punto di vista artistico oltre alla città partenopea, va di certo menzionata la vicina Messina, per questo, la Calabria, al centro tra le due principali città artisticamente produttive, traduce in un armonico connubio la doppia influenza, sia nel campo delle arti figurative che nei complessi meccanismi storico-sociali che interessano la punta dello stivale.

Ergo, con il Gotico internazionale appaiono in Calabria i chiari segni della adesione alla cultura catalano-napoletano-marchigiana dei tempi del Re Ladislao di Durazzo fino ai nuovi afflussi di cultura valenciana giunti in Sicilia coi maestri di Siracusa.

L’opera e l’autore

Collocata nel Museo Civico di Altomonte, ex-Convento dei domenicani, in Piazza Tommaso Campanella e nella Sezione Quadreria, la Tavola della Madonna delle pere di Paolo di Ciacio è datata alla metà del XV secolo. La sua posizione originaria, invece, era il timpano dell'altare maggiore.

Fig. 1 - Paolo di Ciacio, Madonna delle Pere (cm 85x65) tempera su tavola; Altomonte – Museo Civico.

Gli studi recenti degli storici dell’arte ne hanno dato attribuzione alla bottega del maestro Antonello da Messina, nello specifico al pittore Paolo di Ciacio, nativo di Mileto e unico calabrese appartenuto alla cerchia antonellesca, così come attesta un documento datato 1456 nel quale sottoscriveva una prestazione d’opera triennale. Nello stesso, come da prassi, il pittore-allievo si impegnava a mantenere il celibato fino alla chiusura del contratto, clausola che non fu mantenuta nell’anno successivo alla stipulazione, tanto da sciogliere l’accordo preso, con conseguente pagamento di una penale. Dagli studi emerge inoltre che la tavola dovrebbe essere l’unica opera attribuita all’autore, facendo vacillare la sicura sua assegnazione.

Il dipinto è realizzato su di una tavola prodotta dall’accostamento di tre tavolette di pino rosso proveniente dai boschi della vicina Sila, piallata solo da un lato. Da un punto di vista diagnostico il retro si presenta nudo e non trattato, mentre il fronte è compiuto con uno spesso strato preparatorio composto da colla e gesso, su di esso è impresso il disegno preparatorio eseguito per incisione indiretta e diretta. La tecnica esecutiva impiegata per la realizzazione del dipinto è quella di tempera grassa a legante proteico su tavola, un tipo di esecuzione altamente attaccabile da degradi e alterazioni di tipo biologico, che potrebbero comprometterne l’integrità.

Fig. 2 - Paolo di Ciacio, Madonna delle Pere (cm 85x65) tempera su tavola – dettaglio del volto; Altomonte – Museo Civico.

Il soggetto raffigurato è quello della madonna con bambino, la figura si presenta in primo piano, con una leggera torsione verso sinistra e in posizione seduta, così da tagliarla all’altezza delle ginocchia su cui poggia un cuscino cremisi a sostegno di Gesù infante.

Lo sfondo presenta una architettura geometrica definita, uno schema preciso di vuoti e di pieni che lascia intravedere una muratura netta e alcuni cenni di un esterno al di là delle grate. La figura della Vergine poggia, invece, su di un arazzo damascato color rosso porpora e oro, che la incornicia nobilitandone la seduta.

Fig. 3 - Paolo di Ciacio, Madonna delle Pere (cm 85x65) tempera su tavola – dettaglio del Bambino; Altomonte – Museo Civico.

La Madonna presenta una ovale dell’incarnato roseo, circondato da un’aureola dorata finemente decorata in foglia oro su bolo aranciato, l’espressione è severa, fissa verso lo sguardo dell’osservatore. La pettinatura, così come l’abbigliamento, rimanda alla moda del periodo: interessanti sono la resa delle velature sul capo e le geometriche sfaccettature del velo sulle spalle, che conferiscono rigidità alla figura. La mano sinistra è rivolta verso l’interno e sorregge, in una posa innaturale, un frutto; mentre la mano destra, posta alle spalle del Bambino, si apre a ventaglio, mostrando un gruppo di pere ben disposte. Sulle gambe della Madre poggia un cuscino, anch’esso rigido nella sua resa, sul quale è raffigurato un Bambino che sembrerebbe avere pochi mesi di vita, ma dalla posa austera e fiera riconducibile ad una consapevolezza più adulta, una concezione sostenuta anche dal gesto sicuro di Gesù con cui sorregge e consulta un libro.

Se si dà per certa l’attribuzione, l’artista Paolo di Ciacio si è sicuramente ispirato ad un originale antonellesco, molto simile alla tavola Salting e alla Madonna dell'Umiltà, ma dalla concezione rinfrescata: il bimbo nudo e paffuto e il soggolo che cinge il collo ampio e pieno d’aria; le dita della mano destra aperte per impadronirsi dello spazio e, oltre la grata, un paesaggio probabilmente abbozzato dal vero. Tutto questo purpurei emozionale racchiude una mescolanza di esperienze dal sapore nettamente pierfrancescano.

 

Bibliografia 

Sansoni, La critica d'arte rivista bimestrale di arti figurative, Firenze 1937;

Renzoni, Antonello da Messina, Firenze 2019.

 

Sitografia

http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_20252

https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/madonna-delle-pere-madonna-con-bambino-paolo-di-ciacio-notizie-1457-18-00005864/40963

http://www.museocivicoaltomonte.it/MW/index.php?it/153/catalogo-generale-opere/30/madonna-delle-pere

http://www.comune.altomonte.cs.it/Home/Guida-al-paese?IDPagina=27985

http://www.calabriaonline.com/col/arte_cultura/arte_calabra/messina01.php


IL SACRIFICIO DI ISACCO DI ORAZIO GENTILESCHI

A cura di Fabio d'Ovidio

Storia conservativa del dipinto: passaggi di proprietà, acquisizione e restauro

La tela, dipinta da Orazio Gentileschi (1563-1639) e raffigurante il Sacrificio di Isacco, conservata oggi nella Galleria Nazionale della Liguria di Palazzo Spinola, venne esposta per la prima volta nel 1947 all’interno della mostra intitolata Pittura del Seicento e del Settecento in Liguria. Nel 1956, dopo nemmeno un decennio, venne posto sull’opera il vincolo di interesse storico-artistico eccezionale, e nel 1986, tramite l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, il Sacrificio di Isacco venne formalmente acquistato a titolo definitivo.

Questo soggetto di Gentileschi proviene dalla quadreria di Palazzo Cattaneo Adorno, ubicato in via Garibaldi, come viene confermato da una fonte databile al 1847. Prima di quella data, come ricorda l’Instruzione del 1780 di Carlo Giuseppe Ratti il dipinto figurava nella collezione privata di Pietro Gentile, all’interno della quale erano presenti altre tele dello stesso pittore; tuttavia almeno una di queste – secondo le ipotesi della critica – dovrebbe essere ascritta al catalogo di opere dipinte da sua figlia Artemisia. Continuando con la ricerca a ritroso nel tempo di più antichi proprietari, si deve segnalare nel 1678 all’interno della collezione dell’ormai defunto Gian Luca Doria la presenza di un Isacco del Gentileschi, il cui valore stimato non superava le 30 lire.

Nel corso del biennio 1986/1987, subito dopo l’acquisto dell’opera, il Sacrificio di Isacco venne immediatamente sottoposto ad un restauro che gli restituì le dimensioni originarie: in corso di lavori si evidenziarono importanti lacune della pellicola pittorica soprattutto in concomitanza con i bordi della tela – i margini e l’angolo in basso a destra, nello specifico – dove era presente, vicino al corpo di Isacco, la testa di un montone che dopo l’intervento divino sarà sacrificato al posto dell’unico giovane figlio del profeta biblico Abramo. Della rappresentazione della testa di questo animale oggi sopravvivono soltanto due particolari anatomici: l’occhio destro e la punta del muso.

Sul piano esecutivo – data l’assenza di fonti documentarie certe – non si può stabilire con assoluta sicurezza se il dipinto venne eseguito dal pittore durante il suo soggiorno genovese, collocabile storicamente tra il 1621 e il 1624, o arrivò nel capoluogo ligure secondo altre modalità; è inoltre impossibile instaurare in maniera inequivocabile una relazione tra questo soggetto e l’affresco di tema analogo realizzato al centro della volta di una delle due sale dipinte da Orazio Gentileschi dietro committenza di Marcantonio Doria per il casino di famiglia sito nell’attuale quartiere cittadino di Sampierdarena, andato poi distrutto – stando alle fonti storiche – in chiusura di Settecento.

Descrizione iconografica dell’opera

Quando Carlo Giuseppe Ratti descrisse l’affresco di Sampierdarena nel 1768 si soffermò su quanto fossero soavi le proprietà del colorito: proprio queste parole, possono essere reimpiegate – secondo l’opinione di chi scrive – nell’approcciarsi alla descrizione cromatica di questa tela, connotata da una precisissima e calibratissima scelta delle cromie e dal magistrale impiego dei partiti luministici, tipici della lezione di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, del quale Gentileschi era seguace.

Un elemento tipico che costituisce un espediente impiegato spesso anche in altre opere dal maestro – si pensi per esempio al Davide e Golia, conservato a Dublino presso la National Gallery of Ireland, o al ben più famoso Davide con la testa di Golia, presente nella raccolta di dipinti di Galleria Spada a Roma – è la folta vegetazione in secondo piano che si configura come quinta ombrosa dell’intero evento, mettendo in risalto i personaggi raffigurati in primo piano. A concludere l’intera scena è un fondo nuvoloso striato.

La disposizione dei personaggi – l’angelo, Abramo e il figlio Isacco – è inserita entro un asse verticale che occupa l’altezza intera del supporto, dettandone inoltre il ritmo e le modalità di osservazione.

Un altro elemento che colpisce immediatamente l’osservatore ne il Sacrificio di Isacco è il dialogo fisico ed ottico, non verbale (la bocca dell’angelo è chiusa, quella di Abramo nascosta dalla barba) tra i corpi, il cui viluppo delle masse è studiatissimo ed estremamente calibrato: nuovamente è quasi d’obbligo richiamare sotto il profilo compositivo il superbo dipinto di Davide e Golia presente a Dublino, in merito al quale sono state avanzate ipotesi circa una provenienza Genovese. Proprio questo insieme di corpi trova il suo fulcro nel braccio proteso dell’angelo verso Abramo, attraverso cui impone una fine a ciò che fino a pochi istanti prima era ormai un dato certo, ovvero il sacrificio del figlio. Questo gesto è poi rimarcato sul piano “narrativo” dal gioco di sguardi che si instaura tra i due, mentre sotto il profilo cromatico è evidenziato dalle luminosissime pieghe delle maniche arrotolate di Abramo stesso: questi, nella mano sinistra stringe ancora saldamente il coltello con cui avrebbe compiuto il sacrificio del figlio, mentre con la destra, aperta e tesa sulla nuca del ragazzo, la spinge in avanti così da tendergli il collo per riuscire a recidergli la giugulare.

In ultima analisi non resta che considerare proprio chi sarebbe dovuto essere la vittima-protagonista della scena, ovvero Isacco, dipinto dall’artista nell’angolo in basso a destra, seduto sulle sue ginocchia con occhi chiusi quasi rassegnati al suo destino e nella penombra.

 

 

Bibliografia

G. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova 1766

G. Ratti, Instruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in Pittura, Scultura ed Architettura, Genova 1780

Genova nell’Età Barocca, Catalogo della mostra, 1992

Simonetti, G. Zanelli [a cura di], Galleria Nazionale della Liguria, Genova 2002


SAN LORENZO MAGGIORE A NAPOLI

A cura di Ornella Amato

 

Introduzione: una storia iniziata nel V sec. a.C. e che continua ancora oggi

Quello che si fa nel Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore a Napoli è un viaggio sopra, sotto e dentro la storia di una città, una storia che inizia nel V secolo avanti Cristo: l’intero complesso sorge infatti sui resti della Neapolis sotterrata, ovvero un'intera area archeologica sopra la quale gli Angioini fecero realizzare la basilica di San Lorenzo, a cui poi, nel corso del tempo, si è affiancato il Chiostro, con tutti i rimaneggiamenti susseguitisi nel corso dei secoli successivi, ed il Museo dell'Opera che – quale Polo museale – ne conserva e ne tramanda la stratificazione storica e artistica.

La Basilica di San Lorenzo Maggiore

La chiesa è caratterizzata da una pianta a croce latina che comprende tre navate, due navate laterali con 8 cappelle ciascuna per un totale di sedici cappelle più una navata centrale, ed ha una lunghezza enorme, circa 80 metri. Il complesso comprende un’abside unica in Italia modulata sul gotico francese, il museo dell'Opera, due sale di accoglienza che sono veri e propri scrigni data la qualità degli affreschi che contengono e di cui si compongono, e soprattutto un chiostro, che è l'accesso diretto non solo agli scavi sottostanti la basilica ma anche alla Neapolis sotterrata. Qui sono visibili gli scavi della età greco-romana coi resti del macellum, le botteghe, e i mosaici, taluni visibili dal pavimento della stessa chiesa attraverso lastre appositamente create all'interno di essa.

Sulla facciata del Campanile sono affissi gli stemmi dei Sedili della città.

Campanile della Basilica con gli stemmi dei Sedili della Città. Credits: Wikipedia.

Una storia millenaria, quella che racconta il Complesso Monumentale di San Lorenzo.

Interno della Basilica. Credits: Wikipedia.

Dal Decumano Maggiore, dove un tempo esisteva l'agorà, dopo aver attraversato l'intera via di San Gregorio Armeno, e prima di arrivare in piazza San Gaetano con l’omonima statua, a destra, lungo la via, si può notare uno scalone di pietra che conduce davanti all'ingresso della basilica, mentre alla sua destra insiste il Campanile su cui sono presenti gli stemmi dei Sedili della Città che proprio lì si riunivano, laddove era necessaria la loro presenza.

La facciata barocca della chiesa conserva il portale gotico e gli originali lignei trecenteschi,

All’interno della basilica, nonostante i rimaneggiamenti dal ‘600 in avanti che sono particolarmente evidenti nella controfacciata e nella terza cappella di sinistra, caratterizzata da un arco a tutto sesto e marmi policromi, tipici dell'architettura barocca napoletana, spicca il Cappellone di Sant'Antonio, in cui sono presenti due tele di Mattia Preti.

Mattia Preti - Crocefissione - Cappellone di Sant’Antonio, Basilica di San Lorenzo Maggiore. Credits: Wikipedia.

Le altre cappelle, originarie dell'età angioina a cui la stessa chiesa va datata, sono caratterizzate da archi a sesto acuto, tipici del periodo gotico.

La navata centrale, nonostante i suoi 80 metri di lunghezza, accompagna lo sguardo del visitatore direttamente all'abside, monopolizzando l’attenzione. Essa fu realizzata seguendo i canoni del gotico francese, unico esempio in Italia e che rimanda all'altra chiesa angioina presente in città, ossia il complesso monumentale di Donnaregina con cui ha in comune la fattezza dei tronconi a sesto acuto; in entrambi i casi si tratterebbe di un anonimo architetto francese, sebbene la conca absidale di San Lorenzo resti un unicum sull'intero territorio nazionale.

Interessante è poi, al centro dell'abside, l'altare maggiore, non solo per la raffigurazione dei Santi Lorenzo, Antonio e Francesco ma in particolare per il fatto che sullo sfondo è rappresentata la città di Napoli in epoca rinascimentale, opera di Giovanni da Nola.

La rappresentazione la città che fa da sfondo ai Santi ha anche un'importanza ed un'alta rilevanza storica oltre che artistica, poiché consente, attraverso una vera e propria indagine iconografica e iconologica, uno studio sulla città di Napoli in epoca rinascimentale.

Il convento

Il convento è sicuramente parte fondamentale dell'intera area facente riferimento al complesso museale di San Lorenzo Maggiore: infatti esso non solo ospita il Museo dell'Opera, che è un vero e proprio polo museale allestito all'interno dell’area, ma consente al pubblico la vista delle due imponenti sale di cui si esso stesso si compone: la sala Capitolare, caratterizzata da volte a crociera realizzate nel secondo trentennio  del XIII secolo e la sala intitolata a  Sisto V, alla quale si accede attraverso il chiostro e che è il grande refettorio del convento stesso.

 

Il Chiostro

Il Chiostro della Basilica di San Lorenzo Maggiore è la dimostrazione dell'intera vicenda storico-artistica del complesso monumentale stesso; infatti è di origine gotica, ma la versione che esiste ancora oggi è quella di epoca settecentesca realizzata sui resti del macellum romano e caratterizzata al centro da un pozzo, realizzato in marmo e piperno dal maestro Cosimo Fanzago.

Credits: napoligrafia.com.

Il Chiostro, che tra gli altri ospitò Francesco Petrarca, non è interno alla basilica, ma è ad essa adiacente, e adesso vi si accede attraverso via dei Tribunali, importante strada del centro storico di Napoli.

Altresì, attraverso il Chiostro si accede all'area archeologica sottostante la basilica, la cosiddetta Neapolis sotterrata.

 

Neapolis Sotterrata

Quello nella Neapolis sotterrata è un viaggio nel tempo e nello spazio della Napoli dell'età classica, all'interno del quale si percorre l’antica strada romana con le botteghe intorno al macellum; i reperti rinvenuti nei resti dell'antica città di Napoli - tra l'altro oggi l'area archeologica di maggiore interesse all'interno del centro storico della città stessa, una sorta di città nella città - sono conservati all'interno del Museo dell'Opera.

 

Bibliografia

AAVV. La Grande Storia dell’Arte Vol. 2 Il Gotico - 2003 Gruppo Ed. L’Espresso

De Fusco Mille anni d’architettura in Europa - Cap. 2 - Il Gotico - 2001 Editori La Terza

 

Sitografia

www.laneapolissotterrata.it

www.laneapolissotterrata.it/complessomonumentaledisanlorenzomaggiore

www.touringclub.it

www.napolike.it

www.napoligrafia.it

www.10cose.it

www.napoli–turistica.com-sanlorenzomaggiorebasilicaecomplessoarcheologico


RENATA CUNEO, LA SCULTRICE DI SAVONA

A cura di Gabriele Cordì

 

Biografia

Renata Cuneo nasce a Savona nel 1903, è una delle personalità più influenti dell’arte italiana del XX secolo e le sue opere fanno parte di importanti collezioni di arte contemporanea sparse in tutto il mondo. Frequenta il savonese Liceo Classico “Gabriello Chiabrera” sin dalla prima ginnasiale, ottenendo sempre ottimi risultati e diplomandosi nel 1922. Lo stesso anno, una volta conseguito il diploma classico, si trasferisce a Firenze per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Questa esperienza fondamentale segnerà profondamente il linguaggio artistico della scultrice savonese per tutto il resto della sua carriera. Qui ha modo di seguire le lezioni di Domenico Trentacoste, scultore siciliano, che rappresenta una vera e propria guida per la Cuneo, la quale ricorderà i suoi insegnamenti nei suoi primi lavori fuori dall’Accademia. Qui riceve encomi anche da Giuseppe Graziosi e Adolfo Wildt in visita alla sua scuola. A Firenze ha anche modo di studiare da vicino i grandi maestri del Rinascimento e del Manierismo, come Donatello, Masaccio, Michelangelo, Giambologna, i cui tratti sono ravvisabili in tutte le sue opere. A Firenze prende anche ispirazione dall’antico, analizzando attentamente i bronzetti etruschi contemplati durante le sue visite al Museo Archeologico della città. Renata Cuneo si diploma nel 1927 e inizia subito a lavorare prendendo in affitto uno studio a Firenze. Tuttavia, pochi anni dopo torna a Savona, continuando il suo percorso artistico all’ombra della Torretta. Nonostante avesse frequentato l’accademia, viene presto in contatto con l’ambiente futurista. Lì conosce lo scultore Arturo Martini, la cui arte influenzerà le sue opere dell’ultimo periodo degli anni Trenta. Nel 1942 Renata Cuneo è la prima donna a presentare una mostra personale alla Biennale d’Arte a Venezia. Alla fine degli anni Quaranta approfondisce la lavorazione della ceramica presso la Fabbrica dei Mazzotti ad Albisola. In Italia partecipa alle più importanti mostre del suo tempo, mentre all’estero espone a New York, Budapest, Edimburgo, Cracovia e Sofia. Degna di nota è la sua mostra antologica a Firenze presso Palazzo Strozzi nel 1981. Cinque anni dopo dona alla sua città un notevole numero di sculture in bronzo e in terracotta, ceramiche, gessi e disegni, esprimendo la sua volontà di esporli pubblicamente alla Fortezza del Priamar. Queste opere oggi convivono in un museo a lei dedicato con la collezione d’arte contemporanea dell’emerito Presidente della Repubblica Sandro Pertini, donata dalla moglie Carla Voltolina per volontà del marito. La collezione d’arte di Pertini offre ai visitatori una visione completa dell’arte del secondo Novecento. Le stanze della fortezza ospitano ancora oggi le opere di Giorgio de Chirico, Renato Guttuso, Joan Mirò, Giorgio Morandi, Pomodoro e molti altri grandi nomi dell’arte contemporanea.

L’eredità savonese nelle sue “opere pubbliche”

 

La vocazione artistica di Renata Cuneo, caratterizzata da un imprescindibile senso civico, la porta ad impegnarsi in opere pubbliche per la città di Savona: la lastra con la Madonna di Misericordia, le decorazioni della Chiesa di San Raffaele al porto, la cassa lignea dell’Ecce Homo e il monumento al Marinaio posto sotto il simbolo della sua città, la Torre Leon Pancaldo.

Lastra con l’Apparizione di Nostra Signora di Misericordia al Beato Botta

Al bivio tra via Crispi e via Garroni, incastrata in un palazzo, si trova una lastra in pietra serena risalente al 1940, scolpita a bassorilievo e raffigurante l’iconografia tradizionale della Madonna della Misericordia, patrona di Savona, con ai piedi il Beato Botta inginocchiato durante la miracolosa apparizione avvenuta il 18 marzo del 1536. I personaggi sono immersi in una fitta rete di arbusti e una mano della Vergine sfonda la cornice per coprire parte dell’iscrizione. Sul lato inferiore della cornice è presente un motivo geometrico che ricorda le acque del fiume sul quale è avvenuta l’apparizione.

Fig. 3 - Lastra con l’Apparizione di Nostra Signora di Misericordia al Beato Botta.

Fontana di Piazza del Pesce 

Nella centralissima piazza Marconi si trova la Fontana del Pesce, realizzata nel 1965: una fontana a tre vasche, una superiore a forma di conchiglia e due inferiori, ridotte, che con un semplice gioco d’acqua a cascatella sono in simbiosi con quella superiore. Sulla vasca superiore si trova la statua della scultrice Lotta tra uomo e squalo.

Fig. 4 - La scultura “Lotta tra Uomo e Squalo” posta sulla sommità della Fontana di Piazza Marconi. Credits: ivg.it

La chiesa di San Raffaele al Porto

 

La chiesa è così intitolata per il bombardamento che ha colpito Savona il 24 ottobre del 1942, giorno di San Raffaele. I lavori di costruzione per la nuova struttura iniziano esattamente dieci anni dopo quel tragico evento e durano solamente un anno. Il progetto dell’ingegner Barile prevede un semplice edificio in calcestruzzo e cemento armato. Una volta conclusa la costruzione della chiesa, Renata Cuneo si dedica alle opere per gli interni: l’altare, il gruppo scultoreo dell’Annunciazione e gli arredi liturgici; mentre per la facciata realizza un bassorilievo in pietra rosa raffigurante San Raffaele. L’edificazione di questa chiesa è promossa da Don Mario Genta, il cui ricordo è ancora vivo tra i savonesi.

Fig. 5 - Facciata della Chiesa di San Raffaele al Porto. Credits: https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-.

La cassa lignea per la Processione del Venerdì Santo

Realizzata tra il 1977 e il 1978, è l’ottava cassa che sfila durante la Processione del Venerdì Santo a Savona. Al centro si trova Gesù Cristo che porta sulle spalle un mantello rosso e ha le mani legate da una corda, alla sua sinistra si trova Ponzio Pilato, che lo indica al popolo con un eloquente gesto del dito. È conservata nell’oratorio dei Santi Pietro e Caterina in Via Dei Mille.

Fig. 6 - La cassa della Processione realizzata da Renata Cuneo. Credits: Wikipedia - Mariangela Calabria.

 

 

Sitografia

http://www.culturagenova.it/cultura/it/Temi/PercorsiProposte/itinerariVisita.do;jsessionid=B568BF2E0E3AB45262DA1F98408D49FF.node1?contentId=87263&luogo=true&biblio=false&idItinerario=87861&opera=false&actionType=addElement&oid=87263

http://www.culturainliguria.it/cultura/it/Temi/PercorsiProposte/itinerariVisita/renatacuneo.do;jsessionid=0D77248E99F984278716AEAC7B15B17F.node2

http://www.truciolisavonesi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6531:renata-cuneo-artista-savonese&catid=108:biagio-giordano&Itemid=57


CASA ROMEI A FERRARA - PRIMA PARTE

A cura di Mirco Guarnieri

Introduzione

Casa Romei è situata nell’attuale Via Savonarola e rappresenta l’unico esempio ancora integro di dimora nobile costruita durante il governo di Leonello e Borso d’Este. Venne acquistata dallo Stato nel 1898, e nel 1952 venne istituito il museo statale che accoglie affreschi, lapidi e sculture provenienti da varie chiese della città.

Giovanni Romei

Il proprietario della dimora, Giovanni Romei, nacque nel 1402 da una famiglia di mercanti, mestiere che esercitò anch’egli espandendo la propria attività in diversi settori. Giovanni Romei era diventato una figura molto importante e ricca, ricoprendo ruoli per la famiglia d’Este come quello di ambasciatore presso papa Pio II Piccolomini, che nel 1458 lo nominò Conte di Bergantino e Bariano e del Palazzo Lateranense. Raggiunse l’apice dell’ascesa sociale sposando in seconde nozze Polissena d’Este, figlia illegittima di Meliaduse e nipote di Borso d’Este. Morì nell’Ottobre del 1483, lasciando la dimora in eredità alle suore del Corpus Domini.

Casa Romei

La dimora del mercante Giovanni Romei venne realizzata probabilmente dall’architetto Pietrobono Brasavola nel 1442 con la costruzione del primo nucleo e ampliata successivamente per le nozze con Polissena.

Piano Terra

Entrando nella residenza il primo spazio che si incontra è il cortile d’onore circondato da un doppio loggiato con baldresche situate nel lato est e un pozzo posto al centro del cortile. Nel grande loggiato possiamo notare affreschi floreali tardogotici mentre nel muro sovrastante si trova il trigramma di San Bernardino, realizzato in terracotta e attorniato da sei medaglioni, che all’epoca presentavano figure di santi.

Sempre al piano terra sono presenti due sale, rispettivamente la sala dei Profeti e la sala delle Sibille.

Sala dei Profeti

Sulle pareti di questa sala l’artista, tutt’ora sconosciuto, ha realizzato affreschi raffiguranti profeti aureolati tra le fronde di un albero con dei cartigli su cui sono scritti versi passi dalla Bibbia. L’albero si trova all’interno di un giardino circondato da una recinzione di rose, e al fianco della pianta è presente una donna con abiti verde smeraldo e le mani unite in segno di preghiera con lo sguardo rivolto verso i profeti. Su tutto il perimetro della parete superiore sta la decorazione di una finta architettura con rami di fiori e frutti intersecati tra loro, con al centro un medaglione raffigurante angeli.

All’interno di una nicchia posta nella parete nord vi è quello che rimane della raffigurazione di una Pietà, posta all’interno di un’architettura gotica.

Sala delle Sibille

Il ciclo pittorico realizzato per le nozze del mercante Romei con Polissena, presenta in alto un fregio con la stessa decorazione della sala precedente, fatta eccezione per gli angeli che non sono collocati all’interno di un medaglione, e dodici profetesse dinnanzi una siepe di fiori e piante con in mano cartigli che inneggiano all’avvento di Gesù Cristo, tema presente anche nella nicchia posta nella parete sud, dove è stata dipinta la Natività.

Dopo attenti studi sono state individuate le varie Sibille:

. Sibilla Persica e Libica, sulla parete settentrionale vicino all’entrata per la sala dei Profeti. Quest’ultima riconoscibile per la veste diversa dalle altre;

. Sibilla Delfica rappresentata come una donna vecchia e curva e la Chimmeria sulla parete orientale;

. Sibilla Eritrea, la Samia riconoscibile per il copricapo e la Cumana sulla parete meridionale;

. Sibilla Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina sulla parete occidentale;

. infine le Sibille Europa e Agrippa sull’altro lato della parete nord.

Fregio Sala delle Sibille (particolare). Credits: Wikipedia - Sailko.

Altro particolare presente nella sala è il camino a cappa poligonale, unico esempio giunto ai giorni nostri presente nella città di Ferrara. Esso è contornato da un fregio in cotto con lo stemma della famiglia Romei, il cane rampante, posto sopra di uno scudo con la scritta “ÇR” (Çoanne Romio) sul lato frontale della cappa.

 

La sala del Cinquecento

Anche in questa sala è presente un camino lapideo, mentre il soffitto in legno presenta decorazioni dorate su fondo blu, anche se dopo recenti restauri si è notato che sotto queste decorazioni ve ne erano presenti di altre più antiche, su fondo rosso.

Sala del Cinquecento. Credits: Museo Casa Romei - http://casaromei.byethost18.com/.

Lapidario

Le tre sale del Lapidario sono state occupate da statue, bassorilievi, marmi, cotti e lapidi dopo il trasloco da Palazzo dei Diamanti avvenuto nell’estate del 1952, a causa dei danni procurati dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale.

Nella prima sala sono esposti in gran parte fregi decorativi in marmo eseguiti da artisti ferraresi tra il XV e il XVI secolo come l’altorilievo ornamentale a festone in marmo scolpito, proveniente da Piazza Ariostea (ex Piazza Nova) e il monumento sepolcrale di Tomasina Gruamonti Estense in marmo formato dalla lapide sepolcrale, il tondo con il ritratto di Tomasina Gruamonti e il putto alato.

La seconda sala ospita un pulpito marmoreo, un tabernacolo e un ritratto virile tutti provenienti dal refettorio della Certosa di Ferrara, una fontana in marmo con l’iscrizione che ricorda l’umanista Celio Calcagnini, il medaglione marmoreo di Borso d’Este, l’aquila araldica della casata degli Este e la testa di Napoleone proveniente dalla statua, distrutta, che si trovava in Piazza Ariostea durante il dominio napoleonico.

In conclusione, la terza sala raccoglie vari cotti ornamentali e stemmi come quelli di papa Urbano VIII, dei cardinali Antonio Barberini e Stefano Durazzo, chiavi di volta che presentano motti (“wor bas” - “sempre avanti) e stemmi  (l’aquila estense e l’impresa dell’unicorno rampante) oltre alla statua di San Michele Arcangelo realizzata da Andrea Ferrari (1720-1735) e lapidi commemorative.

Andrea Ferrari, San Michele Arcangelo, 1720-1735. Credits: Wikipedia - Sailko.

 

Biografia

Andrea Sardo, Ferrara. Il museo di Casa Romei. Guida alla visita. Ediz. illustrata, Silvana Editore, 2019.

Sitografia

https://rivista.fondazioneestense.it/it/1998/8/item/332-le-sibille-di-casa-romei
https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-romei_(Dizionario-Biografico)/

LA CERTOSA DI SAN LORENZO A PADULA PARTE IV

A cura di Stefania Melito

Introduzione

Il precedente articolo si era soffermato sulla chiesa, cuore dell’attività spirituale della Certosa di San Lorenzo in Padula. Proseguendo nella trattazione si affronteranno invece le sale immediatamente attigue ad essa, ossia la Sala del Tesoro e la Sala del Capitolo, introdotte dal Vestibolo delle Campane.

Il Vestibolo delle campane e la tavola del sacrista

Uscendo dalla chiesa si percorre uno stretto passaggio tra l’ultimo stallo del coro dei Padri e il muro perimetrale dell’aula ecclesiastica, ove spicca uno degli elementi forse più suggestivi di tutta la Certosa di San Lorenzo a Padula, ossia una sorta di schema riassuntivo dell’attività giornaliera di ogni singolo monaco, rimasto intatto dall’ultimo giorno di permanenza dei monaci dopo il 1866.

Fig. 1 - La tavola del sacrista.

Tale manufatto, detto la tavola del sacrista e oggi inserito in una bacheca di vetro, era in pratica un rettangolo che riproduceva la pianta del Chiostro grande, del Refettorio e della chiesa, su cui era segnato sia il nome del monaco che in quella giornata avrebbe dovuto recitare la predica nel Refettorio sia i nomi di coloro che avrebbero recitato il Sacro Ufficio in solitudine nelle proprie celle.

Fig. 2 - Particolare con i nomi dei monaci.

Tramite dei chiodi in legno sulla cui testa era incisa una lettera, infatti, veniva segnata la posizione di ogni religioso, che semplicemente guardando quello schema e senza alcun bisogno di infrangere la clausura, avrebbe conosciuto i “compiti del giorno”.

Fig. 3 - Particolare con i chiodi di legno.

Superato ciò si arriva in una stanza quadrata, la cosiddetta “Sala o Vestibolo delle campane”, sul cui soffitto sono ancora visibili i fori da cui pendevano le grosse corde che azionavano le campane[1], mentre lungo le pareti corrono alcuni stalli. Questa sala, detta anche Colloquio, era uno dei pochi ambienti ove i monaci potessero parlare una volta alla settimana.

Fig. 4 - Il vestibolo delle campane.

Sul pavimento, che presenta lo stesso motivo a gradini tridimensionali della chiesa, spicca però una cosa, ossia una lastra di pietra che ricorda una famiglia illustre, la famiglia Bigotti di Sala Consilina, paese vicino Padula.

Fig. 5 - Lastra tombale dei Bigotti. Credits: https://www.facebook.com/certosadipadula/photos/a.10156819508320621/10164200666960621/?type=3.

Circondata dalla scritta HOC OPUS F.F.D. ANTONI ARCHIPSBIT. TERE SALE PANDOLPH IOHES ANTONI E IOHES D BIGOCTIS, tale lastra tombale tramanda il nome di questa famiglia e di coloro che furono dei benefattori per la Certosa, tanto da meritarsi il privilegio di essere sepolti al suo interno. Non a caso si parla di privilegio, perché oltre al fondatore (Tommaso Sanseverino) ed alla menzione di una delle famiglie nobili di Padula (i Cardona) nessun’altra sepoltura di famiglia è presente in Certosa. Tale privilegio, il cosiddetto “Jus Sepeliendi”, venne probabilmente accordato in quanto i Bigotti, strettamente legati ai certosini di Padula, donarono dei terreni su cui venne poi edificata parte della Certosa di San Lorenzo[2]. Originariamente pare che questa lastra facesse parte di una cappella databile più o meno intorno al ‘400, detta di San Lorenzo, di proprietà della famiglia; in seguito poi agli ampliamenti settecenteschi tale cappella fu distrutta, ma i certosini conservarono la lastra tombale inserendola nella nuova pavimentazione.[3]

Fig. 6 - Lastra tombale dei Bigotti all'interno della pavimentazione.

Lo stemma presente sulla lastra riporta uno scudo centrale su cui nella parte superiore è raffigurato un levriero (segno o di nobiltà della famiglia-i levrieri erano le “razze nobili” per eccellenza- o un riferimento al detto latino “cave canem”, ossia attenti al cane, riportato su molti mosaici parietali di Pompei) mentre nella parte inferiore compaiono tre bande trasversali. Com’era comune in questo tipo di rappresentazioni, al di sotto dello scudo gentilizio compaiono due cherubini.

Ritornando alla Sala delle Campane, la particolarità di quest’ambiente risiede nel fatto che esso è un crocevia, uno slargo da cui è possibile accedere a tre differenti ambienti: da sinistra a destra si aprono infatti la Sala del Tesoro, la Sala del Capitolo e l’ingresso al chiostrino del Cimitero antico.

La Sala del Tesoro

Fig. 7 - La Sala del Tesoro.

La Sala del Tesoro è un’aula unica rettangolare, con due file di armadi in noce decorati in radica di ulivo, i cui riquadri sono intervallati da paraste lignee scanalate con capitello corinzieggiante che ne movimentano la superficie; essi corrono su quasi tutto il perimetro della Sala e un tempo erano destinati ad accogliere e custodire gli arredi sacri e le preziose suppellettili della Certosa.

Fig. 8 - Gli armadi della Sala del Tesoro, particolare.

Nel libro di Thomas Salmon del 1763, Lo stato presente di tutti i Paesi, e Popoli del Mondo naturale, politico e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi, e moderni viaggiatori, volume 23, sono descritti minuziosamente alcuni di questi preziosi arredi, tra cui si annoveravano “…un Paliotto per il Maggior Altare con de’ rilievi, disegno particolare del Solimeno, due vasi con fiori, pure di argento che non si conoscono gli eguali in Europa, e due Croci l’una d’argento e l’altra d’avorio, entrambe di rarissimo disegno, e lavoro”[4].. Menzione a parte merita il Crocifisso d’avorio, opera di piccole dimensioni che la leggenda vuole essere opera di Michelangelo (come il ciborio nella sacrestia) e che scampò alle razzie dei francesi, fortuna che non toccò purtroppo agli affreschi e alle decorazioni parietali, come suggeriscono malinconicamente le cornici vuote sulle pareti. Il crocifisso, dopo l’eversione ecclesiastica del 1866, fu donato alla Chiesa Madre di Padula, venendo però rubato dopo poco tempo.

Sulla volta dell’aula compare una cornice in stucco che ne percorre sinuosamente tutta la superficie e la scandisce in due grandi riquadri, separati da conchiglie allungate; restano le tracce, in uno di questi, di un grande affresco raffigurante La caduta degli angeli ribelli, definito sempre dal Salmon <<a fresco di buon pennello>>.

Fig. 9 - La volta della Sala del Tesoro.

La decorazione continua ricoprendo interamente il soffitto a crociera, inglobando altri due riquadri presenti sulle pareti laterali e fondendosi con l’altare.

Fig. 10 - L'altare della Sala del Tesoro.

Preceduto da tre gradini che lo sopraelevano rispetto al pavimento a gradini tridimensionali, esso presenta al centro un paliotto in scagliola, mentre al di sopra si ergono due colonne che reggono una trabeazione: al centro, subito sopra l’altare, un riquadro bianco che doveva contenere un affresco o un dipinto su tela, che secondo il Salmon era una tavola del De Matteis, pittore cilentano di grande bravura[5]. Ai lati, in due nicchie, vi sono due statue, probabilmente due santi o due magistrati romani secondo alcune interpretazioni. Al sommo della cornice architettonica vi è probabilmente un Cristo in gloria preceduto da angeli, mentre seduti ai due lati della cornice vi sono due angioletti. Un tempo si accedeva a questa Sala mediante una porta situata alle spalle dell’altare maggiore della chiesa.

Fig. 11 - La porta che conduce nella Sala del Tesoro, situata dietro l'altare maggiore della chiesa.

La Sala del Capitolo

Fig. 12 - La Sala del Capitolo.

Adiacente alla Sala del Tesoro è la Sala del Capitolo dei padri, un luogo che aveva una doppia funzione. La prima era connessa alla burocrazia, in quanto il Capitolo era il luogo ove i monaci si occupavano delle questioni inerenti all’amministrazione della Certosa di San Lorenzo: se la chiesa era il fulcro spirituale di tutto il complesso certosino, questa sala ne era il fulcro burocratico. Qui si eleggeva ad esempio il Priore, si ammettevano nuovi monaci all’Ordine e sempre qui si discutevano gli atti e gli adempimenti burocratici; non tutti i monaci potevano partecipare a queste riunioni, e sembra che il modo di dire “non avere voce in capitolo” derivi proprio da queste pratiche.

La seconda funzione era quella salvifica: qui infatti si potevano pubblicamente confessare i propri peccati, e ricevere la conseguente punizione in nome della capacità di redenzione propria della regola certosina: proprio per sottolineare questo concetto fu immaginato il programma decorativo sulla volta, che comprende La guarigione di un paralitico, La resurrezione di Lazzaro e La guarigione di un cieco.

Fig. 13 - La volta della Sala del Capitolo.

Nell’ambiente, ad aula unica rettangolare absidata circondata da stalli lignei, spicca l’altare in pietra di Padula attribuito a Andrea Carrara, scultore padulese settecentesco di grande abilità che operò in Certosa sia come capomastro sia come professionalità singola, scolpendo anche alcuni elementi della facciata e alcune metope del Chiostro Grande. Interessante è su questo altare, che è situato su una sopraelevazione rispetto al pavimento della Sala e che ha ulteriori tre gradini al di sotto, la lavorazione della pietra, volutamente lasciata quasi grezza, che “costringe” ad avvicinarsi per svelare il motivo floreale che cela e che contrasta con le volute più lisce poste ai lati.

Fig. 14 - Particolare altare della Sala del Capitolo.

L’altare è sormontato dal dipinto Madonna con San Bruno e San Lorenzo, ascrivibile al XVIII secolo ed inserito in una cornice a stucco a dettagli dorati, uno dei pochi ad essere scampato alle razzie francesi.

Fig. 15 - Altare della Sala del Capitolo.

Ai due lati dell’altare sono inseriti due medaglioni in stucco, l’uno raffigurante una donna in abiti religiosi con in mano una rosa, con molta probabilità Santa Rita, mentre l’altro, che ritrae una donna in lacrime su un teschio, potrebbe essere una rappresentazione della Maddalena penitente: tale doppia rappresentazione potrebbe alludere al perdono (Santa Rita viene anche chiamata la Santa del perdono) e al pentimento (la Maddalena). I due medaglioni sovrastano due porte: quella al di sotto della Vergine conduceva dirimpetto alla Cappella del Fondatore situata nel cimitero antico, mentre l’altra dirimpetto o era finta, quindi messa lì per motivi di simmetria con la precedente, o conduceva in un altro ambiente attiguo alla Sala del tesoro.

Sempre nello stesso ambiente, arricchito da stucchi settecenteschi e cornici purtroppo vuote, vi sono quattro statue (San Giuseppe, San Lorenzo, Tobia e l’angelo e San Giovanni) attribuite a Domenico Lemnico, scultore napoletano che operò moltissimo in ambito certosino fino al punto di prendere i voti, e che era allievo del Vaccaro.

Al di sopra dell’altare una cupola, inserita su una fascia marcapiano aggettante, dà slancio verticale a tutta la sala, ed inonda di luce naturale in maniera opportuna e scenografica l’altare.

Fig. 22 - La cupola della Sala del Capitolo.

 

Note

[1] Secondo alcuni, i monaci preannunciavano il loro ingresso in chiesa proprio attraverso i rintocchi delle campane.

[2] Dalle ricerche di Michele Cartusciello, direttore del Museo del Cognome di Padula. http://museodelcognome.it/

[3] Cfr. M.T. D’Alessio, "La sepoltura della famiglia Bigotti nella Certosa di Padula".

[4] G. Lapadula, “La Certosa di San Lorenzo”, Matonti editore, 2009, pag. 50

[5] Paolo De Matteis (Piano Vetrale, 9 febbraio 1662 – Napoli, 26 luglio 1728) è stato un pittore italiano allievo di Luca Giordano, attivo in particolare nel Regno di Napoli tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento. https://www.museionline.info/pittori/paolo-de-matteis

 

Bibliografia

M.T. D’Alessio, La sepoltura della famiglia Bigotti nella Certosa di Padula.

M.T. D’Alessio, La Certosa di San Lorenzo a Padula, Naus, 2018.

Salmon, Lo stato presente di tutti i Paesi, e Popoli del Mondo naturale, politico e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi, e moderni viaggiatori, volume 23, Albrizzi, Venezia 1763.

Lapadula, La Certosa di San Lorenzo, Matonti editore, 2009.

Strocchia, Le carte dell'Archivio della Certosa di Padula: inventario analitico delle carte del Fondo Corporazioni religiose soppresse nell'Archivio di Stato di Napoli, Laveglia Carlone, 2009.

M.C. Gallo, Tipi e forme degli ammodernamenti barocchi nel Salernitano, Laveglia, 2004.

 

Sitografia

https://www.museionline.info/pittori/paolo-de-matteis

http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/la-certosa-padula

 

Fotografie proprie


CIGOLI, IL PAESE DI LUDOVICO CARDI

A cura di Luisa Generali

Introduzione

Poco distante da San Miniato, in provincia di Pisa, sorge su un’altura il borgo di Cigoli (fig.1), dove nel 1559 nacque da un’agiata famiglia il celebre pittore delle lune galileiane Ludovico Cardi (1559-1613), passato alla storia con lo pseudonimo del suo luogo natale: “il Cigoli”.

Fig. 1 - Veduta di Cigoli (PI). Credits: www.madrebimbicigoli.it.

Nel 1913, in occasione dei trecento anni dalla morte, il paese celebrò la memoria del Cardi erigendo nella piazzetta centrale un monumento del cigolese, rappresentato a mezzo busto con una fierezza tipicamente ottocentesca che voleva omaggiare l’integrità morale dell’artista (fig.2). L’opera prende ispirazione dalle sembianze reali del Cigoli, tramandate grazie a vari ritratti e autoritratti noti, tra cui il più celebre conservato agli Uffizi e dipinto negli anni fra il 1604 e il 1606 nel culmine della sua attività (fig.3). Qui il pittore si ritrae consapevole del suo status sociale, già acclamato dalla corte granducale come un vanto per Firenze, tanto che lo stesso Granduca Ferdinando I nel 1604 volle che la sua fama di pittore, come rappresentante della grandezza dell’arte fiorentina, si ampliasse anche nel panorama artistico romano. La figura del Cigoli si staglia palpitante su uno sfondo scuro, attraversato da un bagliore caldo che illumina e al contempo ombreggia i lineamenti del suo viso, l’elegante casacca e il vistoso cappello in pelliccia. All’altezza del petto la luce schiarisce appena anche la mano dell’artista mentre tiene i pennelli e un compasso, strumento simbolo dell’architettura a cui si dedicò grazie agli insegnamenti appresi nella bottega di Bernardo Buontalenti (1531-1608). Lo sguardo di sbieco rivolto allo spettatore fa trasparire un animo vigile e attento ma anche una vena malinconica, tipica di una personalità sensibile, come Filippo Baldinucci, nel suo testo Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua (ultimi decenni del Seicento), ricorda nell’incipit della vita dedicata al pittore:

 

Ludovico Cardi da Cigoli, il quale essendo stato da natura arricchito di un'animo nobilissimo, di bontà, e di prudenza, d'amorevole tratto, e di tutte quelle doti, che vagliono a render unuomo naturalmente perfetto […]”.

È proprio Baldinucci che ripercorre le esperienze giovanili del Cardi fra Cigoli e la cittadina d’Empoli, dove iniziò la sua erudizione intellettuale qualche tempo prima del definitivo “salto” a Firenze:

 

Venne poi questa famiglia ad abitare nella Terra d'Empoli, sette miglia lontana da Cigoli verso Firenze, ritenendo però sempre in esso Castello di Cigoli sua Casa, Villa, che dir la vogliamo […].

[…] Ne sarà cosa difficile il venire in cognizione dello spirito grande, che egli diede a conoscere in sé stesso, ne' primi anni di sua fanciullezza mentre sappiamo, che l'applicarlo allo studio delle lettere umane, furono i primi pensieri del Padre suo. Studiò egli adunque nella Terra d'Empoli appresso un molto Letterato Sacerdote, chiamato Bastiano, soprannominato Morellone, sino all'età di 13 anni con tanta apertura d'ingegno, che gli bastò quel poco, per poter poi in età cresciuto dar saggio di sé, con sue belle composizioni, nelle più famose Accademie di nostra Città […].

 

Inoltre il biografo racconta i tormenti adolescenziali del giovane Cigoli che, seguendo gli spostamenti del Padre alla volta di Firenze, si trovò in bilico fra la passione per lo studio delle lettere, caldeggiate dalla stessa famiglia, e l’arte che aveva avuto modo di conoscere nella capitale toscana e alla quale presto cedette entrando nella bottega di Alessandro Allori (1535-1607), allievo prediletto ed erede del Bronzino:

 

[…] ma Lodovico il figliuolo scoprendo ogni di più suo naturale talento, e l'alto genio alle buone arti, datosi a vedere le stupende Pitture di questa Città, sentissi così forte stimolare dal desiderio d' applicare anche a cose di Disegno che ormai non poteasi riconoscere in lui, quale de' due affetti, o quello delle lettere, o quello di sì bell'Arte, maggiormente occupasse i suoi pensieri, perché in un tempo stesso mescolando l'uso di questa, e di quelle, e studiava sopra i libri, e disegnava sopra carte, piccole, e spiritose figure, sin che vinta finalmente sua volontà dall'amore della Pittura fu d'uopo al Padre, benché contro sua voglia, ad essa applicarlo.

 

Nonostante il trasferimento a Firenze fu sempre forte il legame con Cigoli, dove fece ritorno per tre anni in seguito a dei problemi di salute derivati dall’aria insalubre respirata nei laboratori anatomici del suo maestro, utilizzati per lo studio dal vero sui cadaveri:

 

Aveva Alessandro Allori alcune stanze per entro i Chiostri della Venerabile Basilica di S. Lorenzo, ove, come studioso che egli era della Notomia, introduceva del continuo umani Cadaveri, cuegli scorticando, e tagliando a suo bisogno, ed al giovanetto Cigoli, non so sé per far compagnia al Maestro, o pure per appagare suo gran genio in quegli studij tanto necessarj all'Arte sua, veniva fatto il passare i giorni, e talora l'intere notti fra quelle malinconiche operazioni, quando non potendo a lungo andare sua tenera età far riparo alla violenza, che facevano a' suoi sensi gli odori corrotti, e gli spaventosi aspetti di quei morti, aggiunta l'immobile fissazione, con che egli gl'andava osservando, e disegnando, finalmente gli fu forza il cadere sotto il peso d'una mala sanità, che oltre i più altri travagli, che gli apportava, non solo gl'impediva l'uso delle membra, ma di quando in quando facevalo patire accidenti di mal caduto, tarto, che egli fu obligato da' Medici, a fine di campare sua vita, ad abbandonare Firenze, ed all'aria nativa ritirarli nella sua Villa di Cigoli […]”.

 

Tornato a Firenze dopo il turbolento periodo di degenza, a cui si unì anche il lutto dei genitori, la carriera di Ludovico Cardi fu finalmente pronta a decollare grazie alla frequentazione della bottega del Buontalenti che lo introdusse alla corte medicea e a certi entourage intellettuali, dove conobbe e divenne amico del grande scienziato Galileo Galilei (1564-1642). Dopo l’immatricolazione all’Accademia del Disegno nel 1578 e l’apertura di una propria bottega insieme al pittore Gregorio Pagani (1559-1605), le prime commissioni granducali sancirono così la consacrazione definitiva dell’artista, tanto da giungere a Roma dove per la committenza di Papa Paolo V Borghese, tra il 1610 e il 1612, affrescò la cupola della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, rappresentando la celebre Immacolata Concezione con la luna come scientificamente osservata al telescopio da Galilei.

Le opere nel territorio circostante Cigoli

Il legame di Ludovico Cardi con il suo territorio d’origine emerge anche artisticamente nelle opere pittoriche attorno ai luoghi della sua giovinezza, per cui fu molto attivo a più riprese durante tutta la carriera con commissioni di tipo devozionale. Il primo esempio dell’evoluzione stilistica del pittore è la tavola raffigurante il Noli me tangere, capolavoro datato intorno al 1580-90, per il Conservatorio di Santa Chiara a San Miniato, dove si trova ancora oggi (fig.4). Il dipinto rappresenta l’incontro tra Cristo risorto e la Maddalena che, in uno slancio di entusiasmo nel riconoscere il Redentore, viene fermata da quest’ultimo dicendole di non toccarlo. Qui il Cigoli dimostra già una sicura dimestichezza prospettica che si nota nella staccionata in progressivo digradare sullo sfondo, insieme a un controllo modulato della luce e delle ombre. Lo stile appare ancora condizionato dell’insegnamento manierista del maestro, ben visibile nelle forme levigate della Maddalena, mentre inizia ad emergere l’interesse per l’uso morbido del colore irradiato da una luce calda che rende la fisicità del Cristo molto più naturale.

Fig. 4 - Ludovico Cardi detto il Cigoli, Noli me tangere, 1580-1590, San Miniato, Museo del Conservatorio di Santa Chiara. Credits: www.tempoliberotoscana.it.

Fu proprio questo transito dalla tradizione fiorentina verso il colorismo padano-veneto la cifra distintiva del Cardi, non a caso chiamato “il Tiziano, e 'l Coreggio fiorentino, come riportato dallo stesso Baldinucci, e che via via andò sempre più perfezionando, mitigato anche dall’opera contemporanea del pittore urbinate Federico Barocci (1528/1535-1612) che lo avvicinò allo studio di Correggio (1489-1534) e della pittura Veneta, tanto da far supporre la possibilità di un viaggio-studio dello stesso Cigoli nel nord Italia fra gli anni 1586-1587.

Tra i luoghi del Cigoli fu senz’altro Empoli il territorio nel quale ricevette più committenze, agevolato dalla conoscenza della sua famiglia proprio in questa cittadina dove aveva ricevuto la sua prima formazione, ma anche dal vivace clima religioso e culturale in stretta relazione con Firenze. Tra le opere empolesi ricordiamo l’Immacolata Concezione, datata al 1590 circa, per la Chiesa di San Michele Arcangelo nella località di Pontorme (fig.5), luogo natio di Jacopo Carucci noto come il Pontormo (1494-1557), che fu tra i modelli massimi di riferimento per lo stesso Cigoli. Elaborata sugli esempi iconografici vasariani, l’opera emana un’austera sacralità personificata dalla visione della Vergine, di una bellezza incantevole, avvolta in una veste sgargiante e inserita in un contesto celestiale animato da cangiantismi. Sotto i suoi piedi si spiegano due grandi ali che dividono la scena tra il mondo divino dell’apparizione e quello terreno, dove insieme ad Adamo ed Eva contorti in pose michelangiolesche presenziano diversi personaggi dell’antico testamento. La parte centrale, andata persa per un principio d’incendio, lascia ancora intravedere la falce di luna e le ali del demonio qui rappresentate in maniera inconsueta a metà tra quelle di un pipistrello e quelle di una farfalla, più precisamente avvicinabili nel manto a delle ali di una falena per cui diversi riferimenti simbolici ed etimologici farebbero supporre ciò: la falena è infatti un insetto della notte, in passato avvicinato al male e alla sventura, e come la farfalla simbolo di vanità e bellezza effimera. Inoltre, la falena è fatalmente attratta dalla luce che ne costituisce anche la radice originaria della parola (dal greco phos = luce), la stessa che contraddistingue anche in nome di Lucifero (portatore di luce), l’angelo ribelle che peccando di superbia volle sfidare Dio. Un’altra analogia riguarda proprio la livrea di questi insetti, spesso disegnata con motivi che ricordano immagini macabre come teschi e inquietanti mascheroni, a cui sembra ispirarsi anche il Cigoli.

Fig. 5 - Ludovico Cardi detto il Cigoli, Immacolata Concezione, 1590, Pontorme (Empoli), Chiesa di San Michele. Credits: firenze.repubblica.it.

Sempre a Empoli per la Chiesa di Pianezzoli nel 1593 il Cardi lavorò alla Madonna col Bambino fra i Santi Michele Arcangelo e Pietro, oggi conservata al Museo d’Arte Sacra di San Miniato (fig.6). L’impostazione classica e devozionale in linea con la controriforma è vivacizzata dai dettagli della pesatura delle anime sulla bilancia, a cui il demonio, sconfitto sotto i piedi dell’Arcangelo Michele, si aggrappa in un ultimo scatto vitale, facendo abbassare verso gli inferi l’anima peccatrice e alzare verso la Vergine l’anima pia. Il volto di Maria tradisce un chiaro rimando a Correggio e Leonardo, mentre l’impostazione scenica, così come le figure dei due Santi, sono ancora memori del linguaggio manierista fiorentino.

Fig. 6 - Ludovico Cardi detto il Cigoli, Madonna col bambino fra i Santi Michele arcangelo e Pietro, 1593, San Miniato, Museo diocesano d’Arte Sacra. Credits: firenze.repubblica.it.

Fa parte di questo periodo (1595 c.) La Madonna del Rosario tra i Santi Domenico di Guzman, Monica ed Agostino Vescovo, conservata a Pontedera (Pisa) nella Chiesa del Crocifisso, che mostra un naturalismo ancor più spiccato ed evidente nel morbido incarnato dei volti e nella gestualità dinamica delle figure (fig.7). Sono temporalmente vicine anche le due tele raffiguranti la Resurrezione di Lazzaro (fig.8), per il Conservatorio di Santa Marta a Montopoli (Pisa), datata al 1598, e il San Pietro che cammina sulle acque (fig.9) per la Chiesa di San Pietro a Riottoli a Empoli (1599). Quest’ultima un secolo più tardi (come avvenne per molti dipinti del Cigoli e non solo) attirò le attenzioni dell’avido collezionista mediceo, il Gran Principe Ferdinando (1663-1713), che volle trasferire a Firenze nelle sue raccolte un nucleo importante dell’opera del Cigoli, oggi esposto alla Galleria Palatina. In entrambe i dipinti sopracitati si nota come l’artista si sia soffermato sulla caratterizzazione della figura dolce e mite di Cristo, derivata dallo studio di Correggio, a cui combina certi particolari iconografici ricorrenti, come l’aureola rossa a forma di croce.

Sempre a Empoli, facendo un balzo in avanti nel 1608, Ludovico Cardi realizzò per la Compagnia della Croce nella Chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani la struggente Deposizione (fig.10), già afferente al suo ultimo periodo, influenzato dal suo soggiorno a Roma: qui Cigoli rimase fortemente condizionato dal classicismo dei Carracci che ebbe modo di frequentare, mentre la conoscenza del naturalismo disarmante di Caravaggio sembrò solo sfiorarlo, troppo lontano da quel linguaggio tradizionale a cui il pittore era ancora attaccato. Nella Deposizione empolese le due componenti romane sono comunque ben ravvisabili nelle atmosfere ombrose che mirano a far risaltare il classicissimo corpo eburneo di Cristo. Anche in questo caso l’opera empolese fu sottratta dal luogo originario per cui fu pensata dal Gran Principe Ferdinando che la fece sostituire con una copia di Anton Domenico Gabbiani (1652-1726), mentre l’originale è conservato alla Galleria Palatina.

Fig. 10 - Ludovico Cardi detto il Cigoli, Deposizione, commissionata nel 1594 c. e realizzata nel 1608, Firenze, Galleria Palatina. Credits: www.gonews.it20190419tiziano-perugino-rubens-pasqua-la-mostra-online-degli-uffizi.

Le opere a Cigoli

E’ del 1598 la tavoletta votiva che ci riporta a Cigoli tra gli ex voto dedicati alla miracolosa effigie lignea della Madonna dei Bambini; infatti se ci troviamo nei dintorni di San Miniato non si potrà non notare lo slanciato prospetto del Santuario della Madre dei Bimbi che domina il colle di Cigoli nel punto più alto del paese, epicentro di un culto secolare legato ad una serie di miracoli mariani destinati ai bambini, ancora oggi molto sentito dai fedeli. L’aspetto odierno della facciata fa parte di un progetto ottocentesco (1870-1873) volto a sacralizzare il luogo miracoloso e per questo pensato come un tempio della cristianità, scandito da paraste con coronamento a punte, mentre la parte centrale è conclusa da un frontone (fig.11).

Fig. 11 - Facciata del Santuario della Madonna dei Bambini, 1870-1873, Cigoli. Credits: www.smartarc.blogspot.com.

Già documentato nel 1194 l’impianto originale della chiesa, intitolata a San Michele, venne modificato con l’arrivo a Cigoli dei frati Umiliati della congregazione di Ognissanti di Firenze intorno alla metà del XIV secolo, periodo in cui è stato datato anche il rilievo ligneo policromo raffigurante la taumaturgica Madonna col bambino, considerato dagli studiosi come d’ambito fiorentino dipendente dai modelli cimabueschi e giotteschi (fig.12-13-14). Enigmatiche rimangono ancora le numerose varianti di Maestà diffuse nel territorio lucchese e pisano, come la Madonna dei Vetturini (fig.15) attribuita storicamente a Nino Pisano (ora al Museo Nazionale di San Matteo a Pisa), che hanno fatto pensare alla possibilità di una diretta dipendenza dall’esempio cigolese.

Il culto intorno alla Madonna dei Bambini si risvegliò a Cigoli nel 1451, quando la Vergine, che disse di “chiamarsi Maria e di abitare a Cigoli fra Rocco e Michele” (le due chiese del paese), apparve ad una donna che aveva perso il figlio dopo il parto, riportando in vita il neonato. A questo fatto, riconosciuto ufficialmente dalla Santa Sede nel Settecento, seguirono una serie di eventi divini testimoniati dalla grande quantità di ex voto di diverse epoche e tipologie, fra cui si trova anche un piccolo omaggio pittorico attribuito all’ambito di Ludovico Cardi, conservato nel Museo d’Arte Sacra di San Miniato (fig.16).

Fig. 16 - Ludovico Cardi detto il Cigoli e bottega, Ex voto per il nipote, 1598, Cigoli, Santuario della Madonna dei Bambini. Credits: Wikipedia.

Nel 1598, infatti, il pittore fece dono di questa tavoletta votiva al santuario per la grazia ricevuta del nipote Giovanni Battista[1], nato zoppo, che per intercessione della Vergine di Cigoli guarì miracolosamente. L’operetta rappresenta il bambino in adorazione dinnanzi al tabernacolo gotico che ancora oggi custodisce il simulacro, affiancato dalla madre che indica al fanciullo l’immagine sacra a cui rivolgere le sue preghiere. Stilisticamente la tavola conserva delle caratteristiche figurative molto semplici, tipiche di un linguaggio popolare ed intuitivo, forse frutto di un lavoro di bottega che al di là dell’opera d’arte doveva piuttosto significare il ricordo e la riconoscenza per l’avvenuta guarigione. Questo episodio della vita del Cigoli, tramandato grazie all’ex voto e legato alle sue vicende familiari, costituisce più che mai una testimonianza concreta dell’affezione profonda che univa l’artista con le radici tradizionali e religiose del suo paese.

 

Note

[1] Successivamente biografo dello zio nella stesura del testo Vita di Lodovico Cardi Cigoli: 1559-1613.

 

Bibliografia

Grassi, “Ancora il Cigoli a Figline: (con una data per Tommaso Gherardini)”, Paragone, Anno 69, terza serie, numero 138 (marzo 2018), pp. 66-77.

Guicciardini Salini, D. Parri, Omaggio al Cigoli, brochure per la mostra in occasione dei 400° anniversario alla morte, 9-24/11/2013 Palazzo Grifoni – San Miniato (PI).

Siemoni, S. Pucci, Tre autori per un unico tema La deposizione dalla croce- Studi, scoperte e restauri in Santo Stefano, Empoli 2014.

Macchi, Lodovico Cardi detto il Cigoli, il suo ambiente e la sua terra d'origine, prefazione di Roberto Paolo Ciardi, Pisa 2009.

Barbolani Di Montauto, Lodovico Cigoli: i committenti figlinesi, l'amicizia col Pagani e il "colorire naturale e vero, Il Cigoli ei suoi amici-colorire naturale e vero, a cura di Novella Barbolani di Montauto, Figline Valdarno, Palazzo Pretorio, Chiesa dell'antico Spedale Serristori, 18 ottobre 2008 - 18 gennaio 2009, 2008 Figline, pp. 19-38.

Siemoni, Chiese, cappelle, oratori del territorio empolese, Santa Croce 1997.

 

Sitografia

Chappell CARDI, Lodovico, detto il Cigoli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 19 (1976): https://www.treccani.it/enciclopedia/cardi-lodovico-detto-il-cigoli_%28Dizionario-Biografico%29/

Per la Vita di Ludovico Cardi detto il Cigoli nelle notizie dei Professori di Filippo Baldinucci: http://smartarc.blogspot.com/2016/09/la-biografica-di-lodovico-cardi-detto-il-cigoli-nelle-notizie-de-professori-di-filippo-baldinucci.html

Per il rinnovo della facciata di Cigoli: http://smartarc.blogspot.com/2016/05/il-rinnovamento-della-chiesa-di-cigoli-nell-800.html

Per il Santuario della Madonna dei Bambini a Cigoli: https://www.madrebimbicigoli.it/index.php?c=3

Per la Madonna dei Vetturini: https://www.turismo.pisa.it/cultura/dettaglio/Madonna-dei-Vetturini